Gesù racconta una parabola sulla preghiera, per dire come il Signore non tarderà ad intervenire a favore di chi lo invoca senza scoraggiarsi. La scena rappresenta la figura di un giudice disonesto, che alla fine si risolve positivamente grazie all’insistenza di una povera vedova – segno della dipendenza e della fragilità sociale. Niente a che a fare con la disposizione di Dio verso di noi, ma con una situazione tutta umana, apparentemente disperata, come spesso accade tra chi è potente e chi non conta nulla. In effetti, può capitare che una buona azione possa derivare da una cattiva intenzione: a volte, qualcuno è costretto a fare giustizia senza crederci davvero. A questo primo livello, il racconto diventa un incentivo a lottare per la giustizia, con tutte le proprie forze, senza violenza, specialmente da parte di chi è solo e senza protezione, come avviene anche oggi per molte donne offese, abbandonate e violentate.
Ma l’esempio vale soprattutto a segnare la differenza: non avviene così tra il Signore e noi, quando ci rivolgiamo a Lui con fiducia. Accade però che scambiamo l’essere ascoltati con l’essere esauditi, e questo potrebbe scoraggiare, perché non vediamo l’effetto della preghiera, come se il Signore fosse disinteressato. Dunque, non si tratta di strappargli grazie a forza di insistere, quanto di affidarsi ai suoi tempi, che non sono i nostri.
La certezza del suo amore viene spesso messa alla prova, specialmente quando domandiamo cose di cui abbiamo urgenza, come la guarigione dalla malattia, la pace tra familiari, la giustizia, il pane, il lavoro e ogni altro bene di cui siamo privati. Qui emerge un punto nodale del rapporto tra il credente e il Signore, che ci assicura: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Mt 7,7). E allora perché tarda ad arrivare ciò che chiediamo?
Lo sguardo di Gesù ci invita a rovesciare la prospettiva: se Dio non esaudisce le nostre richieste, tuttavia mantiene le sue promesse. «Lui che non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha consegnato per tutti noi, come non ci farà dono con lui di ogni cosa?» (Rm 8,32). Mentre noi aspettiamo dal Signore cose buone, Egli invece ci dona il suo Figlio. Pare che tra la domanda e l’offerta non ci sia corrispondenza. A noi sembra non esaudita la richiesta, eppure il suo dono la supera: la presenza di Gesù accanto a noi è sorgente di ogni bene, anche maggiore di ciò che chiediamo. La prospettiva di fede trasforma la preghiera nella disposizione ad accogliere quanto il Signore ci ha promesso e già offerto: il suo amore, a noi sconosciuto. Non sarà l’insistenza affannosa ad ottenere, come se fosse chiusa la porta del cuore di Dio; è piuttosto quella del nostro a spalancarsi per ricevere quel bene che fatichiamo a riconoscere. La questione, in definitiva, è quella della fede di chi non misura Dio col metro umano – del potente distratto dal quale invocare benefici – ma del padre buono che si prende cura di tutti i suoi figli con amore provvidente, con i suoi tempi e le sue modalità, da attendere con pazienza, senza scoraggiarsi; al quale domandare lo Spirito santo, per imparare a pregare, perché neppure sappiamo cosa ci conviene domandare (cf. Rm 8,26).
don Maurizio