Testi omelie

14 maggio: VI Domenica di Pasqua

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 14,15-21

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.
Non vi lascerò orfani: verrò da voi. Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi.
Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».

Nelle ultime domeniche del tempo pasquale, il quarto vangelo ci presenta l’annuncio dello Spirito santo – chiamato Paràclito – che Gesù rivolge ai suoi discepoli. «E io pregherò il Padre, e vi darà un altro Paràclito a confortarvi, perché resti sempre insieme a voi: lo Spirito della verità». È uno strano titolo, con diversi significati: avvocato, difensore, consolatore; che fa pensare al loro bisogno di protezione, una volta che il Maestro se ne sarà andato. Gesù è in partenza, sa che tra breve dovrà lasciare i discepoli, quindi si preoccupa di rassicurarli: «Non vi lascio orfani, sto per venire a voi! Ancora un poco, e il mondo non mi vede più. Ma voi mi vedrete, poiché io vivo, e anche voi vivrete».

In prossimità di un distacco, chi vuol bene davvero non pensa a sé, ma agli altri. Gesù deve andare, ma vuol rimanere; sembra la fine, in realtà si avvicina un nuovo inizio. E in questo singolare modo di parlare di Gesù, invece di allargarsi la distanza e crescere la solitudine, si affollano persone: sopra il Padre, davanti lo Spirito. Quando la vita del Maestro volge al compimento, l’orizzonte si estende: si fa più chiaro da dove viene e dove va. Per questa ragione il dramma non diventa tragedia.

Quando i discepoli saranno tentati di scoraggiarsi, dovranno ricordare queste parole, per ricominciare a fidarsi della promessa. Solo allora saranno sorpresi dalle certezze: «In quel giorno saprete: io nel Padre mio, e voi in me, e io in voi!». Il legame indistruttibile della comunione nell’amore lo stabilisce Dio, non noi. Quanto più vogliamo trattenere, tanto più perdiamo; ciò che crediamo nostro possesso, in realtà ci sfugge.

Gesù rovescia il nostro modo di pensare, e lo insegna con i fatti. La sua morte non dovremo considerarla una sconfitta, ma come la libera offerta della propria vita per amore. La sua scomparsa non sarà nel nulla, ma tra le braccia del Padre, dalle quali verrà il dono di un altro Consolatore, lo Spirito santo, che è “di verità”, perché aiuta a comprendere che è tutto vero ciò che hanno vissuto con Gesù. Non un sogno svanito nel nulla, ma il principio del mondo nuovo dove comanda l’amore; quel mondo che non tutti vedono, ché si nasconde agli occhi superbi e degli egoisti.

L’insistente raccomandazione ai discepoli, infatti, è proprio questa: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Amare, dunque, comincia col ricordare, custodire, praticare. Le parole contano, possono ferire e uccidere, quelle di Gesù rigenerano e fanno vivere: sarà il Consolatore a metterle nel cuore, e il Difensore a porle sulle labbra. Ma ciò che rimane e non passa sono le sue parole, perché lui è la Parola, il Verbo crocifisso e risorto, colui che permette il venire a noi dello Spirito nel suo andare verso il Padre: l’avvento di Dio nell’esodo pasquale di Gesù.

30 aprile: IV Domenica di Pasqua

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 10, 1-10

In quel tempo, Gesù disse:
«In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore.
Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei».
Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo.
Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza».

La similitudine del buon pastore, impiegata da Gesù nel capitolo 10 del quarto vangelo, oggi comincia con l’immagine della porta del recinto del gregge. I suoi discepoli sono paragonati alle pecore che si fidano del pastore, perché «sanno che è la sua voce», lo seguono al pascolo e tornano al sicuro nell’ovile: Lui le conduce, le fa uscire a mangiare ed entrare per riposare.

È la metafora della comunità cristiana, dove ogni credente impara a stare con gli altri, distinguendo con chiarezza la voce del Signore da quella degli estranei, per il dono della fede ricevuta nel battesimo – che san Tommaso d’Aquino definisce “la porta dei sacramenti”.

Suonano particolarmente forti alcune espressioni di Gesù sui ladri e briganti che cercano di ingannare i suoi amici, i quali, tuttavia: «dietro ad un estraneo non andranno, anzi lo fuggiranno, perché non riconoscono la voce degli estranei!». Merita qui riflettere proprio sulla voce del Signore, che ascoltiamo nella sua Parola e nella coscienza illuminata dalla fede, la cui eco risuona nella preghiera.

Non sempre, però, quando preghiamo, è la sua voce a prevalere. Può capitare, infatti, che cerchiamo di darci ragione, di mettere sulle sue labbra quel che vogliamo sentirci dire o, peggio ancora, di ascoltare solo noi stessi, senza lasciare spazio a Lui, al suo Spirito consolatore.

Un criterio valido per discernere la sua voce da quella degli estranei viene dagli effetti che seguono la preghiera: serenità anche nelle difficoltà, pace nell’animo tormentato e incerto, disposizione benevola verso gli altri, nessun giudizio, cuore misericordioso e paziente nelle tribolazioni.

Quando, invece, si esce dalla preghiera rafforzati nelle proprie convinzioni, nutriti dal bisogno insaziabile di affermazione e di riconoscimento, animati da un improbabile sacro fuoco di giustizia e di verità, è probabile che sia il nemico ad aver seminato zizzania.

Tutto dipende da come si entra nella preghiera e come se ne esce. Se la porta sono io, è facile sprofondare nel vortice dell’autoaffermazione, e rimanervi imbrigliati, trascinandovi gli altri. Perciò, Gesù dice: «la porta sono io: se qualcuno, per entrare, passa da me, si salverà: entrerà, uscirà, troverà pascolo».

Il proprio rapporto con il Signore ha sempre il suo test di verifica nel rapporto con gli altri; per questo Gesù parla di gregge e non di pecore solitarie. La porta indica, infatti, quello spazio di libertà ove ciascuno cresce nella sequela e nella fraternità: mai la prima senza la seconda. La conclusione di Gesù suona, dunque, come un avviso di protezione ed un forte invito al discernimento: «Il ladro viene soltanto a rubare, uccidere, perdere. Io sono venuto perché abbiano la vita, e l’abbiano sovrabbondante!». E la vita in abbondanza non è mai solo per me, ma per tutti.

23 aprile: III Domenica di Pasqua

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 24,13-35

Ed ecco, in quello stesso giorno [il primo della settimana] due dei [discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo.
Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».
Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».
Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

Con il cammino dei due amici di Gesù verso Emmaus sembra concludersi la loro storia di discepoli, dopo la triste fine del Maestro. Parlano tra loro, chiusi nei dolorosi ricordi di quanto avvenuto a Gerusalemme, non si danno spiegazione, non c’è pace nei lori cuori. Delusione, sconforto e ripiegamento occupano i pensieri, e rendono gli occhi tristi.

Sono molto vicini a noi questi due, soprattutto nei momenti in cui siamo tentati dallo scoraggiamento,  schiacciati dalla prova dall’assenza, quando il Signore in cui abbiamo creduto pare abbandonarci. Avviene però che uno sconosciuto si faccia loro prossimo e, provando ad allargare lo sguardo, li ascolti fino in fondo. Ed ecco che dal loro racconto viene fuori una storia non proprio finita nel nulla: «certo alcune donne tra noi ci hanno sconvolti, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione, alcuni di noi sono andati al sepolcro, ma lui non l’hanno visto». Ci sarebbe dunque uno spiraglio di speranza, ma il non vedere prevale, fino a cancellare il sogno.

Il misterioso viandante allora, dopo averli lasciati sfogare, prende la parola con decisione: «O insensati e tardi di cuore…». Comincia con un rimprovero, smaschera l’illusione del riscatto d’Israele in cui avevano sperato: le sofferenze del Cristo avevano un altro fine, la sua gloria, non la loro. E la gloria non viene dai trionfi umani, dalle sconfitte degli altri, ma dal dono della propria vita.

Il cammino riprende, ed è ormai sera. È l’ora del congedo, ognuno va per la propria strada, ma quella che hanno fatto insieme non è stata inutile, si può restare a cena. La scena allora s’illumina: «quando fu a tavola con loro, preso il pane, recitò la benedizione e, spezzatolo, fece per porgerlo loro: allora i loro occhi si aprirono e lo riconobbero».

La delicata pazienza nell’ascoltare i loro lamenti, la chiarezza nel rileggere il senso dei fatti incompresi, il gesto intimo della cena hanno accompagnato il cammino dei due discepoli. C’è stato bisogno di tempo, perciò Gesù li ha presi per mano, e finalmente il loro occhi tristi hanno ritrovato la luce, il loro cuore si è riscaldato di fronte alle sue parole.

Questo è il compendio del vangelo: la compagnia del Signore accanto alle nostre illusioni e sconfitte, il suo attento ascolto del nostro lamento, la sua cura amorosa delle ferite del cuore. Si può sempre ricominciare da dove ci troviamo, anche nel più desolato smarrimento.

La celebrazione della sua parola e il gesto del pane spezzato sono diventate – da due millenni – la memoria viva della sua presenza, dove egli ha voluto essere ricordato. Non sulla croce, da dove se n’è andato, e dalla quale vuole strappare tutti i crocifissi del mondo, ma nella cena. Il più bel regalo che ha voluto lasciare ai suoi primi amici è stato quello di evitar loro l’elaborazione del lutto: tre giorni sono bastati per passare dalla morte alla vita. I discepoli di Emmaus, infatti, non hanno avuto neppure il tempo di sedersi a mensa con il posto vuoto del Maestro, ormai vivo per sempre.

16 aprile: II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 20,19-31

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

Nel brano evangelico di oggi, la visita inattesa del Maestro perduto sorprende gli amici, chiusi in un luogo che ha tutto il sapore del sepolcro. La tristezza per la sconfitta, il timore di fare la stessa fine, il disorientamento hanno avuto il sopravvento. Tutto è avvenuto così rapidamente da impedire pensieri e gesti di reazione sensata.

Ci sono perdite alle quali non si è mai preparati, e questo è il caso dei discepoli di Gesù di Nazaret, il Maestro, ma non ancora il loro Dio e Signore. La passività in cui si trovano costretti dice quanto l’avventura della sequela sia stata tutta nelle mani di Gesù. Loro si sono fidati, anche se poco hanno capito di Lui, ed ora non sanno cosa fare. Quella base sicura alla quale si erano attaccati non c’è più. Tanto avevano faticato per affidarvisi che viene il dubbio di aver sbagliato.

Ma è giunta l’ora di un nuovo inizio: «“Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo». Chissà cosa sarà passato nella loro mente di fronte a queste parole. Di certo lo stupore, la gioia di vedere più che di capire. Se si può ricominciare, vuol dire che niente è perduto per sempre. È quello che desidera ciascuno di noi, dopo il grande dolore per la scomparsa di una persona cara, tanto amata.

Nasce da questo incontro tra Gesù risorto e i suoi amici la speranza per tutti noi, per l’umanità intera. Da quell’evento imprevedibile della sua morte e risurrezione si dischiude un altro mondo rispetto al nostro, dove alla fine facciamo sempre i conti con i dubbi, le paure, le sofferenze, le perdite. Chi ci darà la gioia cui aspiriamo, ma non sappiamo trattenere se non per brevi istanti? Dove trovare un senso a quegli amori che ci hanno dato vita, e poi scompaiono in un attimo, e non li ritroviamo più?

Invece di chiudersi nel ricordo sconsolato, ai discepoli del Signore – come ai credenti di ogni altro tempo, che, «pur non avendo visto, crederanno» – è offerta l’opportunità di ricominciare sempre, qualunque cosa accada nel mondo umano.

La parola “fine” è solo nostra, mai di Dio. Grazie a Gesù, risorto dai morti, oggi impariamo che ogni esistenza fragile, ferita o perduta ha sempre un futuro, che non vediamo, ma c’è. Noi cominciamo a farne esperienza con il dono più prezioso del Crocifisso Risorto: il perdono dei peccati, la sua infinita misericordia. Questo è il segno che la speranza non può morire mai, che anche l’amore donato e ricevuto non avrà mai fine, perché custodito nel cuore immenso di Dio.

Certo, ne potremmo anche dubitare, come Tommaso, ma il Signore Gesù non mancherà di mostrarci piaghe in cui rifugiarci: quelle dei fratelli più deboli che incontriamo lungo la strada, dove il Signore continua a chiederci di riconoscerlo, mendicando di prendercene cura.

9 aprile: Domenica di Pasqua

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 20,1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.
Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

Dal sepolcro la vita è deflagrata.
La morte ha perduto il duro agone.
Comincia un’era nuova:
l’uomo riconciliato nella nuova
alleanza sancita dal tuo sangue
ha dinanzi a sé la via.
Difficile tenersi in quel cammino.
La porta del tuo regno è stretta.
Ora sì, o Redentore, che abbiamo bisogno del tuo aiuto,
ora sì che invochiamo il tuo soccorso,
tu, guida e presidio, non ce lo negare.
L’offesa del mondo è stata immane.
Infinitamente più grande è stato il tuo amore.
Noi con amore ti chiediamo amore.
Amen.

Mario Luzi

26 marzo: V Domenica di Quaresima

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 11, 1-45

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betània, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato. Maria era quella che cosparse di profumo il Signore e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; suo fratello Lazzaro era malato. Le sorelle mandarono dunque a dire a Gesù: «Signore, ecco, colui che tu ami è malato».
All’udire questo, Gesù disse: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato». Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?». Gesù rispose: «Non sono forse dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui».
Disse queste cose e poi soggiunse loro: «Lazzaro, il nostro amico, s’è addormentato; ma io vado a svegliarlo». Gli dissero allora i discepoli: «Signore, se si è addormentato, si salverà». Gesù aveva parlato della morte di lui; essi invece pensarono che parlasse del riposo del sonno. Allora Gesù disse loro apertamente: «Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, affinché voi crediate; ma andiamo da lui!». Allora Tommaso, chiamato Dìdimo, disse agli altri discepoli: «Andiamo anche noi a morire con lui!».
Quando Gesù arrivò, trovò Lazzaro che già da quattro giorni era nel sepolcro. Betània distava da Gerusalemme meno di tre chilometri e molti Giudei erano venuti da Marta e Maria a consolarle per il fratello. Marta dunque, come udì che veniva Gesù, gli andò incontro; Maria invece stava seduta in casa. Marta disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto! Ma anche ora so che qualunque cosa tu chiederai a Dio, Dio te la concederà». Gesù le disse: «Tuo fratello risorgerà». Gli rispose Marta: «So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo».
Dette queste parole, andò a chiamare Maria, sua sorella, e di nascosto le disse: «Il Maestro è qui e ti chiama». Udito questo, ella si alzò subito e andò da lui. Gesù non era entrato nel villaggio, ma si trovava ancora là dove Marta gli era andata incontro. Allora i Giudei, che erano in casa con lei a consolarla, vedendo Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, pensando che andasse a piangere al sepolcro.
Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!». Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: «Dove lo avete posto?». Gli dissero: «Signore, vieni a vedere!». Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?».
Allora Gesù, ancora una volta commosso profondamente, si recò al sepolcro: era una grotta e contro di essa era posta una pietra. Disse Gesù: «Togliete la pietra!». Gli rispose Marta, la sorella del morto: «Signore, manda già cattivo odore: è lì da quattro giorni». Le disse Gesù: «Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?». Tolsero dunque la pietra. Gesù allora alzò gli occhi e disse: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Detto questo, gridò a gran voce: «Lazzaro, vieni fuori!». Il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse loro: «Liberàtelo e lasciàtelo andare».
Molti dei Giudei che erano venuti da Maria, alla vista di ciò che egli aveva compiuto, credettero in lui.

Chi di noi non ha un amico che sta male? Anche Gesù ha conosciuto questa esperienza, e il brano evangelico di oggi ce la racconta nei dettagli. Soprattutto deve aver colpito i presenti alla dolorosa vicenda della scomparsa di Lazzaro il turbamento interiore di Gesù, sconvolto, in lacrime. Anche questa è la storia di un incontro d’amore travolgente, come le precedenti, con la donna samaritana e il cieco nato, dove avviene un profondo cambiamento: dall’aridità della vita all’acqua zampillante della fede, dall’oscurità degli occhi alla scoperta di un volto luminoso, dalla tristezza della morte alla sorpresa della vita.

Sono alcuni segnali di una storia di salvezza a pezzi, che si avvicina al compimento sorprendente della pasqua del Signore, quando tutto apparirà chiaro, ma solo agli occhi dei discepoli, rinnovati dalla fede in Lui: acqua viva, luce del mondo, risurrezione e vita. Anche noi ne siamo parte, introdotti dai tratti somiglianti della donna ferita da amori smarriti, del mendicante abbandonato ai margini della strada, dell’amico perduto e ritrovato.

Marta e Maria mandano a dire a Gesù: «Signore, vedi, colui che ami sta male», ed egli, inspiegabilmente per noi, rimanda la visita di due giorni. Cerca di rassicurare le sorelle: «Questa malattia non è in vista della morte, ma per la gloria di Dio, affinché il Figlio di Dio ne riceva gloria!». Uno strano modo di spostare l’attenzione: dall’amico in fin di vita alla sua gloria. Eppure questo è il modo col quale Gesù continua a rivolgersi a noi, nel momento della prova anche più dolorosa. Se guardiamo a noi, alle nostre pene, soprattutto agli affetti che sentiamo strappati, tutto sembra perduto, anzi, possiamo arrivare a dare la colpa a Gesù: «Se tu fossi stato qui, Signore, mio fratello non sarebbe morto!».

Il racconto prosegue, tutti i personaggi della scena prendono parte al dramma, e Gesù con loro. Mentre, da una parte, egli confida nella potenza del Padre che può strappare dalla morte, dall’altra, avverte tutta la fragilità dell’umano che abbraccia ed in cui è immerso. Gesù non è da solo in questo mondo, per recitare la parte dell’impassibile, totalmente altro da noi. Aveva un amico, e l’ha perduto. Nell’abisso della morte ora è sceso Lazzaro, tra poco toccherà anche a lui. Le vite s’intrecciano, sono travolte insieme, ma la speranza non muore.

«Dove l’avete messo?», chiede ai presenti. «Levate quella pietra!», ordina deciso. «Lazzaro, vieni qui, esci fuori!», grida con voce potente. «Scioglietelo, e lasciatelo andare!», comanda. L’esitazione iniziale cede il passo alla decisione imperativa: Gesù trae fuori dall’ombra di morte con la potenza stessa del Padre che gli ha dato ascolto, ma soprattutto per la forza dirompente del suo affetto, dell’amicizia, dell’amore.

Al povero Lazzaro, che dopo una penosa malattia finalmente aveva trovato la pace del riposo, adesso tocca tornare in vita, per poi morire una seconda volta. Ma ne è valsa la pena, non per sé, ma per tutti gli altri: perché credano che il Padre ha inviato il suo Figlio Gesù: lui è la risurrezione e la vita.

19 marzo: IV Domenica di Quaresima

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 9,1-41

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».

Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».
Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».

Nascere ciechi non sappiamo cosa vuol dire, neppure possiamo immaginarlo. Tra i sensi fisici, la vista è quello che permette di incontrare la mamma, di imparare a riconoscere il primo sguardo accogliente, il sorriso, le lacrime, la vita, l’amore. L’uomo del vangelo di oggi si trova in questa situazione, peraltro aggravata dal giudizio del suo popolo: tutti lo credono segnato dal peccato – suo o dei suoi genitori – perciò abbandonato da Dio e dalla comunità, destinato a mendicare, lasciato ai margini della strada e della vita.

Gesù lo accosta, gli si fa vicino e compie il gesto di una nuova creazione: «sputa per terra, e con lo sputo fa del fango, glielo spalma sugli occhi, e gli dice: “Va’ a lavarti”». L’uomo nuovo è così concepito, ma per venire alla luce vera sarà necessario un parto doloroso. Tutti gli ostacoli che incontrerà per essere accettato segnano la strada della rinascita.

Solo dopo un’infinita serie di inutili interrogatori su come è avvenuta la guarigione, quando ancora una volta sarà cacciato fuori, egli potrà finalmente vedere Gesù, colui che lo ha guarito, e di fronte a Lui nascerà la fede: « “Ecco tu lo vedi: è proprio colui che ti parla!”. Allora dice: “Credo, Signore!”».

Il lungo racconto evangelico mette in evidenza, di proposito, le resistenze di tutte le comparse della scena, proprio per suscitare nei lettori l’istinto di difesa nei confronti del poveraccio inquisito: prima condannato dalla nascita, adesso giudicato per la rinascita.

Ma il protagonista è Gesù – «Fintanto che sono nel mondo, sono luce per il mondo!» – la sua tenerezza, la sua capacità di lasciare che il cieco, che vede e crede, affronti tutte le difficoltà. Questi è icona del discepolo, toccato dal Maestro e Signore, da Lui creato come uomo nuovo, e perciò ostacolato dall’incredulità. Al centro del brano spicca il contrasto tra la presunzione di coloro che pensano di vedere, e giudicano gli altri con superiorità, e l’umiltà di chi riceve grazia immeritata, e riprende coraggio, dopo una vita misera e sconsolata.

Nell’itinerario verso la pasqua del Signore, si affaccia il bagliore di un’intima gioia: non ci sono tenebre in grado di resistere alla sua luce, questa la nostra speranza, Lui ne è la ragione. Come si comprende chiaramente da questo racconto, al Signore non importa nulla dell’ingannevole spiegazione che collega il male fisico a quello morale, la menomazione al peccato, la colpa alla pena. A Lui interessa soltanto che chi brancola nel buio possa incontrare il suo volto, e riconoscerlo come il suo Salvatore, anzi, come il Salvatore di tutti. Tocca a ciascuno di noi scegliere con quale sguardo volgerci a Gesù, e ai fratelli e alle sorelle più deboli.

5 marzo: II Domenica di Quaresima

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 17, 1-9

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».
All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.
Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

Nelle prime tappe del cammino quaresimale di quest’anno liturgico, l’evangelista Matteo ci invita ad accompagnare Gesù in due luoghi simbolici diversi: dal deserto delle tentazioni al monte della trasfigurazione. Seguiranno poi tre incontri, narrati dal quarto evangelista – con la donna samaritana, il cieco nato e Lazzaro –, dove i simboli dell’acqua, della luce e della vita richiamano direttamente l’esperienza del battesimo. Per andare incontro alla pasqua di Gesù, torniamo alla sorgente della nostra fede, quando siamo stati coinvolti nel suo passaggio dalla morte alla vita nuova: lì è avvenuta la nostra prima trasfigurazione.

Oggi, al centro del brano evangelico è la metamorfosi di Gesù: sul monte, in compagnia di tre discepoli, Egli «fu trasformato nell’aspetto davanti a loro». È il maestro che conoscono, eppure appare in modo diverso. La scena sembra surreale, è una visione. Due personaggi cari alla memoria di Israele – Mosè ed Elia – conversano con Gesù. Il passato si fa presente, ed è come se si stessero riavvolgendo i fili di una storia che volge al suo compimento. Se prendiamo il racconto di Luca, veniamo a sapere anche il contenuto del dialogo: «parlavano dell’esito del suo cammino, quello che egli stava per portare a compimento a Gerusalemme».

Lungo questa strada si affaccia, in modo inatteso, una sosta luminosa e sorprendente: il volto di Gesù splende come il sole, le sue vesti diventano candide come la luce. È il destino ultimo, che lo attende oltre l’oscurità della morte, che qui però dura solo un momento: il dono anticipato nella speranza, la promessa cui affidarsi, che non si può trattenere.

All’iniziale stupore incantato di Pietro segue la smarrimento. Troppe cose attraversano la mente e il cuore all’incontro col Signore. I discepoli sono confusi. Giunge persino la voce del Padre dal cielo: «È questo il mio Figlio, l’amato». Avviene dunque qualcosa di simile ad una rivelazione, c’è una scoperta sorprendente, e poi tutto pare tornare alla normalità.

Oggi merita riflettere proprio su questo modo di agire del Signore nella nostra vita. Accadono cose che non abbiamo previsto, che spostano la nostra attenzione: anche nel nostro quotidiano capita di percepire bagliori che rischiarano l’opacità del vivere. Il Signore Gesù ci fa conoscere aspetti di sé e di noi che non immaginavamo.

Questa è l’esperienza della preghiera, dove si mescolano attrazione e distrazione, s’intrecciano solitudine e compagnia, consolazione e timore, voci e silenzi. Tutto di Lui e tutto di noi viene a contatto, eppure ogni cosa sfugge. È il segno che siamo di fronte al Signore, non resta che attendere il nuovo incontro, che Lui saprà offrirci ancora, senza che possiamo trattenerlo. L’esistenza credente funziona così: i discepoli di Gesù lo impareranno proprio dall’esperienza della sua pasqua.  

26 febbraio: I Domenica di Quaresima

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 4,1-11

In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». Ma egli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”».
Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». Allora Gesù gli rispose: «Vàttene, satana! Sta scritto infatti: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

La quaresima inizia con il vangelo delle tentazioni. Gesù è messo alla prova dal diavolo su un’unica questione, proposta in tre modi diversi – il potere – come se fare miracoli e dominare il mondo potessero rivelare il vero volto di Dio.  L’inganno comincia con una premessa – «Se sei Figlio di Dio» – sfidando la sua condizione di Figlio, che dovrebbe prendere il posto di un Padre arrogante, esibizionista, prepotente. Insomma, Gesù dovrebbe assomigliare all’uomo nelle sue ambizioni peggiori, perché questo è il Dio che molti vorrebbero: un padrone delle cose e delle persone.

Gesù non cade nel tranello, risponde ripetutamente: «Sta scritto», si difende prendendo un’altra parola, non la sua, ma quella di Dio. Riconosce così l’autorità della rivelazione che è venuto a compiere, non a sostituire. E il compimento sta nella forma del servo, umile, debole, diverso da quello che ci si aspetta, che alla fine rischia di non assomigliare per nulla al Dio immaginato.

Ma il desiderio di Dio, che il venire nel mondo di Gesù dischiude, si rivolge da un’altra parte: punta al cuore dell’uomo fragile, insicuro, messo alla prova. A questi Gesù si fa simile – «in tutto fuorché nel peccato» – per sostenere ciascuno di noi di fronte al limite, nel momento della tentazione di auto-affermarsi.

La quaresima ci invita a rispondere a questo desiderio di Dio, manifestato da Gesù: stare vicino a noi, alla nostra vulnerabilità, con la parola certa della compagnia, della consolazione, della grazia. Le tre indicazioni che Gesù ci ripete – le abbiamo ascoltate il mercoledì delle ceneri – rispondono a questo desiderio: la preghiera, il digiuno, la carità.

Sono tre modi complementari che ci permettono di stare vicino al Signore e ai fratelli e alle sorelle più poveri, mettendo un po’ da parte noi stessi. Si tratta di amore, non di sacrificio. Sono fatti concreti con i quali ognuno di noi riconosce di non bastare a se stesso, si affida a Gesù, e permette agli altri di non sentirsi da soli.

Se la quaresima non avesse il sapore della compagnia generosa, che nasce dalla preghiera e dalla carità, varrebbe a poco. Si ridurrebbe ad un tentativo di dominio sui propri istinti, regolato solo dalla fragile volontà, con il prevedibile esito di rafforzare l’io solitario. Da questa tentazione vuol liberarci Gesù: la pretesa di cavarcela con le nostre forze. Dunque, è il tempo della grazia che cambia il cuore, apre le mani al misero, muove i passi incontro a chi ha più bisogno. Se tu sei figlio di Dio, condividi la fame di chi non ha pane, soccorri chi cade dai pinnacoli dei templi e si ferisce, mettiti a servizio di tutti quelli che vedi intorno a te.

19 febbraio: VII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 5,38-48
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio e dente per dente”. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.
Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste».

Oggi prosegue il discorso della montagna, col quale Gesù indica ai discepoli la strada «per diventare figli del Padre che è nei cieli», che non sceglie su chi far sorgere il sole o far piovere, perché Egli ama tutti di una tenerezza e di una pazienza infinite. Le indicazioni vengono dal Figlio, da colui che è immagine stessa del Padre: nei gesti rivela il suo volto amorevole e dice le sue parole piene di speranza. Perciò basta guardare a Gesù per accorgersi di come Dio Padre si rivolge a tutti, buoni e cattivi. Il resto, che tocca a noi, è una conseguenza: se sappiamo di essere trattati come figli amati, dobbiamo rapportarci agli altri da fratelli.

Siccome però non è semplice tenerlo a mente, ecco che Gesù ce lo ricorda con esempi concreti. Ma le quattro diverse situazioni che egli rappresenta – lo schiaffo, il patteggiamento, il cammino, il prestito – non sono tutte uguali, né sullo stesso piano.

Quella di “occhio per occhio e dente per dente” ricorda il principio fatto proprio dall’Antico Testamento, ma già sancito dal Codice di Hammurabi (re babilonese dal 1792 al 1750 a.C.), con il quale, mediante la “Legge del Taglione”, si regolava l’eccesso di reazione ad un male ricevuto. Gesù prosegue nel rovesciare gli istinti: al male si risponde col bene, mai con la stessa moneta, Attenzione, però: a chi ti dà uno schiaffo puoi sempre chiedere: “perché mi percuoti?”, come ha fatto Gesù stesso, in modo da non giustificare l’oppressione, ma renderla consapevole, e tentare di limitarla.

La seconda situazione propone il patteggiamento. Se vai in tribunale per una causa che sai di perdere, non insistere inutilmente. Il tuo avversario vuole la tua tunica? Lasciagli anche il mantello. Non ti fare ragione con la ripicca, cedi e chiudi il contenzioso, non vale la pena insistere. È questione di saggezza: a volte la pace si fa cedendo qualcosa in più.

La terza sembra più strana. Uno ti vuole con sé per un lungo tratto di strada, fa pressione perché tu lo accompagni, ti vuole vicino. Non resistere, non trattenerti, stai con lui al di là della sua richiesta, anzi, anticipalo, vai oltre. È la generosità di chi non calcola il proprio tornaconto, e abbassa le difese, perché non ha nulla da perdere quando dona.

L’ultima tocca i beni, il portafoglio, quanto mai caro a chiunque. «A chi ti chiede, da’; e se uno vuole avere un prestito da te, tu non respingerlo». Non tirati indietro di fronte a chi ha bisogno, anzi, non prestare proprio: regala. Così non sarete in due di fronte all’imbarazzo di chiedere indietro e di restituire.

Le indicazioni di Gesù sono concrete e attuali: la reazione pacifica di fronte alla violenza, la negoziazione nelle controversie, la pazienza nel rimanere accanto, il dono senza contraccambio. Quanto abbiamo ancora da imparare per diventare discepoli! Amare i nemici forse è troppo, ma dice la misura del Vangelo, quella che Gesù continua ad usare con chi lo rifiuta provando a prendere il suo posto, facendosi signore dei più deboli. La perfezione del Padre non sarà mai alla nostra portata, ma al suo Figlio basterebbe che provassimo a diventare ciò che siamo: tutti figli, dunque tutti fratelli.

12 febbraio: VI Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 5, 17-37

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna.
Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono.
Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!
Avete inteso che fu detto: “Non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore.
Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna.
Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.
Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno».

La lunga lista di insegnamenti che Gesù impartisce ai suoi discepoli fa parte del cosiddetto discorso della montagna, inaugurato con le beatitudini. Una serie di considerazioni che spaziano dai comandamenti ad altre norme: non uccidere, non commettere adulterio, non sposare una ripudiata, non giurare. Tutte cose regolate dalla legge ebraica, che Gesù non è venuto ad annullare, ma a compiere.

Qual è il senso di questo compimento? Vuol dire che oltre a queste regole ce ne sono altre? Ai comandi giudaici Gesù ne aggiunge altri? In certo senso sì, ma lo fa relativizzando i precedenti: «avete udito che fu detto… e io vi dico…». Non passerà una virgola della Legge, finché non abbia termine, ma soprattutto non passeranno le sue parole, perché sono queste ad oltrepassarla.

La sua logica non è quella di cancellare, entrando in conflitto, ma di spostare lo sguardo in avanti. Rimane indietro il legalismo ottuso di chi si sente a posto e non sovrabbonda di amore – la giustizia degli scribi e dei farisei.

Solo un cuore attento alla persona non si limita a non commettere omicidio: perché, colmo di amore, evita di ferire il fratello con le parole. Chi guarda con il segreto pensiero di possedere, di abusare, di violentare ha un occhio, e talvolta una mano che sarebbe meglio tagliare. Chi butta via l’amore, e lo spregia, non si rende conto che è un disgraziato, perde la grazia ricevuta. Anche se non tutte le storie riescono a durare sempre, mai pentirsi del bene donato e ricevuto: nulla va perduto agli occhi di Dio. Inutile quindi giurare, per farsi ragione nelle sconfitte: Lui solo è testimone della verità nascosta agli occhi.

Le parole di Gesù suonano impegnative, persino troppo dure. In realtà, fanno appello alla coscienza, non si fermano alla norma, e ciò tutela i più deboli, quelli che non ce la fanno ad apparire giusti, e non smettono di lottare con le proprie fragilità, affidandosi al Signore.

Grazie a Lui, ci sono vittime che si rialzano, malati che guariscono, mezzi morti che risorgono dal baratro. Gesù ci assicura di questo: tanti sanno andare oltre la legge, non per trasgredirla, ma per compierla. Sono coloro – e tanti tra noi – che dicono: «sì, se è sì, no, se è no». Tutto ciò che è in più a questo lo lasciano al maligno.

Gesù ci insegna a non cadere nella trappola di contrapporre legge e coscienza. Il discepolo del Signore è chiamato a guardarsi dentro e fuori, al tempo stesso. Dentro: per ascoltare la voce di Dio che risuona nell’intimo e invita all’amore. Fuori: per corrispondere alle esigenze del rispetto e della carità, che evitano di ferire il prossimo, di sostenere i più vulnerabili e di spendersi con generosità, senza tornaconto.

29 gennaio: IV Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Matteo; Mt 5,1-12a

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Le beatitudini che Gesù proclama sul monte sono un potente invito a puntare il nostro sguardo sul presente e sul futuro, in due direzioni diverse e complementari. Da una parte, attraverso un ribaltamento dei valori, Gesù annuncia il riscatto di coloro che sono considerati perdenti in questo mondo. La promessa di Dio è rivolta ai poveri, a coloro che piangono, a chi soffre ingiustizie e ai perseguitati nel suo nome.

D’altra parte, il Signore chiama beati coloro che hanno un cuore mite, misericordioso, limpido, pacifico, perché costruiscono dove altri distruggono. Sono due orizzonti che s’intrecciano: quello di chi vive la prova con fatica, non ce la fa e rischia di soccombere, e quello di chi dà testimonianza che è possibile un mondo diverso.

Insomma, c’è speranza per tutti, ma alla condizione che non si rimandi soltanto a Dio, nel futuro, il compito di risollevare i sofferenti, da una parte, e di premiare i buoni, dall’altra. Questa lettura sarebbe fuorviante, perché fragilità e amore sono possibili insieme, per tutti, dal momento che Gesù ha assunto ogni debolezza umana trasformandola con la potenza del dono di sé. Ciò significa che la distanza tra deboli e forti può e deve essere colmata.

Questo è il progetto di Dio sull’umanità intera: i deboli hanno bisogno di coloro che, con un sovrappiù di amore, si mettono al loro servizio, con generosità e disinteresse. Quello umano non è uno scenario che il Signore guarda dall’alto, lasciando che le cose vadano come vanno.

Considerare le beatitudini solo come una promessa, dunque, non basta: è anche un compito che ci è affidato. Tocca a ciascuno di noi asciugare le lacrime di chi piange, consolare chi patisce, lottare per la giustizia, difendere chi è perseguitato. 

Mentre attendeva di accarezzare il volto del bambino Gesù, Maria aveva già contemplato l’opera iniziata dal Signore, che «ha fatto cadere i potenti dai loro troni e ha innalzato i piccoli; ha ricolmato gli affamati di ogni bene, e ha mandato via i ricchi spogliandoli di tutto». Anche se ai nostri occhi, e di fatto, sopravvivono abissi di lontananza tra gli uomini, esiste parimenti la potente azione del Signore affidata alle fragili mani e al cuore saldo chi ama e spende la vita per amore dei fratelli e delle sorelle.

Non si tratta, dunque, di aspettare il rovesciamento delle sorti umane da parte di un Dio giudice finale, ma piuttosto di far nostra la preghiera di san Francesco d’Assisi: «Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace: dove è odio, fa ch’io porti amore, dove è offesa, ch’io porti il perdono, dov’è discordia ch’io porti l’unione […]. Dove è tristezza, ch’io porti la gioia, dove sono le tenebre, ch’io porti la luce».

Il mondo nuovo, dove rallegrarci ed esultare, comincia quando comprendiamo che «Cristo non ha mani, ha soltanto le nostre mani per fare il suo lavoro oggi» (Anonimo fiammingo del XIV secolo).

22 gennaio: III Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 4,12-23

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa:
«Terra di Zàbulon e terra di Nèftali,
sulla via del mare, oltre il Giordano,
Galilea delle genti!
Il popolo che abitava nelle tenebre
vide una grande luce,
per quelli che abitavano in regione e ombra di morte
una luce è sorta».
Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».
Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.
Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

Oggi il vangelo di Matteo ci presenta l’inizio del cammino messianico di Gesù in mezzo al popolo d’Israele, nella sua terra. Quando tace la voce di Giovanni Battista, ormai ridotto al silenzio della prigione, si alza quella del Maestro itinerante, lungo le rive del lago, nella regione di Galilea, dove si mescola gente diversa: pescatori, contadini, viaggiatori. L’evangelista vede compiuta qui la parola del profeta Isaia: «per quelli che abitavano in regione e ombra di morte una luce è sorta».

La presenza di Gesù non è solenne, clamorosa, invadente, eppure rischiara, illumina, dischiude nuovi spazi. Comincia col predicare: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino». Il suo modo di parlare sembra oscuro: cos’è il regno dei cieli? Dove si dovrebbe guardare per vederlo? Potrebbe essere un altro dei tanti predicatori invasati che attraversano le strade in cerca di successo, che in nome di Dio annunciano tempi migliori, magari la liberazione dagli oppressori romani.

Il suo passo invece è leggero, delicato e deciso. Lungo le rive del mare di Galilea – il lago di Tiberiade – incontra uomini presi dal lavoro della pesca, parla con loro, li invita a lasciare le reti e a seguirlo. Il coraggio di Gesù è disarmante, carico di una promessa incomprensibile: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Come si può dargli credito? Chi ha costruito con fatica una famiglia, una casa, il lavoro può forse lasciarsi incantare da uno sconosciuto sognatore di passaggio?

Oggi il vangelo ci sorprende davvero, perché comincia così l’avventura cristiana, con una proposta che pare non avere ragioni. L’inizio sta nell’attrazione, con un incanto insensato che stravolge piani e porta il cuore altrove; spinge ad entrare in un altro mondo, quello dei sogni. Senza quella dose d’incoscienza dei quattro primi pescatori non ci saremmo stati neppure noi, qui, oggi; e non potrebbero esserci nemmeno domani altri credenti in Gesù, il Signore.

Ciò che a noi appare irragionevole – come la fiducia in quel Dio che sempre avvertiremo come sconosciuto e sfuggente – in realtà, è più intimo a noi di noi stessi. Lui solo sa prenderci dentro, gettando una luce nuova nel cuore invaso dalle tenebre. Abbiamo un inconfessabile bisogno di essere chiamati per nome, riconosciuti, colti per ciò che siamo davvero. Il profondo desiderio di essere amati che portiamo dentro non trova compimento se non all’incontro con Colui che ce l’ha versato nel cuore. Questa è la meraviglia della fede: trovare la base sicura, fragile e potente al tempo stesso, su cui scommettere la vita. Una vita, la nostra, che non va perduta, non si smarrisce, ma acquista senso solo quando impariamo a donarla, a condividerla, dietro a Gesù, con i fratelli, tutti.

15 gennaio: II Domenica del Tempo Ordinario. Anno A

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 1,29-34

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».
Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

Domenica scorsa si è concluso il tempo di Natale, con la festa del battesimo di Gesù. Oggi inizia il tempo ordinario, e ci viene proposto il brano del quarto vangelo in cui torna lo stesso episodio, ma con una particolarità rispetto ai vangeli sinottici: è il Battista stesso che lo racconta, egli stesso ne fa memoria, ci dice cosa ha significato per lui.

Per due volte, Giovanni ripete: «Io non lo conoscevo», e questo ci potrebbe sorprendere. Gesù è figlio di Maria e Giovanni della cugina Elisabetta: come potevano non conoscersi? Questa espressione ci fa pensare ad una scoperta che nasce dalla fede accesa dall’incontro sul fiume Giordano, dove lo Spirito scende come una colomba e rimane su Gesù. A Giovanni, il cugino Gesù appare in una luce diversa.

Con questa immagine i vangeli rappresentano un fatto imprevisto: nell’umiltà di Gesù, che s’immerge nel comune destino del suo popolo, si dischiude un orizzonte nuovo, quello di Dio e del suo Spirito. È allora che Giovanni comprende appieno la missione affidatagli dal Signore: «Proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

Inizia la missione di Gesù e termina quella di Giovanni, il testimone lascia il passo al nuovo e ultimo inviato, il Figlio, sul quale punta il dito: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!».

Da questo racconto derivano due importanti conseguenze per noi, battezzati nell’acqua e nello Spirito, anzi nel nome della Trinità. La prima è il riconoscimento di chi è Gesù, alla luce del quale possiamo comprendere chi siamo noi: grazie al Figlio siamo figli di Dio, quindi fratelli tra noi.

La seconda: siamo invitati a diventare testimoni di questo incontro. Impareremo a indicare agli altri Gesù, e con lui il bene che ci viene continuamente messo davanti lungo la nostra strada? Oppure siamo tentati di puntare il dito contro gli altri, per giudicarli, lasciandoci attrarre più dal male che dal bene?

Non dimentichiamo che il peccato del mondo, dal quale Gesù – agnello di Dio – viene a liberarci, ha messo le sue radici nell’autoreferenzialità, nell’aspirazione ad essere i primi invece degli ultimi, ovvero a prendere il posto di Dio, che ci rende nemici gli uni degli altri, pronti al giudizio e al conflitto.

Abbiamo bisogno di sempre nuove immersioni nell’amore di Dio: Lui ci libera dall’egoismo che acceca, rende insensibili e ripiegati su noi stessi. Solo allora riconosceremo il Signore come colui «che è avanti a me, perché era prima di me», per imparare a non anteporci mai neppure ai fratelli.

8 gennaio: Battesimo del Signore

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 3,13-17
 
In quel tempo, Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui.
Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare.
Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

«Mentre il silenzio fasciava la terra
e la notte era a metà del suo corso,
tu sei disceso, o Verbo di Dio,
in solitudine e più alto silenzio.

La creazione ti grida in silenzio,
la profezia da sempre ti annuncia,
ma il mistero ha ora una voce,
al tuo vagito il silenzio e più fondo.

E pure noi facciamo silenzio,
più che parole il silenzio lo canti,
il cuore ascolti quest’unico Verbo
che ora parla con voce di uomo.

A te, Gesù, meraviglia del mondo,
Dio che vivi nel cuore dell’uomo,
Dio nascosto in carne mortale,
a te l’amore che canta in silenzio».

«I nuovi tempi sono già iniziati,
i tempi nuovi che il mondo attendeva
fin dall’origine, gli ultimi tempi:
e fu la voce dal cielo a bandirli.

“Questi è il mio Figlio, l’amato da sempre,
nel quale ho posto la mia compiacenza”:
così è spuntata l’aurora del mondo
e fu l’inizio di nuova creazione.

Ma tu sei venuto a battezzarci
in Spirito santo e fuoco:
non vale l’acqua soltanto
ma l’acqua e il sangue
che sgorga dal tuo costato, Signore:
così sia il nostro battesimo
affinché i cieli si aprano anche su di noi.
Amen».

David Maria Turoldo

6 gennaio 2023: Epifania del Signore

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 2,1-12

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

Con l’adorazione dei Magi si allarga l’orizzonte dischiuso dall’evento della nascita di Gesù. Dopo la prima visita dei pastori, giungono altri pellegrini a rendere omaggio al Bambino. I primi furono guidati dagli angeli, i secondi dalla stella cometa. Potranno sembrare racconti fantastici quelli trasmessi dai vangeli, specialmente ad occhi sospettosi e razionalistici. Eppure in essi ci è consegnata una verità da indagare attentamente. Perciò, facciamo riferimento a quanto scriveva Joseph Ratzinger – Benedetto XVI nel suo libro su L’infanzia di Gesù (2012) – anche per la cara e grata memoria di lui, tornato alla casa del Padre.

«L’ambivalenza del termine “mago”, che troviamo qui, mette in luce l’ambivalenza della dimensione religiosa come tale. La religiosità può diventare una via verso una vera conoscenza, in definitiva una via verso Gesù Cristo. Quando, però, di fronte alla presenza di Cristo, non si apre a Lui e si pone contro l’unico Dio e Salvatore, essa diventa demoniaca e distruttiva». Per Matteo, i Magi, anche se non appartenenti al ceto sacerdotale persiano, erano dotati di una conoscenza religiosa e filosofica proveniente da quell’ambiente. Tuttavia, essi non sarebbero stati solo astronomi, ma sapienti, ovvero «rappresentavano la dinamica dell’andare al di là di sé, intrinseca alle religioni – una dinamica che è ricerca della verità, ricerca del vero Dio e quindi anche filosofia nel senso originario della parola. Così la sapienza risana anche il messaggio della “scienza”. Possiamo dire con ragione che essi rappresentano il cammino delle religioni verso Cristo, come anche l’autosuperamento della scienza in vista di Lui». Attesa interiore dell’uomo, movimento delle religioni e orientamento della ragione verso la verità sono, dunque, le caratteristiche dei Magi incamminati all’incontro con Gesù.

«Se i Magi, che, guidati dalla stella, erano alla ricerca del re dei Giudei, rappresentano il movimento dei popoli verso Cristo, ciò implicitamente significa che il cosmo parla di Cristo e che, però, per l’uomo nelle sue condizioni reali, il suo linguaggio non è pienamente decifrabile». La comprensione cristiana di questi testi, dunque, approfondendo la portata cosmica dell’influenza di Cristo, ha intuito che «non è la stella a determinare il destino del Bambino, ma il Bambino guida la stella. Volendo, si può parlare di una specie di svolta antropologica: l’uomo assunto da Dio – come qui si mostra nel Figlio unigenito – è più grande di tutte le potenze del mondo materiale e vale più dell’universo intero».

Questi spunti di meditazione ci aiutano a guardare al Signore Gesù con la fiducia che Egli si offre a tutti coloro che sono in sincera ricerca di Lui, anche senza una chiara ed esplicita intenzione, ma che provano a scorgerne i segni nel mondo. Sarà Lui a farsi trovare, di questo possiamo essere certi.

1 Gennaio 2023: Santa Maria Madre di Dio

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 2,16-21

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.

MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO PER LA
LVI GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2023

Nessuno può salvarsi da solo.

«Cosa, dunque, ci è chiesto di fare? Anzitutto, di lasciarci cambiare il cuore dall’emergenza che abbiamo vissuto, di permettere cioè che, attraverso questo momento storico, Dio trasformi i nostri criteri abituali di interpretazione del mondo e della realtà. Non possiamo più pensare solo a preservare lo spazio dei nostri interessi personali o nazionali, ma dobbiamo pensarci alla luce del bene comune, con un senso comunitario, ovvero come un “noi” aperto alla fraternità universale. Non possiamo perseguire solo la protezione di noi stessi, ma è l’ora di impegnarci tutti per la guarigione della nostra società e del nostro pianeta, creando le basi per un mondo più giusto e pacifico, seriamente impegnato alla ricerca di un bene che sia davvero comune.

Per fare questo e vivere in modo migliore dopo l’emergenza del Covid-19, non si può ignorare un dato fondamentale: le tante crisi morali, sociali, politiche ed economiche che stiamo vivendo sono tutte interconnesse, e quelli che guardiamo come singoli problemi sono in realtà uno la causa o la conseguenza dell’altro. E allora, siamo chiamati a far fronte alle sfide del nostro mondo con responsabilità e compassione. Dobbiamo rivisitare il tema della garanzia della salute pubblica per tutti; promuovere azioni di pace per mettere fine ai conflitti e alle guerre che continuano a generare vittime e povertà; prenderci cura in maniera concertata della nostra casa comune e attuare chiare ed efficaci misure per far fronte al cambiamento climatico; combattere il virus delle disuguaglianze e garantire il cibo e un lavoro dignitoso per tutti, sostenendo quanti non hanno neppure un salario minimo e sono in grande difficoltà. Lo scandalo dei popoli affamati ci ferisce. Abbiamo bisogno di sviluppare, con politiche adeguate, l’accoglienza e l’integrazione, in particolare nei confronti dei migranti e di coloro che vivono come scartati nelle nostre società. Solo spendendoci in queste situazioni, con un desiderio altruista ispirato all’amore infinito e misericordioso di Dio, potremo costruire un mondo nuovo e contribuire a edificare il Regno di Dio, che è Regno di amore, di giustizia e di pace.

Nel condividere queste riflessioni, auspico che nel nuovo anno possiamo camminare insieme facendo tesoro di quanto la storia ci può insegnare. Formulo i migliori voti ai Capi di Stato e di Governo, ai Responsabili delle Organizzazioni internazionali, ai Leaders delle diverse religioni. A tutti gli uomini e le donne di buona volontà auguro di costruire giorno per giorno, come artigiani di pace, un buon anno! Maria Immacolata, Madre di Gesù e Regina della Pace, interceda per noi e per il mondo intero».

25 dicembre 2022: Natale del Signore

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 1,1-18
 
In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.

Nel mistero del Natale contempliamo, con occhi incantati, Dio che sceglie di essere – una volta e per sempre – con noi, come noi, per noi.

Con noi: in mezzo a Maria e Giuseppe, colmato di tenerezza; accanto ad ogni ragazzo che cresce tra sogni e incertezze; dietro ad ogni adulto, con la fatica del lavoro, e all’anziano provato dal dolore e dalla solitudine.

Come noi: con le stesse paure ed esitazioni che prova un adolescente; con la passione e le sconfitte di un giovane; con la delusione di chi soffre l’abbandono degli amici più cari. In Gesù, Dio ha imparato a piangere come un bambino, che ha fame e sete; a sorridere come chi vede guarire un ammalato; a cantare come chi loda il Signore provvidente per tutte le sue creature.

Per noi: come colui che non tiene niente per sé, e dona tutto ciò che ha di più caro, la sua stessa vita; come chi sa che la gioia più grande è servire e stare con i poveri e i più vulnerabili; come chi attira umili pastori con vagiti che assomigliano al belare di un agnello.

Noi, pastori

«Rapida come un fulmine
scende la gioia del Divin
Bambino.
Scende a rallegrare le stelle
e noi erranti pastori
sulla Terra.
Di nuovo scende, nonostante
così come insiste
sulla fronte
di un bimbo malato –
il mondo –
la carezza di una madre.
Non abbiamo nulla nelle mani
se non la nostra ostentata ricchezza
l’idea falsa di libertà.
È la notte di Natale.
È la notte della povertà.
Un albero disadorno,
un antico presepe
attendono da secoli
il nostro sguardo.
O piccolo Gesù
ridacci quell’innocenza,
quello spirito caritatevole
che nessun’altra ragione,
nessun altro albero ricolmo
sanno offrire
a noi sperduti viandanti».

Alda Merini

18 dicembre 2022: IV Domenica di Avvento

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 1,18-24
 
Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”.
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

La figura di Giuseppe, il custode di Gesù, padre secondo la legge, cui è affidata la santa famiglia di Nazaret, nel brano di oggi appare in primo piano. Lui, custodito dai racconti evangelici con estremo riserbo, senza che mai esca una parola dalla sua bocca, riceve una notizia sconvolgente dalla sua fidanzata: Maria attende un bambino, non da lui, ma dallo Spirito santo. Com’è possibile? – si era già chiesta Maria di fronte all’angelo. Ora tocca anche a Giuseppe cercare una risposta. Non possiamo nemmeno immaginare cosa sarà passato nel cuore e nella mente al giovane promesso sposo di quella ragazza di Nazaret con la quale aveva fatto progetti di vita e d’amore.

A Giuseppe si prospettano due vie di fuga, entrambe drammatiche. La prima: consegnare ufficialmente a Maria il libello di ripudio, che per la legge di Mosè ha di conseguenza, in questo caso, la lapidazione della fidanzata. La seconda: rilasciarla in segreto, evitando di esporla all’infamia, e farsi discretamente da parte, inventando qualche pubblica scusa.

Mentre va in fumo un sogno, ne compare un altro, a prima vista incomprensibile, ma ancora di un sogno si tratta: «quand’ecco un angelo del Signore gli si manifestò in sogno dicendo: “Giuseppe, figlio di David, non aver paura a prendere con te Maria, la tua donna, perché ciò che è generato in lei è opera dello Spirito santo”». Sembra tutto perduto. I progetti cambiano drasticamente, nella solitudine di Maria e in quella ancor più radicale di Giuseppe. Potrebbero allontanarsi sconfortati. Il Signore, in cui essi hanno creduto e sperato, dal quale attendevano con fiducia benedizione sul loro amore, ha forse rovinato tutto?

Ci sono momenti nella vita di tutti in cui si tratta di prendere o lasciare: questa è la dura prova dell’amore vero. Maria e Giuseppe non fanno appello a se stessi, ma si rivolgono più in alto, guardano a Colui che li raggiunge così in basso che mai avrebbero immaginato, nell’intimità delle viscere più umane che ci siano: Maria «partorirà un figlio e tu lo chiamerai con il nome Gesù».

Giuseppe è l’uomo dei fatti, non delle parole: «Allora, risvegliatosi dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua donna». Anche noi, vicini a Natale, siamo pervasi dallo stupore che lascia da parte i pensieri e si affida ad una Parola che irrompe potente nel cuore e nella carne, al punto da sconvolgere la vita.

Quando i nostri progetti sembrano svanire, forse il Signore ne sta costruendo altri di più grandi e più belli. Se i nostri sogni ci paiono irrealizzati, non lo sarà mai il suo: perché siamo noi. La nostra felicità è la sua. La via per la quale giungervi non può che essere misteriosa. Perciò, non ci resta che affidarci, pieni di meraviglia, pur non senza umano legittimo timore. Maria e Giuseppe hanno fatto così, e non è andata poi tanto male, almeno per quella parte di umanità che ha il dono di credere che Dio è qui, in mezzo a noi.

11 dicembre 2022: III Domenica di Avvento

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 11,2-11
 
In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”.
In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

Abbiamo già incontrato Giovanni Battista – il precursore di Gesù, sulle rive del fiume Giordano – che, insieme a Maria, ci accompagna nel tempo di Avvento. Oggi, egli si presenta sotto una luce diversa, che potrebbe sorprendere. È imprigionato, sente dire alcune cose di Gesù, è preso da una sorta di scoraggiamento, forse teme il fallimento della propria missione, perciò vuole essere rassicurato da notizie dirette: «Sei tu colui che viene o dobbiamo aspettare qualcun altro?».

In realtà, egli mescola la propria situazione – dovuta alle critiche rivolte alla condotta di Erode Antipa, che conviveva con la cognata Erodiade rimasta vedova di Filippo – con il suo annuncio della venuta del Messia. Nella condizione di carcerato, Giovanni ha bisogno di conforto, e lo cerca in Gesù. Egli appare dunque in tutta la sua umana fragilità, che poi è la nostra, ovvero di chi, pur credendo e impegnandosi con coraggio, desidera conferme specialmente nel momento della prova.

La risposta di Gesù ai discepoli del Battista non è formale, teorica, intellettuale – del tipo: “sì, sono io colui che viene, non temere, non ti sei sbagliato” – ma: «i ciechi recuperano la vista e gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati e i sordi odono, i morti vengono risvegliati e i poveri ricevono il lieto annuncio». C’è tutta l’opera concreta che Gesù sta compiendo, di lui parlano i segni di salvezza fisica e spirituale che tocca tutti i sofferenti e tutta la persona, ma soprattutto conta la conclusione: «E felice è colui che non trova in me motivo di inciampo».

Anche noi, quando attendiamo risposte dal Signore, siamo invitati a puntare lo sguardo con fiducia verso di Lui. Il rischio di misurare l’agire di Dio con il nostro metro – quello dell’essere sollevati dalle difficoltà – è sempre in agguato. Al Battista, Gesù fa sapere che la potenza del Messia è indirizzata principalmente ai più deboli, che Egli non abbandona nessuno, anche quando sembra tacere. Chi si aspetta trionfi e vittorie sui potenti sbaglia Dio.

Le parole che poi Gesù rivolge alle folle rafforzano la stima che Egli ha di Giovanni, restituendogli la conferma della sua missione profetica: «fra i nati di donna non è mai sorto nessuno più grande di Giovanni il Battezzatore, ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui». Il messaggero ha fatto la propria parte, adesso comincia il tempo del regno, della signorìa di Dio, con la sequela di Gesù. Lo sguardo va spostato dal dito che indica la luna alla luna stessa – avrebbero scritto i giovani sessantottini sui muri dell’università – ed è proprio quello che Giovanni aveva desiderato: «l’amico dello sposo, che gli sta accanto e l’ascolta, gode di grande gioia alla voce dello sposo! Questa mia gioia – dunque – eccola compiuta! Bisogna che lui cresca, e che io diminuisca» (Gv 3,29-30). Questo è il senso della domenica “gaudete”, che oggi celebriamo, ed è il Battista che ce lo indica.

8 dicembre 2022: Immacolata Concezione

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 1, 26-38

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù.
Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola».
E l’angelo si allontanò da lei.

«Come possiamo cantarti, o Madre,
senza turbare la tua santità
senza offendere il tuo silenzio?

Non abbiamo altra speranza,
non abbiamo fiducia nelle nostre preghiere,
ma tu hai trovato grazia presso Dio.

Sei la nostra natura innocente,
la nostra voce avanti la colpa,
il solo tempio degno di Lui.

Per questo è venuto sulla terra,
uomo in tutto simile a noi;
ora lo stesso Dio non fa più paura.

Noi vogliamo che sia tu a pregare,
noi canteremo il tuo stesso canto:
e si faccia di noi secondo la sua parola.

Così la Chiesa sarà come te il segno certo,
ed Egli continuerà ad essere la nostra carne:
pure noi faremo solo quanto Egli dirà.

Così abbiamo speranza anche noi nel prodigio;
l’acqua delle nostre lacrime si muti in vino,
e il vino, nell’atto di amore, si muti in sangue.

Così ritorni la gioia nei nostri conviti
e Lui viva in ognuno di noi,
principio e fine dell’armonia del mondo.

Principio della nostra salvezza,
fine della nostra solitudine:
e tu sempre Madre dell’uomo nuovo.

Tu ultima possibilità di questa nostra creazione,
tu la terra santa che la rigenera ancora,
tu la custodia vivente della Parola. 

Io dico a Lei:

Maria, nel tuo seno
si sbriciola quel muro,
che ci negava Dio.

Per sua giustizia, è vero,
ma Lui teneva in serbo
la carta della vita.

Si riservava il tempo
ed occorreva un seno
adatto per il Verbo.

Ad impedir la macchia
ha già pensato Lui:
terrà lontan l’inferno.

A costruire il tempio,
che deve accoglier Dio,
tu penserai, Maria.

– Io non conosco uomo! –
Lo dici con timore
d’ostacolare Dio.

Invece è proprio quello,
che vuol da te il Signore.
L’attira il tuo candore!

Scendendo il Verbo in te
s’infrange la sentenza
della condanna eterna.

In te bellezza somma.
In te la Grazia piena.
In te il totale amore.

Sei talamo divino.
Sei sposa senza ruga.
Sei santo Tabernacolo.

Gesù ha fuso il palpito
con quello del tuo cuore.
Ti chiama “Mamma mia”.

E quando torna in Cielo,
sei firma e testamento
di nostra appartenenza».

(David Maria Turoldo)

27 novembre 2022: I Domenica di Avvento. Anno A

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 24,37-44
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.
Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

Il tempo di Avvento inizia con l’invito rivolto da Gesù ai suoi discepoli a prepararsi in vista del tempo finale: «State svegli, dunque, perché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà». Gli esempi che accompagnano lo sguardo rivolto al momento conclusivo della storia hanno un sapore minaccioso, un tono inquietante: come i giorni di Noè prima del diluvio, come il ladro che viene di notte.

Ma davvero il Signore vuole impaurirci? O non piuttosto scuoterci, perché ci rendiamo conto dell’importanza di ogni momento presente che ci è dato di vivere, come se non ce ne fosse un altro dopo? È l’urgenza dell’attenzione al qui e ora che interessa a Gesù, non tanto il futuro remoto che sempre spaventa, perché non sappiamo prevederlo. Egli sposta lo scenario in avanti, ma in verità pensa all’oggi, in cui Lui stesso è presente con noi, «tutti i giorni, fino al compimento del tempo» – sono le ultime sue parole nello stesso vangelo di Matteo, che ci accompagnerà in questo nuovo anno liturgico.

La questione di fondo è la distrazione: l’essere presi da molte occupazioni è la vera fonte di ansia, ma un’ansia che impedisce di cogliere l’attimo fuggente che stiamo vivendo, gravido di opportunità per fare il bene possibile. In effetti, siamo tutti tentati di sfuggire: chi si rifugia nella nostalgia del passato, chi si proietta nell’incerto e vago domani. L’oggi, invece, richiede presenza a se stessi e agli altri, perché qui abita il Signore, in mezzo a noi.

Il senso della perdita sconcerta, il tempo risulta inafferrabile, tutto scorre via senza riuscire a trattenere alcunché. Facciamo fatica ad accettare lo scorrere inesorabile del tempo, perciò l’affanno prende il posto dell’attenzione, l’ansia prende il posto della cura per i dettagli. Ma è in questa fugacità che mette radici la fede, con la certezza della presenza di Gesù che mai abbandona. Nel non possesso delle cose e delle persone abita la speranza di poterle custodire. Con la gratuità dell’amore ci viene incontro l’eternità.

La parola di Gesù riaccende in noi il desiderio di stare con Lui e di dedicarci agli altri, perché consapevoli che è il Signore che custodisce la nostra aspirazione, non la delude e la riempie della sua presenza inattesa, che qui ed ora ha il volto dei più deboli.

«L’amore sa aspettare, aspettare a lungo, aspettare fino all’estremo. Non diventa mai impaziente, non mette fretta a nessuno e non impone nulla. Conta sui tempi lunghi» (Dietrich Bonhoeffer). Nel tempo di Avvento, come nella vita, per imparare ad attendere, con gioia e senza paura, non resta che guardare a Maria, l’unica che ha fatto spazio nel cuore e nel grembo all’eternità di Dio.

20 novembre 2022: Cristo Re dell’Universo

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 23,35-43

In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto».
Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».

Nella domenica che chiude l’anno liturgico, il vangelo di Luca ci presenta la scena del Calvario come l’ultimo orizzonte sul quale si affaccia la speranza per tutti. Due criminali ai lati di Gesù, che impiegano il filo di voce che gli resta per parlare con Lui. Uno lo invoca, a suo modo, forse ha un’ultima speranza, e lo sfida a scendere dal patibolo; l’altro interviene e lo rimprovera. Un dialogo estremo, dove viene fuori la verità, insieme a un disperato bisogno di salvezza. Una verità dolorosa: «Per noi è giusto così, perché riceviamo il degno contraccambio delle nostre azioni», perciò pronta a riconoscere la differenza: «costui non ha fatto nulla di male».

Accanto all’Innocente s’illumina la coscienza di sé: solo allora è possibile ammettere la verità. Abbiamo bisogno di più luce per vedere meglio, per accorgerci di dove siamo, di chi siamo e cosa possiamo sperare.

La solennità di Cristo re dell’universo ci pone di fronte al destino ultimo delle cose, delle persone, di ciascuno di noi. Che fine faremo? Chi raccoglierà le nostre miserie, le fragilità, i ritardi, le colpe di tutti? Se c’è una speranza, questa viene dalla disposizione interiore e reale ad affidarci a Colui che fa nuove tutte le cose, senza che neppure un capello del nostro capo vada perduto.

Lungo quest’anno liturgico abbiamo letto e meditato il vangelo di Luca, il vangelo della misericordia, dove ogni debolezza è accostata con tenerezza dal Signore. Oggi, questo percorso si chiude proprio con il gesto estremo del perdono: «Amen ti dico: oggi tu sarai con me nel paradiso!». Nel giardino del re – indicava l’origine persiana della parola “paradiso” – nel giardino di Dio, ove la vita fiorisce nel giorno senza tramonto.

Questa è la risposta del Signore crocifisso a tutti i crocifissi della storia, a coloro che lo supplicano con l’ultimo respiro: «Gesù, ricordati di me quando sarai giunto al tuo regno».

«In un solo istante, su quel disgustoso cadavere, la Grazia ha approfittato di tutte le deficienze della virtù.
L’assassino, l’impudico, il ladro, il forzato, il bandito professionale è diventato un santo…
È bastato quell’impercettibile spostamento, quella lieve fessura nell’ermetico recipiente del nostro egoismo.
È bastato uno sguardo tra le sue palpebre sanguinanti per scatenare nell’invitato di destra quel cataclisma penitenziale, quella risurrezione mista all’agonia, quell’irresistibile esplosione dell’Eternità» (Miguel de Unamuno, Il Cristo di Velazquez, 1913).

Abbiamo anche noi il coraggio di ripetere ogni giorno al Signore: «ricordati di me», con la fiduciosa speranza di sentirci rispondere: «oggi sarai con me». Quell’oggi che viviamo, seppur doloroso, odora già di risurrezione.

13 novembre 2022: XXXIII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 21,5-19
 
In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».
Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».
Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere.
Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto.
Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».

Dal Messaggio di Papa Francesco per la VI Giornata mondiale dei poveri:

Gesù Cristo si è fatto povero per voi (cfr 2 Cor 8,9)

«L’esperienza di debolezza e del limite che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, e ora la tragedia di una guerra con ripercussioni globali, devono insegnare qualcosa di decisivo: non siamo al mondo per sopravvivere, ma perché a tutti sia consentita una vita degna e felice. Il messaggio di Gesù ci mostra la via e ci fa scoprire che c’è una povertà che umilia e uccide, e c’è un’altra povertà, la sua, che libera e rende sereni.

La povertà che uccide è la miseria, figlia dell’ingiustizia, dello sfruttamento, della violenza e della distribuzione ingiusta delle risorse. È la povertà disperata, priva di futuro, perché imposta dalla cultura dello scarto che non concede prospettive né vie d’uscita. È la miseria che, mentre costringe nella condizione di indigenza estrema, intacca anche la dimensione spirituale, che, anche se spesso è trascurata, non per questo non esiste o non conta. Quando l’unica legge diventa il calcolo del guadagno a fine giornata, allora non si hanno più freni ad adottare la logica dello sfruttamento delle persone: gli altri sono solo dei mezzi. Non esistono più giusto salario, giusto orario lavorativo, e si creano nuove forme di schiavitù, subite da persone che non hanno alternativa e devono accettare questa velenosa ingiustizia pur di racimolare il minimo per il sostentamento.

La povertà che libera, al contrario, è quella che si pone dinanzi a noi come una scelta responsabile per alleggerirsi della zavorra e puntare sull’essenziale. In effetti, si può facilmente riscontrare quel senso di insoddisfazione che molti sperimentano, perché sentono che manca loro qualcosa di importante e ne vanno alla ricerca come erranti senza meta. Desiderosi di trovare ciò che possa appagarli, hanno bisogno di essere indirizzati verso i piccoli, i deboli, i poveri per comprendere finalmente quello di cui avevano veramente necessità. Incontrare i poveri permette di mettere fine a tante ansie e paure inconsistenti, per approdare a ciò che veramente conta nella vita e che nessuno può rubarci: l’amore vero e gratuito. I poveri, in realtà, prima di essere oggetto della nostra elemosina, sono soggetti che aiutano a liberarci dai lacci dell’inquietudine e della superficialità».

6 novembre 2022: XXXII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 20,27-38
 
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie».
Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Nel brano evangelico di oggi, i sadducei, che non credono alla risurrezione dei morti, mettono alla prova Gesù: «La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Egli avrebbe potuto cavarsela rispondendo che, data la loro cattiva fede, è inutile affrontare una questione che dipende proprio dalla fede nel Dio d’Israele, in cui dicono di credere. Invece, accetta il confronto e allarga l’orizzonte. I «figli della risurrezione, sono figli di Dio», del Dio dei viventi, quindi si trovano ormai in un’altra condizione, che non riproduce il mondo terreno, ma lo trascende, va al di là di esso, pur assumendolo pienamente.

In effetti, non è per nulla semplice immaginare quale tipo di relazione sarà stabilita tra noi dopo la morte, condizionati come siamo dalla Commedia dantesca e dalle molte rappresentazioni pittoriche dell’aldilà, dove sembra ripresentarsi l’aldiquà, seppur determinato dal giudizio divino. Rivedremo i nostri cari? Staremo vicini come lo siamo stati durante questa vita? I legami d’amore, per i quali abbiamo lottato, sofferto e gioito, si conserveranno? E in quale forma?

La nostra attenzione è attratta più dal come e da con chi saremo, piuttosto che dal credere che nell’eternità di Dio le cose cambiano, sebbene permangano nella loro identità. Per farci un’idea di questa nuova condizione, occorre guardare a Gesù crocifisso e risorto, che è lo stesso di prima, eppure diverso; ancora il Maestro, ma adesso il Signore. Egli torna al Padre, lascia i suoi e, al tempo stesso, rimane con noi in un altro modo, nello Spirito, con l’eucaristia e i con i poveri, fino alla fine del mondo.

Per immaginare il futuro della nuova creazione è necessario puntare lo sguardo verso il mistero d’amore di Dio, alla sua capacità di fare nuove tutte le cose, conservandone l’identità e conducendole alla pienezza. Di più è difficile dire. Se crediamo che la fede e la speranza passeranno, e rimarrà solo l’amore – come dice san Paolo – possiamo fidarci: nulla di noi e dei nostri cari andrà perduto, perché finalmente gioiremo della comunione con Dio e con gli altri. Il pensiero della morte ci spaventa, è un salto nel buio, eppure il Signore ci promette il suo abbraccio senza fine, dove ogni pena scomparirà, e i veri legami d’amore giungeranno a compimento. Su questa fede nel Dio dei viventi poggia la nostra speranza.

Voler riprodurre questo mondo non sarebbe la cosa migliore per noi, affannati come siamo dalla sete insaziabile di affermazione. Di fronte alla tentazione di continuare a possedere, non stanchiamoci di pregare il Padre, come Gesù ci ha insegnato: “non lasciarci entrare nella prova, ma liberaci dal male”. Saremo finalmente liberi dall’egoismo, dall’ansia di distinguere ciò che è mio da ciò che è di altri; non vivremo più per noi stessi: «Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

1 novembre 2022: Tutti i Santi

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 5,1-12a
 
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

Nelle beatitudini, sono otto i colori che servono per dipingere l’affresco della santità. Ci sono le tinte forti della povertà interiore e materiale, della sete e fame di giustizia, del pianto e della persecuzione, e poi quelle più delicate della purezza di cuore, della pace, della mitezza, della misericordia. Anzi, quest’ultima è il colore di fondo, senza il quale non si trova la via della santità.

La strada per il cielo, dunque, attraversa la terra: infangata, sporca, accidentata. Lungo questi sentieri alcuni cadono a causa di altri, e altri aiutano i feriti a rialzarsi. Ecco le beatitudini, che non sono tutte dello stesso genere. Alcune hanno il sapore forte della prova: la povertà interiore e materiale, il pianto, la fame e sete di giustizia, la persecuzione e l’offesa. Altre hanno il gusto delicato della tenerezza: la mansuetudine, la purezza di cuore, la misericordia, la pace. Come per dire che ognuno, per la sua strada, è chiamato ad essere il meglio di sé, quello che Dio ha pensato per lui o per lei, ma non da solo, mai da soli. Quando si ha la grazia di avvertire che il Vangelo è possibile in qualunque situazione ci troviamo, allora è bene sapere quali sono gli indicatori della via comune alla santità: pazienza, umorismo, audacia, comunità, preghiera.

Papa Francesco, nella sua Esortazione apostolica Gaudete et exsultate (2018), dice che la santità è un appello, un invito, la chiamata rivolta da Dio ad ogni persona, senza distinzioni, «con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità». È un lavoro artigianale, persino artistico, simile all’opera di un affresco. Una cosa bella e impegnativa. Che il Maestro ha in mente, ma tocca agli artigiani realizzare con pazienza. Ognuno deve trovare i colori giusti per lasciare che emerga la propria figura. Alla fine viene fuori un capolavoro dove ciascuno è al proprio posto, alla destra di Gesù Signore dell’universo. Un po’ come nella Cappella Sistina.

La santità è soprattutto roba da peccatori: pentiti e perdonati. Quindi per tutti quelli che hanno capito di non poter scagliare pietre verso gli altri. Anzi, soprattutto per coloro che hanno rischiato di prenderle o addirittura sono sati lapidati, i martiri ad esempio. E ce ne sono molti, nascosti, anche oggi. Quelli che il Papa chiama “popolo di Dio paziente”, “i santi della porta accanto”, “la classe media della santità”. Come i genitori che crescono con tanto amore i loro figli, gli uomini e le donne che lavorano per portare il pane a casa, i malati, le religiose anziane che continuano a sorridere. Insomma, non gente che non cade mai, ma che ogni volta si lascia rialzare dalla misericordia di Dio.

Affidiamoci, dunque, a questi fratelli e a queste sorelle più generosi, che hanno lasciato dietro di sé un sovrappiù di amore, perché ci sostengano nel cammino della vita. Confidiamo nella loro premurosa custodia: chi ha amato in questa vita continua a farlo anche nell’altra.

23 ottobre 2022: XXXI Domenica del Tempo Ordinario


Dal Vangelo secondo Luca: Lc 19,1-10
 
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Il brano del vangelo di oggi ci racconta un incontro imprevisto, che cambia la vita di un uomo, non solo piccolo di statura fisica, ma anche morale. Gesù è accolto in casa da Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, che annuncia il proposito di dare la metà dei suoi beni ai poveri e di restituire quattro volte il frutto della frode. L’incontro è inatteso, nasce dal desiderio che Zaccheo ha di vedere chi è Gesù. Ne ha sentito parlare, chissà cosa si aspetta da lui, forse è spinto dalla curiosità di sbirciare di nascosto, di guardare senza farsi vedere. Il desiderio di Zaccheo viene esaudito: egli vede Gesù, ma non immagina di essere visto. C’è una doppia sorpresa: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua»; come per dire: ti ho visto anch’io, anzi cercavo proprio te. All’oggi del soggiorno segue l’oggi della salvezza; da uno scambio di sguardi nasce un incontro decisivo.

La rapidità con cui accade l’incontro potrebbe meravigliare. Di solito, occorre tempo per prendere decisioni importanti, ma nel caso di Zaccheo tutto avviene molto rapidamente. Il cuore è sorpreso, toccato in profondità. Vuol dire che egli sa di essere ingiusto, peccatore, ma ha bisogno di uno che lo accolga com’è, e Gesù fa proprio così: non rimprovera né chiede conto, ma dona uno sguardo, la sua presenza, entra nell’intimità della casa – prima ancora nel cuore – e dischiude un nuovo orizzonte di fiducia e speranza. Emerge in tal modo il senso ampio dell’espressione: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa», che dice l’accadere di una relazione riuscita.

Ciò che avviene nel cuore di Zaccheo – e si fa gesto pubblico di conversione – è salvezza, perché il Salvatore è stato accolto nella propria casa, nello spazio intimo della vita. Dunque, da Gesù proviene qualcosa che Zaccheo fa proprio; questa relazione rinnovata da Gesù corrisponde al compimento della sua missione: «il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Gli elementi presenti in quella che il lettore riconosce come storia di salvezza – cominciata in mezzo alla folla lungo la strada, compiuta nell’intimità della casa, destinata ad effetti pubblici – sono sufficienti a rivelare un tratto sostanziale dell’agire quotidiano di Gesù come Signore delle relazioni. Questa presenza accolta che trasforma, risana e dona novità di vita è propriamente salvifica e perciò divina, proprio nella sua piena umanità.

Chiediamo al Signore di entrare nella nostra vita, anche partendo dal desiderio incerto, nascosto, esitante. Sarà Lui a fare il resto, con delicatezza e forza, lasciando che siamo noi ad offrirgli quel che siamo, pronti a condividere con i più poveri ciò che non ci appartiene, ma ci è solo dato in prestito.

23 ottobre 2022: XXX Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 18,9-14
 
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

La scena che il vangelo di Luca ci presenta è una chiara indicazione per la nostra preghiera. L’alternativa non è tanto determinata dal tipo di persona cui potremmo assomigliare – il fariseo o il pubblicano – ma dal modo di porsi dinanzi a Dio e agli altri. Se ci fermassimo ai ruoli non vedremmo spiragli di speranza per il primo, e finiremmo per condannarlo, pensando di stare dalla parte del secondo. Invece, Gesù ci invita a riflettere sulla forma e il contenuto della nostra preghiera, perché a volte facciamo come il fariseo e altre come il pubblicano: anche noi ringraziamo, anche noi chiediamo perdono.

Ringraziare per il bene fatto, quando abbiamo osservato le regole religiose, comporta il rischio di credersi a posto con Dio, come se la vera differenza rispetto agli altri stesse tutta qui, ovvero tra chi osserva e chi trasgredisce. Rendere grazie al Signore significa piuttosto riconoscere che il bene viene da Lui e non da noi. In caso contrario, invece di sentirsi parte di un’umanità graziata e bisognosa di grazia, l’effetto è quello di credersi migliori degli altri, fino al punto di disprezzarli.

D’altra parte, colui che se ne sta in disparte, e chiede perdono, trova la via più diretta: non parte dall’io pieno di sé, ma dal tu misericordioso cui si affida senza alcuna pretesa di giustificarsi. Ciò che conta, dunque, è mettersi dalla parte dell’umanità fragile, ferita, non autosufficiente. Questo è ciò che permette di tornare a casa col cuore sollevato.

La preghiera è un test di verità: può rafforzare ingannevolmente un io confuso che cerca di affermarsi, o smascherare una rappresentazione presuntuosa di sé di fronte all’amore che perdona. Gesù non giudica il fariseo perché ha osservato la legge, né applaude il pubblicano pentito: si limita a dichiararne le conseguenze: «chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Dunque, siamo messi di fronte agli effetti del nostro modo di pregare. La vita può cambiare, quando ringraziamo il Signore riconoscendo che il bene viene da Lui, e impariamo a non giudicare gli altri. Se abbiamo ricevuto il dono di riconoscerci poveri peccatori, sarà più facile lasciarci risollevare dalla sua misericordia, e diventare così più clementi. La questione alla fine si risolve sul peso che assume l’io o quello che riceve il tu. La preghiera autentica smaschera e libera solo quando riusciamo a mettere da parte noi stessi, non gli altri. Presentarsi a Dio per essere approvati è come stare di fronte ad uno specchio muto, ove appaiono deformati i volti degli altri anziché il proprio. Se invece siamo pronti ad inginocchiarci e a chinare il capo sulla polvere, avremo la gioia di sentirci rialzare da quella mano che non si stanca mai di accogliere e di perdonare.   

16 ottobre 2022: XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 18,1-8
 
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

Gesù racconta una parabola sulla preghiera, per dire come il Signore non tarderà ad intervenire a favore di chi lo invoca senza scoraggiarsi. La scena rappresenta la figura di un giudice disonesto, che alla fine si risolve positivamente grazie all’insistenza di una povera vedova – segno della dipendenza e della fragilità sociale. Niente a che a fare con la disposizione di Dio verso di noi, ma con una situazione tutta umana, apparentemente disperata, come spesso accade tra chi è potente e chi non conta nulla. In effetti, può capitare che una buona azione possa derivare da una cattiva intenzione: a volte, qualcuno è costretto a fare giustizia senza crederci davvero. A questo primo livello, il racconto diventa un incentivo a lottare per la giustizia, con tutte le proprie forze, senza violenza, specialmente da parte di chi è solo e senza protezione, come avviene anche oggi per molte donne offese, abbandonate e violentate.

Ma l’esempio vale soprattutto a segnare la differenza: non avviene così tra il Signore e noi, quando ci rivolgiamo a Lui con fiducia. Accade però che scambiamo l’essere ascoltati con l’essere esauditi, e questo potrebbe scoraggiare, perché non vediamo l’effetto della preghiera, come se il Signore fosse disinteressato. Dunque, non si tratta di strappargli grazie a forza di insistere, quanto di affidarsi ai suoi tempi, che non sono i nostri.

La certezza del suo amore viene spesso messa alla prova, specialmente quando domandiamo cose di cui abbiamo urgenza, come la guarigione dalla malattia, la pace tra familiari, la giustizia, il pane, il lavoro e ogni altro bene di cui siamo privati. Qui emerge un punto nodale del rapporto tra il credente e il Signore, che ci assicura: «Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto» (Mt 7,7). E allora perché tarda ad arrivare ciò che chiediamo?

Lo sguardo di Gesù ci invita a rovesciare la prospettiva: se Dio non esaudisce le nostre richieste, tuttavia mantiene le sue promesse. «Lui che non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha consegnato per tutti noi, come non ci farà dono con lui di ogni cosa?» (Rm 8,32). Mentre noi aspettiamo dal Signore cose buone, Egli invece ci dona il suo Figlio. Pare che tra la domanda e l’offerta non ci sia corrispondenza. A noi sembra non esaudita la richiesta, eppure il suo dono la supera: la presenza di Gesù accanto a noi è sorgente di ogni bene, anche maggiore di ciò che chiediamo. La prospettiva di fede trasforma la preghiera nella disposizione ad accogliere quanto il Signore ci ha promesso e già offerto: il suo amore, a noi sconosciuto. Non sarà l’insistenza affannosa ad ottenere, come se fosse chiusa la porta del cuore di Dio; è piuttosto quella del nostro a spalancarsi per ricevere quel bene che fatichiamo a riconoscere. La questione, in definitiva, è quella della fede di chi non misura Dio col metro umano – del potente distratto dal quale invocare benefici – ma del padre buono che si prende cura di tutti i suoi figli con amore provvidente, con i suoi tempi e le sue modalità, da attendere con pazienza, senza scoraggiarsi; al quale domandare lo Spirito santo, per imparare a pregare, perché neppure sappiamo cosa ci conviene domandare (cf. Rm 8,26).

9 ottobre 2022: XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 17,11-19

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

L’esperienza della guarigione di dieci lebbrosi, che il vangelo di Luca ci racconta, comincia in un modo e finisce in un altro. Tutti si presentano a Gesù con fiducia, confidano che Egli possa guarirli, e lo gridano a gran voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Non c’è contatto, restano a distanza, ma basta la parola del Maestro a dar seguito alla loro richiesta. Sono inviati ai sacerdoti, che avrebbero dovuto dichiarali puri, per essere reintegrati nella comunità dalla quale erano esclusi. Il potere religioso, che li certificava come lontani da Dio, e perciò lontani dagli uomini, poteva riammetterli. Lebbra vuol dire in certo senso peccato, malattia significa punizione.

Il modo col quale Gesù supera questa visione impropria è delicato, non polemico: si limita a chiedere ai lebbrosi una fiducia più grande – «Andate a presentarvi ai sacerdoti» – mentre sono ancora ammalati. Tutti e dieci obbediscono, e si ritrovano purificati lungo la strada. Il racconto potrebbe finire qui, ma c’è la svolta. Uno di loro “si vede guarito” – e lo sono anche gli altri –, ma su di lui lo sguardo di Gesù ha gettato una nuova luce: prende coscienza del dono ricevuto e sente il bisogno di tornare indietro a ringraziare, con un gesto del tutto spontaneo, che fa pensare a come agli altri non sia venuto in mente.

«Era un Samaritano», scrive l’evangelista, mettendo l’accento sulla sua condizione di emarginato due volte: perché separato dal popolo eletto d’Israele e perché lebbroso; magari costretto dalla malattia a stare con altri non del suo gruppo etnico, quindi disprezzato anche da loro. Una volta vistosi guarito, forse avrà avuto anche un motivo in più per non andare dai sacerdoti. Sa bene di essere solo, ma la sua doppia marginalità ha trovato accoglienza: non solo adesso è guarito, purificato, ma anche salvato – così gli dice Gesù: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

Non c’è bisogno che diventi un discepolo, può tornarsene a casa sua, non nel gruppo. La sua strada è un’altra, quella di chi ha avuto il coraggio di esporsi, di avvicinare il Maestro senza temere il rifiuto. Il samaritano salvato rappresenta il cammino compiuto che va dalla fede alla riconoscenza; una strada offerta a tutti e non solo alle pecore perdute d’Israele. Egli loda Dio, il Padre, e si prostra ai piedi di Gesù, che è il Figlio.

Interiorizzare il dono ricevuto, rafforzare la fiducia iniziale e approfondire la propria fede è l’itinerario della completa conversione. Se ciò vale per l’ultimo di tutti, significa che è possibile anche per ciascuno di noi, pronti come siamo a chiedere, ma non altrettanto sempre disposti a dire grazie. Lo stesso sguardo accogliente e amoroso del Signore è rivolto anche a noi, ma noi dove siamo?

25 settembre 2022: XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 16,19-31
 
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».

Nella storia di oggi, bella e triste, il ricco epulone e il povero Lazzaro sono così vicini e così lontani, nel tempo della vita terrena e anche dopo. Probabilmente, nessuno di noi si ritrova esattamente in questa scena, fatta di situazioni estreme, sia per la ricchezza sia per la povertà. Ma ciò non significa che non possiamo riconoscerci nelle molte vie di mezzo che ogni giorno percorriamo, lungo le quali incontriamo persone invisibili.
Il racconto di Gesù è chiaramente provocatorio: le sue conclusioni – tratte dal duro giudizio di Abramo nei confronti del ricco sepolto e di Lazzaro nel suo seno – potrebbero meravigliare, a confronto con l’annuncio della misericordia infinita di Dio, che Gesù proclama con insistenza. Eppure nei vangeli ci sono anche parole che non fanno sconto all’ingiustizia: quando non c’è compassione per chi è più debole e ai margini, non si può pretendere nulla neppure da Dio.
Questa parola evangelica ci invita a considerare seriamente l’attenzione che ciascuno di noi presta a coloro che incontra: se abbiamo un cuore sensibile verso chi soffre, oppure se siamo concentrati solo su noi stessi e i nostri affari. Ci sono delle domande che ci interrogano, alle quali il testo non risponde: la durezza di Abramo è compatibile con la misericordia cristiana? Lazzaro è consolato a causa della sua povertà o della sua pietà? Il ricco, poi, è punito per la sua ricchezza o per la sua mancanza di carità?
Potremmo trovare degli argomenti per ogni eventuale risposta; resta il fatto che vicinanza e lontananza sfidano sempre e comunque ciascuno di noi: possiamo colmare l’abisso che isola sia chi ha molto sia chi non ha niente?
Il ricco, una volta trovatosi nella condizione di indigenza – la sete ardente e la preoccupazione per i suoi familiari –, supplica Abramo e invoca l’aiuto di Lazzaro, ma ormai la situazione appare irrimediabile. A questo punto, saremmo portati a dispiacerci nel constatare che non ci siano vie d’uscita per chi si rende conto del male fatto, peraltro un male indiretto: il ricco non si è curato di Lazzaro, povero e malato, alla sua porta, ma non ne è stato la causa diretta.
In definitiva, siamo di fronte alla questione della invisibilità di Dio, del suo non chiederci attenzione in modo costringente, ma che si fa vicino nei poveri, e domanda silenziosamente di accorgerci di Lui. Paradossalmente, nel povero Lazzaro, che in ebraico significa “Dio viene in aiuto”, si nasconde il Signore che chiede aiuto. A noi la responsabilità di attraversare gli abissi della solitudine e dell’indifferenza che, mentre ci separano dagli altri, ci allontanano anche da Dio.

18 settembre 2022: XXV Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 16,1-13

In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli:
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. Se dunque non siete stati fedeli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Come già abbiamo visto nelle domeniche precedenti, il vangelo di Luca ci pone di fronte ad alcuni racconti di non facile interpretazione. Oggi, tocca alla parabola dell’economo disonesto, che Gesù loda per la sua intelligenza nel trarre un vantaggio da una situazione critica. A prima vista, saremmo portati a giudicarlo come un imbroglione patentato, anzi, prima un incapace – «fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi» – poi uno scaltro opportunista: «So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua».
Una prima cosa che colpisce, nella decisione del padrone, è che non licenzia in tronco il suo amministratore, né lo manda in prigione, ma gli offre una via d’uscita: «Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare». In qualche modo, dunque, gli dà un’ultima opportunità, che egli coglie al volo, ragionando tra sé e sé. Non vede futuro nel trovare un lavoro manuale né nel mendicare, quindi s’ingegna per trovare una soluzione, che potrebbe essere eliminare dal debito la percentuale che gli sarebbe spettata, o magari anche di più.
Forse è proprio a questa prontezza nel valutare la situazione che occorre guardare, per capire la sorprendente conclusione di Gesù, che si mette nei panni del padrone ingannato una seconda volta: «Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza». Chi si trova in difficoltà non deve disperarsi: c’è sempre un modo per risollevarsi. Basta considerare ciò che avviene a chi cade in disgrazia, a coloro che prima stavano bene e poi si ritrovano senza nulla, ai quali non resta che sperare nell’accoglienza di qualcuno cui rivolgersi con furbizia.
Alla fine, diventa più precisa l’indicazione di Gesù: «fatevi degli amici con la ricchezza disonesta», con ciò che vi è affidato e in realtà non vi appartiene; ovvero, fate buon uso dei beni materiali, in vista di un bene superiore. I soldi non sono tutto, finiranno, dunque cosa resterà?
Per Gesù è chiaro il senso della situazione paradossale: restano gli amici che uno, nel momento della difficoltà, è stato capace di procurarsi. L’ultima frase, sull’impossibilità di servire due padroni, non è solo un monito, ma prima di tutto una constatazione. Ad un certo punto della vita, occorre scegliere se confidare in se stessi e nelle proprie ricchezze, o preferire il Signore e gli altri. Chi sta con le ricchezze avrà falsi amici, che poi perderà; a chi confida nel Signore, anche se perde tutto, potranno rimanere degli amici, alla cui porta bussare per essere accolti.

11 settembre 2022: XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 15, 1-32

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Oggi, con le tre parabole dell’evangelista Luca, Gesù ci introduce nel cuore di Dio, felice di ritrovare tutto ciò che sembrava perduto. Una pecora, una moneta, due figli sono le cose e le persone più care, tutto ciò che abbiamo, anzi, ciò che il Signore ci ha donato, e di cui ci crediamo proprietari. Mentre noi fatichiamo a custodirle, e tuttavia ci sfuggono, Lui invece accetta di lasciarle andare. S’intrecciano, in modo potente e drammatico, la nostra pretesa di possedere e il modo del Signore di donare e accogliere.

La questione più complicata, per il nostro modo di considerare la giustizia nelle relazioni, sta nell’eccesso di felicità e di bontà del padre che accoglie il figlio sbandato, smanioso di libertà e poi ridotto a barbone, che si presenta a casa umiliato e perdente, oltre che perduto. Con questo racconto, Gesù risponde direttamente a «i farisei e gli scribi che mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”».

La parabola dei due figli smaschera l’indignazione di coloro che si credono dalla parte giusta, e disprezzano i pubblicani e i peccatori che si avvicinano a Gesù per ascoltarlo. Sono loro il secondo figlio che resiste alla gioia del fratello «morto e tornato in vita, perduto e ritrovato». Per il padre esiste una giustizia degli affetti che fatichiamo ad accettare, specialmente quando pensiamo che non ci sia posto per due. Torna fuori l’antica tensione tra Abele e Caino: la morte dell’uno sembra dar vita all’altro. È il conflitto originario dal quale non siamo mai liberi, e lo vediamo anche oggi, nel dramma di uno stesso popolo che si distrugge.

Gesù racconta in maniera diversa la ricerca affannata della pecora e della moneta smarrite – questi siamo noi – e l’attesa fiduciosa del padre dei due figli, seppur in modo differente entrambi perduti – questo è Dio. L’unità di tale esposizione è evidente: ritrovare ciò che era perduto suscita una gioia legittima. Anzi, a ben vedere, Gesù racconta la propria molteplice capacità di stare con noi: da una parte, Egli ci raggiunge là dove siamo e, dall’altra, noi possiamo raggiungerlo dove Lui si trova. Non siamo mai così lontani o perduti da non poter essere ritrovati.

Il problema sta nella concentrazione che abbiamo su noi stessi, quando misuriamo il dare e il ricevere, e l’altro, il peggiore, non merita mai quanto meritiamo noi. Lo sguardo di Dio, invece, va sempre oltre, tiene insieme, accoglie e perdona non solo lo smarrimento, ma anche la rigidità. Per questa ragione, la parabola dei due figli rimane aperta: non sappiamo se alla fine il figlio maggiore avrà ceduto alla supplica del padre. Ciò significa che c’è sempre speranza, anche per i più resistenti, vittime di se stessi, ma sempre accolti come figli, forse ancor più bisognosi di tenerezza e di perdono. Ad essi, infatti, manca ancora la scoperta della gioia.

28 agosto 2022: XXII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 14,1.7-14
 
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Essere invitati ad una festa, ad un pranzo o a una cena è sempre un onore, fa piacere a tutti. Ci si prepara con cura, si cerca di essere adeguati all’occasione, l’attesa dell’evento è carica di aspettative, soprattutto quando chi ci ha invitato tiene alla nostra presenza; magari si porta anche un dono all’ospite.

I vangeli raccontano varie occasioni in cui Gesù siede a mensa. Si comincia con le nozze di Cana, insieme a Maria e ad alcuni amici; poi a casa di Zaccheo, da Simone il fariseo e in altre occasioni. Gli viene rimproverato di essere amico dei pubblicani e dei peccatori, persino un mangione e un beone, a differenza dell’ascetico Giovanni Battista. Quando si tratta di rappresentare il regno di Dio, annunciato con tanta passione, Gesù impiega l’immagine del banchetto, al quale molti tra gli invitati della prima lista trovano scuse per sottrarsi, e vengono sostituiti da poveracci raccolti per strada.

Oggi, il brano evangelico racconta uno di questi episodi. A casa di un capo dei farisei, Gesù coglie l’occasione per parlare di umiltà – «chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» –, perché vede l’ansia dei commensali nel raggiungere i primi posti. Una cosa simile avveniva anche tra i suoi discepoli, magari in discussioni sottovoce: chi è il più importante, chi conta di più?

Il discorso riguarda tutti. Da una parte, ci sono gli ospiti ospitati, smaniosi di mettersi in evidenza, preoccupati di primeggiare, con la paura di non essere visti, apprezzati, riconosciuti – come succede in certi matrimoni, dove le invitate sfoggiano più della sposa. Dall’altra, gli ospiti ospitanti, che mettono nella lista amici, parenti e i personaggi più in vista nel contesto sociale, invece di invitare «poveri, storpi, zoppi, ciechi», che non possono contraccambiare.

Gesù sposta l’attenzione di tutti più avanti, verso «la risurrezione dei giusti», quando il Signore dirà a coloro che in questa vita non hanno contato nulla: «Amico, vieni più avanti!». Saremo anche noi tra questi nella misura in cui avremo cominciato a fare spazio a coloro che stanno ai margini, sono scartati, e nessuno ha voglia di sedervi vicino, non dico per mangiare, ma neppure per sentirne l’odore. Per fortuna, non esistono posti prenotati nel regno di Dio: va avanti chi arriva per ultimo.

Non dimentichiamo che Gesù, tra le molte cene fatte in compagnia di gente varia, alla sua ultima non ebbe timore di sedere accanto a chi lo avrebbe tradito, baciato dal quale, poco dopo, disse: «Amico».

Pensando a Giuda, pensiamo anche a noi, ma ci consolano le parole di don Primo Mazzolari, il giovedì santo del 1958, quando concludeva la sua omelia dicendo: «Anche quando noi ci rivolteremo tutti i momenti contro di Lui […] ricordatevi che per Lui noi saremo sempre gli amici».

21 agosto 2022: XXI Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 13,22-30
 
In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme.
Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?».
Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno.
Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”.
Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori.
Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

Anche quella di oggi è una pagina del vangelo difficile da spiegare, se non nel quadro dell’insegnamento complessivo di Gesù. Alla domanda di un tale su quanti saranno i salvati, il Maestro risponde: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta». L’immagine è quella di una casa con una porta, che ad un certo punto viene chiusa. Fino ad allora è stata aperta a tutti, ma viene un momento in cui alcuni rimarranno fuori. La scena è inquietante: siamo messi di fronte all’ultima possibilità di accesso: o dentro o fuori.

Non siamo abituati a pensare a questa eventualità, perché crediamo di avere sempre tempo e nuove possibilità, di fronte alle situazioni umane, anche alle più complicate. In effetti è così, ma il Signore della storia ad un certo punto, come ha dato inizio così compirà il suo piano di amore e di salvezza. Che ne sarà allora di coloro che gli ripeteranno: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze»?

La risposta del Signore appare come impietosa: «Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!». Dio non riconosce coloro che sono stati ingiusti, non tanto verso di Lui, ma verso i fratelli, ai quali la giustizia è dovuta come primo gradino della carità.

Il criterio ultimo col quale saremo giudicati è chiaro per Gesù: ero affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere, e «ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me». La domanda dunque ci riguarda tutti, nel tempo della vita che ci è donato: ci siamo fatti prossimo a questi ultimi e scartati? Le opere che noi chiamiamo di “misericordia”, in realtà sono anzitutto opere di “giustizia”, e ad esse siamo tenuti tutti, senza distinzione di religione, perciò la chiamata alla salvezza è universale.

In definitiva, la porta stretta sono i fratelli più deboli nei quali Gesù si nasconde al punto che potremmo non riconoscerlo. Solo quando ci saremo fatti piccoli, pronti a servirli come nostri signori, avremo accesso alla gioia del Signore, che non avrà fine. Il tempo che abbiamo è dono prezioso da non sprecare; i talenti che abbiamo non vanno sotterrati per paura del rendiconto. Non c’è da temere il giudizio finale: sarà sull’amore accolto e donato, e questo è possibile, anzi necessario, per tutti.

La conclusione della parola di Gesù – «vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi» – non è una minaccia, ma un invito a rovesciare fin da adesso l’ordine delle relazioni, e questo è il compito da assolvere che ci è affidato. Alla fine lo riconosceremo come un dono, perché quel che non abbiamo fatto noi, lo compirà il Signore, nella sua giusta misericordia.   

14 agosto 2022: XX Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 12,49-53
 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

Oggi siamo di fronte ad una parola del vangelo piuttosto difficile, almeno per il senso che siamo abituati ad attribuire alle parole fuoco, battesimo, divisione, soprattutto alla luce dell’insegnamento prevalentemente positivo e incoraggiante di Gesù. Il fuoco dello Spirito santo illumina e riscalda, l’acqua del battesimo rigenera e dà vita, la pace è il dono del Risorto ai suoi discepoli impauriti e sconfortati. Invece, nel brano odierno, Gesù parla di fuoco che viene a gettare sulla terra, di angoscia in attesa del suo battesimo, di divisione nelle famiglie. Come dunque intendere queste parole, che suonano con tono minaccioso e inquietante?

La chiave per comprendere l’effettiva ambivalenza delle immagini impiegate da Gesù sta nel fatto che sono riferite a sé, da una parte, e a noi, dall’altra, attraverso uno sguardo sul futuro possibile e reale. Il fuoco del suo amore lo condurrà alla passione, sulla croce, come ad un battesimo attraverso la morte. Per questo i cristiani, quando s’immergeranno nelle acque battesimali, penseranno alla sepoltura con il Crocifisso, per riemergere alla vita nuova del Risorto. Dalla morte e risurrezione di Gesù viene a noi il dono della pace, eppure sappiamo per esperienza come in noi continua a regnare la divisione, e tra noi l’inimicizia e il conflitto. Non si tratta di ciò che Gesù vuole, ma di ciò che accade quando non si accoglie il suo Vangelo.

Il desiderio di Gesù è di trascinarci con sé nell’avventura della trasformazione interiore e della vita: Egli si offre alla nostra libertà, ma la sua accoglienza implica sempre una purificazione. Il fuoco può essere benefico o malefico, rafforzamento o giudizio: tutto dipende da come rispondiamo al suo dono. Se pensiamo che Egli «sia venuto a portare pace sulla terra» senza il prezzo della rinuncia ad affermare noi stessi, ci stiamo sbagliando: le divisioni che lacerano le nostre relazioni, care e difficili, ne sono la prova quotidiana.

In effetti, sorgono divisioni anche a causa del Vangelo di Gesù, dove la scelta tra accoglienza e rifiuto è talmente alternativa da non consentire vie di mezzo. Così avviene quando si decide di donare invece di possedere, di perdonare anziché vendicarsi, di servire invece di dominare, di ospitare piuttosto che escludere. Non è indifferente l’opzione in un senso o nell’altro. Dal momento che non è possibile restare neutrali, non resta che tenere fisso lo sguardo su Gesù, come ci invita a fare la Lettera agli Ebrei, nella seconda lettura di oggi: «Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d’animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella lotta contro il peccato».

31 luglio 2022: XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 12,13-21
 
In quel tempo, uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?».
E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

Ripiegarsi su di sé è il rischio dal quale Gesù ci mette in guardia, nel brano evangelico di oggi. I discepoli e la folla, che ascoltano il Maestro, si trovano di fronte a due diverse situazioni. La prima, in cui Gesù si sottrae al compito di dirimere una questione ereditaria, anche se ai rabbini era talvolta consentito. A prima vista, pare che Gesù eviti di mediare di fronte ad una ingiustizia. In realtà, per Lui i beni che contano non sono quelli che si rivendicano per sé, ma quelli che si condividono: questa è l’ottica del regno che Egli annuncia. Perciò, prendere parte per uno dei due fratelli significherebbe dividere, e questo non vuol farlo, perché sa bene che per gli interessi è facile diventare nemici.

La questione di fondo, dunque, è un’altra: Gesù si oppone ad un rapporto con la proprietà che, per avidità, dimentichi il prossimo. Le sue parole indicano il nuovo orizzonte verso cui volgersi: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». Egli vuole la condivisione, che nasce dal donare, non la divisione, frutto della sete di possesso.

La seconda situazione è descritta attraverso una parabola, che spiega meglio che cosa avviene nei pensieri di chi si ripiega su se stesso. Il ragionamento interiore dell’uomo ricco, che probabilmente ha lavorato onestamente, rivela l’aspirazione profonda del suo cuore: «Che farò? … dirò a me stesso: Anima mia…». Questi guarda al futuro e lo immagina nelle proprie mani: il grano, i miei beni, i magazzini più grandi. Non sa, però, che tra breve morirà, e non potrà fare ciò che ha sognato solo per sé: mangiare, bere e divertirsi.

La conclusione di Gesù mette in risalto l’errore di calcolo dell’uomo benestante, che non ha tenuto conto di un interlocutore decisivo: «Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”». La dimenticanza appare così come il vero limite di chi, pur con la giusta cura delle proprie cose, riduce l’orizzonte delle relazioni, finendo per escludere anziché includere. Non ci sono neppure eredi che potranno beneficiare dei beni accumulati.

Mettere da parte tesori per sé, senza pensare ai più indigenti, significa impoverire gli altri e se stessi, e dunque non arricchirsi presso Dio.

Fare attenzione, in definitiva, è ciò che Gesù ci raccomanda, sia per l’eredità che attendiamo di ricevere, sia per quella che dovremo lasciare. Al sicuro è solo l’anima che non dimentica di aver ricevuto più di ciò che ha conquistato, come Gesù ci insegna: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).

17 luglio 2022: XVI Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 10,38-42

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

Quale sia la parte migliore è ciò che ci domandiamo di fronte ad alcune scelte da fare. Le parole che Gesù rivolge a Marta, nel vangelo di oggi, sembrano togliere ogni dubbio: quando si tratta di decidere tra agire e ascoltare, la cosa necessaria – letteralmente “la parte buona” – è ascoltare la parola del Maestro. Tuttavia, se attribuissimo a Gesù l’intenzione di svalutare il comportamento servizievole di Marta, rispetto alla apparente svogliatezza di Maria, cadremmo in un inganno. Marta è la padrona di casa – come indica il suo stesso nome – perciò assume il dovere dell’ospitalità, e lo esprime con la sua accoglienza premurosa, al punto da essere «distolta per i molti servizi» dall’attenzione verso il Signore. Maria, invece, accovacciata ai piedi di Gesù, pendendo dalle sue labbra, assume la tipica figura della discepola.

L’episodio raccontato dall’evangelista è al tempo stesso reale e ideale, concreto ed esemplare. La risposta di Gesù ha il profilo della diagnosi più che della critica: esiste una priorità, dalla quale Marta rischia di essere distratta. Questa indicazione del Signore è proprio Marta a provocarla, con la sua lamentela nei confronti di Maria. Il confronto, dunque, sorge tra le sorelle, non dal Maestro. Ciò fa pensare ad una permanente oscillazione tra due atteggiamenti spirituali, che spesso hanno animato le comunità cristiane.

Servizio della tavola e servizio della parola sono le due dimensioni che  vennero distinte nella comunità primitiva. Come leggiamo negli Atti degli Apostoli, i diaconi furono istituiti per il primo, mentre agli apostoli fu riservato il secondo. In seguito, la tradizione cristiana ha radicalizzato questa indicazione, ponendo la questione in termini alternativi: tra l’azione e la contemplazione, ha più valore quest’ultima; sebbene l’esperienza monastica benedettina, ad esempio, pur configurandosi come contemplativa, ha preferito trovare una composizione col motto “ora et labora”.

La ricerca di un equilibrio tra il momento dell’ascolto e della preghiera contemplativa, apparentemente inattiva, e l’azione concreta del servizio, ad esempio caritativo, appartiene alla natura stessa della vita cristiana. Evitare l’opposizione, e quindi l’eccesso da una parte, è la vera sfida. L’evangelista «Luca non distingue tra una Maria che predica e una Marta che serve, ma tra una Maria che ascolta e una Marta che si esaurisce nell’esercitare l’ospitalità. Accorda così, con l’immagine di Maria, un posto alle donne nella comunità, cosa che poche religioni antiche offrivano, e con l’immagine di Marta afferma che non ogni diaconia della tavola è conveniente» (F. Bovon).

Ma forse vi è ancora qualcosa in più: Gesù ci insegna che è Lui a prestare attenzione a noi; che è venuto per servire, non per essere servito. Immersa nelle proprie premure, Marta rischia di dimenticare che è il Signore a prendersi cura di lei; perciò impara da Gesù a porre in Lui le sue preoccupazioni, e non in sé.

10 luglio 2022: XV Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 10,25-37

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

Il dialogo tra il dottore della legge e Gesù si apre con una provocazione: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Per raggiungere una così alta mèta bisogna fare qualcosa? Forse si deve scegliere tra i precetti quello più importante e praticarlo. Il dottore aspetta da Gesù una risposta, ma viene rimandato alla sua competenza in materia: egli sa che amare Dio e il prossimo è il cuore della legge di Mosè. A questo punto il discorso sembra chiuso, Gesù concorda e saluta: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».

La didattica del Maestro è esemplare: lascia che la risposta alla domanda la trovi chi lo interpella; non solo per sfuggire alla prova del suo interlocutore, ma soprattutto per far emergere in lui la consapevolezza. Non deve dirlo Gesù cosa bisogna fare, non si mette sul piano di chi insegna e detta regole: parte dall’altro e lo conferma nelle sue migliori intenzioni.

Una volta abbassate le difese e ottenuta la fiducia, Gesù non si sottrae al passo successivo nel dialogo col dottore, che gli chiede di scendere sul piano concreto: «E chi è mio prossimo?». Amare Dio con tutto se stesso sembra la cosa più chiara; ora vuol sapere verso chi esprimere l’amore: c’è forse una gerarchia, o il prossimo sono tutti gli altri indistintamente?

Gesù racconta una storia, in cui quattro persone giocano ruoli diversi: l’uomo mezzo morto, vittima di un’aggressione, un sacerdote, un levita e un Samaritano, che s’imbattono nello sventurato. Non c’è un giudizio nei confronti di coloro che passano oltre senza fermarsi: la legge proibisce di accostare un morto quando si va o si torna dalla celebrazione del culto. Dio e gli altri vanno distinti, in questo caso diventano distanti, persino alternativi.

Sembra dunque che il prossimo sia il disgraziato in fin di vita; risalterebbe così il senso di colpa dei due noncuranti. Invece, sorprende la conclusione che Gesù trae dalle parole del dottore: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». L’attenzione si sposta da chi è nel bisogno a «chi ha avuto compassione di lui».

Che cosa muove il cuore, fa volgere in basso lo sguardo e inginocchiarsi accanto al più debole? Questa è la domanda che attende una risposta da noi. Se non ti senti prossimo a chi è fragile, perché anche tu lo sei, sarà difficile non trovare buone ragioni per tirare innanzi. Il Samaritano, invece, è un separato, un eretico che non ha obblighi verso la legge, quindi non rischia nulla: è un impuro che si accosta ad un impuro. Siamo di fronte ad una cambio di prospettiva: per essere liberi di farsi prossimo occorre partire dalla consapevolezza di sé come l’altro.

A ben vedere, Gesù ha raccontato la propria storia, non la nostra. Ce lo ricorda il Prefazio comune VIII della liturgia eucaristica su Gesù buon samaritano dell’umanità: «Nella sua vita mortale egli passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male. Ancor oggi come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza».

In conclusione, ciò che lega l’amore di Dio a quello del prossimo non si trova in noi, ma in Lui, che si fa prossimo a questa umanità fragile, ferita e prostrata, di cui tutti siamo parte. A noi tocca solo prendere sul serio il suo invito: «Va’ e anche tu fa’ così».

3 luglio 2022: XIV Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 10,1-12.17-20
 
In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.
Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».
I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

Nel brano evangelico di oggi, Gesù, da buon Maestro, guida i suoi discepoli non solo stando davanti, ma anche mettendosi dietro. Invia settantadue discepoli in avanscoperta, a due a due: Lui arriverà dopo nelle varie città della Palestina. Uno strano modo per annunciare la buona notizia del regno di Dio – penseremmo noi. Che garanzia potranno mai dare queste persone senza mezzi e con strumenti minimi, mandati «come agnelli in mezzo a lupi»? L’unica cosa che raccomanda, dopo aver ridotto all’essenziale l’equipaggiamento – senza «borsa, né sacca, né sandali» – è di portare la pace.

I due discepoli del Signore probabilmente appariranno sulla soglia di case sconosciute come sprovveduti. Chi se li troverà di fronte come potrà reagire? Questo modo essenziale, scarno, persino improbabile di presentarsi dovrebbe trovare accoglienza altrettanto semplice. Assomigliano a dei mendicanti, sono più simili ai viandanti e ai pellegrini che ai missionari attrezzati per convertire. Sembra un esperimento, e non è detto che ottenga l’auspicato risultato di preparare l’accoglienza di Gesù, che verrà dopo.

La modalità di questa missione ci interroga, prima ancora del suo contenuto. Gesù non ci sta forse dicendo che Egli si affida alla libertà, sia di chi incontra gli altri nel suo nome, sia di chi riceve questa visita povera e inattesa? Il Signore non bussa mai alla porta di casa senza passare prima dal cuore. Non ha bisogno di imporsi con forza, attraverso strumenti potenti, manda gente normale, comune, che può anche sembrare inadeguata. Insomma pensa a ciascuno di noi. Ciò che conta è fidarsi ed esporsi, accettando il rischio del rifiuto.

La missione dei settantadue non è solo il test di verifica dell’adeguatezza dei discepoli, né degli eventuali ben disposti destinatari, ma solo la preparazione di un terreno che sonda il cuore aperto e generoso dei figli del regno, di coloro che semplicemente sono disposti ad incontrarsi per accogliere la pace, il dono che apre alla comunione. L’annuncio di pace è ciò che il Risorto offrirà ai suoi, smarriti dopo la sua tragica morte. La pace è il segno che l’amore trionfa sui conflitti, che c’è speranza e futuro.

Gesù promette ai discepoli missionari la sua protezione – «nulla potrà danneggiarvi» –, ma occorre fare attenzione a non illudersi: questo potere potrebbe rendere autoreferenziali, il rischio è di scambiare l’eventuale successo con la sottomissione dei demoni al potere che si crede proprio.

Sentiamoci dunque addosso la fiducia del Signore, non temiamo di non essere capaci: Egli non ci espone senza garantire di rimanere con noi. Essere inviati vuol dire uscire dalle proprie paure, senza cadere nell’eccesso opposto della presunzione. Conta guardare a Colui che sta dietro e a coloro che abbiamo davanti, mai solo a se stessi.

26 giugno 2022: XIII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 9, 51-62

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé.
Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio.
Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: «Ti seguirò dovunque tu vada». E Gesù gli rispose: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo».
A un altro disse: «Seguimi». E costui rispose: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Gli replicò: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».
Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio».

Terminato il tempo pasquale e dopo la festa del Corpus Domini, la liturgia della Chiesa ci invita a riprendere da capo il cammino dietro a Gesù, come discepoli rinnovati dal compimento del suo progetto d’amore per noi. La vita cristiana è segnata da una specie di spirale: il ciclo si ripete, ma ogni volta siamo un po’ più avanti; la storia di salvezza avanza verso la sua pienezza. Anche noi non siamo sempre gli stessi, gli anni che passano lasciano traccia nella nostra vita, una sempre nuova presenza del Signore ci accompagna.

Il vangelo di oggi si apre con una indicazione precisa: «Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme». La città santa è il luogo più caro al popolo d’Israele, qui la storia di alleanza con Dio ha il suo centro ideale. Per Gesù significa andare incontro al proprio destino, con la morte e risurrezione, per la salvezza di tutti. La consapevolezza che a Gerusalemme le feste pasquali si trasformeranno in dramma non scoraggia Gesù: Egli decide liberamente di offrire la sua vita, anche se potrà sembrare vittima di un complotto.

Lungo questa strada, l’evangelista Luca registra quattro incontri significativi, soprattutto per i discepoli che lo accompagnano, grazie ai quali anche noi comprendiamo cosa significhi stare vicino al Maestro. Anzi tutto, il rifiuto di accogliere Gesù da parte dei Samaritani suscita una rabbiosa reazione nei discepoli inviati in avanscoperta. Gesù li rimprovera, e riprende il cammino. L’episodio ci fa pensare a certe nostre permalose rigidità: quando troviamo opposizione, talvolta diventiamo intolleranti, invece di andare al di là, con pazienza e clemenza.

Il secondo incontro è di natura chiaramente diversa. Un tale si offre come discepolo. Anche in questo caso Gesù sorprende per la sua apparente ritrosia: «il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo», come per dire che chi crede di trovare sistemazione, sicurezza, rifugio nella sequela, ha sbagliato indirizzo. Stare col Signore vuol dire non avere mèta, ma solo compagnia. Conta con chi si viaggia più che dove si va.

Il terzo e il quarto incontro sono ancora diversi. Un altro è invitato da Gesù a seguirlo, ma questi ha una buona ragione per attardarsi: è morto suo padre, deve andare al funerale. La risposta del Signore sembra di nuovo scostante: il regno di Dio conta più degli affetti? Dovremmo rispondere con Gesù di sì, soprattutto quando si tratta di lasciar andare chi deve rimanere solo nel cuore, senza trattenere da nuovi passi in avanti: «tu invece va’ e annuncia il regno di Dio».

L’ultimo incontro è simile al precedente. Un discepolo è pronto a seguire il Maestro, e chiede solo di andare a salutare i familiari. La sua è una disponibilità incerta e condizionata? Probabilmente sì, dato che Gesù lo mette di fronte ad una alternativa: come si può mettere mano all’aratro e guardare indietro? Ciò significa che il tale non è adatto al discepolato?

Non sappiamo le decisioni prese da ognuna di queste persone di fronte alle risposte di Gesù. Una sola cosa è certa: Egli non vuol creare illusioni. Chi sta con Lui deve sapere che si va verso mète incerte, non prevedibili in anticipo. Il cammino del credente dietro a Gesù è sostenibile solo con la fiducia incondizionata: unica certezza è il suo amore senza riserve, fino in fondo, che non abbandona mai.

12 giugno 2022: Santissima Trinità

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 16, 12-15

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.
Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

Nella solennità della Santissima Trinità, il vangelo ci invita a riflettere su alcune importanti parole di Gesù: «Molte cose ho ancora da dirvi». Il Maestro è stato con i suoi discepoli per un tempo breve, in cui non tutto si è fatto e si è detto insieme. Viene l’ora del distacco, o meglio di una nuova presenza. Occorrerà ricordare, non solo con nostalgia per ciò che manca e sembra perduto, ma soprattutto per la necessità di raccontare ad altri la straordinaria avventura d’amore vissuta con Lui. Non dovrà essere una memoria ripiegata su se stessi, ma annuncio gioioso del dono ricevuto, da condividere con tutti.

Come ha fatto spesso, spostando l’attenzione da sé al Padre, adesso Gesù indirizza lo sguardo e il pensiero dei suoi amici verso lo Spirito santo che verrà: «Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità». Per rendersi conto di ciò che hanno vissuto col Signore, ai discepoli non basteranno i ricordi: ci sono altre cose da scoprire, e lo potranno fare insieme, tra loro e con altri, grazie allo Spirito, che viene dal Padre e dal Figlio tornato nel suo seno.

Nasce così la fede nella Santa Trinità, senza difficili speculazioni intellettuali. Da quella che poteva sembrare una perdita, nasce un incremento di compagnia: il Figlio scompare, perché va dal Padre suo, e insieme mandano lo Spirito. In questo modo, Gesù sarà più presente tra noi dopo la sua Pasqua di prima. La fiducia in Lui allarga l’orizzonte della memoria e dischiude lo sguardo verso un futuro pieno di speranza. Passato e futuro s’intrecciano, il rapporto tra Maestro e discepoli fa spazio a tutti coloro che non hanno avuto la grazia di stare con lui, che avranno bisogno di sapere, di conoscere la loro storia. Perciò, lo Spirito «dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future».

Il racconto di quell’esperienza originaria, attraverso la testimonianza degli apostoli, giunge fino a noi, e ci affida il compito di custodire, di trasmettere e di comprendere qualcosa di nuovo. Le parole di Gesù le prende lo Spirito e le dice al cuore: non sono regole da osservare, ma sussurri che fanno palpitare, intuizioni che suscitano la fantasia dell’amore, stimoli ad avere il coraggio di rischiare nuove strade.

Dio non si chiude di nuovo in un cielo muto e inaccessibile: ormai la nostra carne abita nel seno della Trinità, e tra noi Egli vive come comunione di persone. Non Uno (il Padre) più Uno (il Figlio) più Uno (lo Spirito), ma piuttosto Uno per Uno per Uno, uguale un solo Dio in tre persone che vivono d’amore per noi, per tutti. La Santa Trinità non ha bisogno di essere capita: Gesù ci ha insegnato ad amare, non a discutere; da Lui impariamo a servire, non a giudicare. Con lo Spirito, avremo la forza di consolare, mai di intristire. Dal Padre riceviamo ogni dono da condividere, non certo il potere per dominare. 

29 maggio 2022: Ascensione del Signore

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 24, 46-53

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto».
Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.

L’evangelista Luca descrive il congedo di Gesù dai suoi discepoli con parole essenziali: «Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». Un saluto che ha il tenore dell’addio, proprio in senso letterale: a Dio, dal Padre, di ritorno da dove li ha persuasi di essere venuto, in cielo. Ci si aspetterebbe un clima di triste commiato, affollato dai ricordi: non vedranno più il Maestro amato, il Signore che hanno seguito con passione e fatica, ascoltato e incompreso, al quale si sono stretti e che hanno abbandonato. Sembra la fine di una storia, e invece è un nuovo inizio.

Occorre ripensare a quanto accaduto, a quello che di essenziale rimane e conta più di tutto: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno». Le antiche promesse di Dio si sono compiute nel suo Figlio Gesù, perciò è venuto il momento di trarne le conseguenze. Il Maestro guarda indietro e avanti, al dono fatto ai suoi e al compito loro affidato: «nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati». Le parole di Gesù infondono fiducia, nonostante il delicato momento del distacco: «io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso»; sarà infatti lo Spirito santo a consolare e a dar loro coraggio, per diventare testimoni del Signore.

Testimoniare significa partire da Gerusalemme, incontrare tutti, ebrei e pagani, raccontare loro una storia incredibile, esporsi e rischiare la vita. In questo modo, l’attenzione dei discepoli è spostata: non c’è da piangersi addosso per la scomparsa del Maestro, che in verità li aveva già sconvolti con la sua morte in croce. Gesù è il Signore delle sorprese, con Lui non si sa cosa può succedere, la vita è un’avventura travolgente, mossa solo dall’amore. Una sola cosa è certa: i suoi amici hanno imparato a fidarsi nonostante le loro fragilità ed incertezze. Lui non li abbandonerà mai.

Il brano si conclude con due strane annotazioni: «tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio». Da una parte, giustamente rimangono in città ad attendere lo Spirito annunciato, dall’altra, invece di essere tristi gioiscono, pur sapendo che il Signore se n’è andato. Poi vanno nel tempio, mentre ormai sanno che non c’è più luogo in cui adorare Dio se non in spirito e verità. Il nuovo tempio sarà la comunità credente, la cui pietra d’angolo scartata dai costruttori è il Signore Gesù. Mentre un corpo scompare, un altro si va formando: la Chiesa.

Con l’ascensione di Gesù al cielo comincia una nuova storia per tutti. Per l’umanità, animata dalla speranza dentro ogni dolore, persino oltre la morte. Per Dio stesso, che nel seno della Trinità accoglie la novità della carne di Gesù: ricevuta da Maria, con l’odore della bottega del falegname, profumata dell’unguento mischiato a lacrime d’amore. Sono tracce che durano per l’eternità.  

22 maggio 2022: VI Domenica di Pasqua

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 14,23-29

In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]:
«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato.
Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.
Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore.
Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Gesù insiste molto su questo singolare rapporto tra l’amore verso di Lui e le sue parole, dove persino il Padre e lo Spirito santo sono coinvolti. In effetti, è una verità che riguarda tutti, anche umanamente: chi vuol bene, tiene conto di ciò che dice l’altro, se lo ricorda, gli dà valore. Ma nel caso di Gesù sembra addirittura che sia richiesto il dovere dell’osservanza, come se fosse una nuova legge cui obbedire. In realtà, Egli intende la custodia del suo insegnamento, delle parole e dei gesti che consegna ai suoi amici, per vivere nel suo nome e alla sua presenza.

Occorre riflettere su ciò che significa custodire. Scriveva Catullo: «Le cose che si amano non si posseggono mai completamente. Semplicemente si custodiscono». Perché ci sono affidate, fanno appello alla memoria del cuore, si nascondono dentro di noi, pronte ad affiorare nei momenti più importanti. Ciò vale per le parole che feriscono, ma soprattutto per quelle che consolano.

La memoria di Gesù non è un museo di cose sepolte, pronte ad emergere come spettri del passato: è piuttosto il pozzo profondo dove attingere l’acqua fresca che ristora. Le parole di Gesù dischiudono sempre spazi nuovi, è la consegna di una promessa più che un comando: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. […] Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore». La fede intuisce, sa immaginare, anzi è la certezza dell’affidamento allo sguardo innamorato del Signore verso di noi. Senza questa memoria siamo perduti, non sapremmo dove appigliarci quando imperversa la tempesta.

Perciò, Gesù promette lo Spirito santo, il Paràclito, l’altro Consolatore: «lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». Non sapremmo nulla dell’amore senza il dolce ospite dell’anima, il maestro interiore, Colui che viene a noi per dare forma al volto del Signore – che non abbiamo mai visto –, sul quale brilla dolcezza ineffabile e familiare, dono di gioia e speranza, oltre ogni pena. Un antico inno liturgico medievale, attribuito a san Bernardo di Chiaravalle, recita nella prima strofa:

«Iesu dulcis memoria
dans vera cordis gaudia
sed super mel et omnia
eius dulcis praesentia».

«O Gesù, ricordo di dolcezza
sorgente di vera gioia al cuore
più del miele e di ogni cosa
dolce è la sua Presenza».

15 maggio 2022: V Domenica di Pasqua

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 13,31-33a.34-35

Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».

Sorprendono – e un po’ inquietano – le parole di Gesù che insistono sulla gloria, dopo che Giuda è uscito dal cenacolo nella notte: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato». Egli sta per essere catturato, maltrattato, condannato a morte, eppure il suo sguardo va oltre, è avanti: nulla può fermare il suo amore senza limiti. Il perdono per chi lo tradisce, per chi lo sta per rinnegare, per coloro che lo abbandoneranno e persino per chi lo vorrà crocifisso, è già dentro il suo cuore. Ha una sola certezza: il Padre, «Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito».

Come si può pensare alla gloria di fronte all’abisso della solitudine, della morte imminente? Qui sta il segreto di Gesù: l’amore non è mai sprecato, nulla va perduto di ciò che si è speso gratuitamente. Questo significa non fermarsi dinanzi all’umana delusione dell’incomprensione e del rifiuto. Chi vuol bene davvero non si pente mai. Gloria vuol dire pienezza di vita, relazioni che, seppur interrotte, non si spezzano, perché le tiene in vita chi non ritrae il dono fatto, e offre ancora possibilità di ricominciare. È lo sguardo del Signore, che si allunga al di là delle sconfitte, per ridonare speranza a chi si smarrisce.

Il centro del brano evangelico di oggi è nelle parole decisive che Gesù rivolge ai suoi discepoli di ogni tempo: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri». Non parla di un amore qualsiasi, ma del suo. Il “come” fa la differenza, e si riferisce al passato, a ciò che i suoi amici potranno ricordare di Lui, una volta che Egli se ne sarà andato.

Si tratta dunque di guardare al modo con cui Gesù è stato con gli altri: non scegliere tra i buoni e i cattivi, avvicinare i più deboli per risollevarli nel corpo e nell’animo, mostrare a ciascuno che è amato senza condizioni, perdonare chi ti fa del male, non giudicare dalle apparenze, cercare il bene anche nei più cocciuti, lottare contro le ingiustizie, accogliere gli scartati e annunciare a tutti che c’è speranza e salvezza.

L’amore con cui Gesù ha amato, ama e amerà è sempre concreto, non è un sentimento vago, che si affida all’istinto di un momento, né decide chi lo merita o lo contraccambia. In questa assoluta gratuità sta la differenza. Potremmo persino dire che non ha un “perché”, ma solo un “come”. Se teniamo conto di questo, allora possiamo comprendere il senso della novità del suo comandamento – «Vi do un comandamento nuovo» –, che consiste nel non scegliere. È un amore universale, viene da Dio, non si pente, perdona e salva. Chi lo accoglie sarà reso capace di trasmetterlo, e sarà il segno distintivo dei discepoli del Signore: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». Chiediamo a Gesù di farcene dono: senza la sua grazia, non sarebbe alla nostra portata.

8 maggio 2022: IV Domenica di Pasqua

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 10, 27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Lo ripete due volte, Gesù, che nessuno potrà strappare dalle sue mani e da quelle del Padre le sue pecore, i suoi amici, l’umanità amata senza riserve, fino in fondo, per l’eternità. È la sua promessa e il suo desiderio. Queste affermazioni sono talmente decise e intense da suscitare in noi una certezza incrollabile: l’amore col quale Gesù ci tiene e ci trattiene con sé è più forte di qualunque cosa, del peccato e della morte.

Eppure siamo consapevoli della nostra fragilità, delle resistenze che ci trattengono dal fidarci e affidarci. Ma questo non impedisce al Signore di rivolgerci ancora la sua parola, la sua voce continua a risuonare nella Chiesa, per farsi spazio nei nostri cuori, e penetrare la coscienza anche di coloro che sembrano più lontani. Si tratta del suo fermo desiderio di custodirci. Ci abbraccia senza soffocarci. Ci sussurra al cuore senza invaderci. Guida senza forzare. Lenisce le ferite con tenerezza. Si fa presente senza dominare.

Cosa possiamo imparare dall’immagine del buon pastore? Prima di tutto, che Egli si è fatto Agnello, piccolo, ferito e insanguinato – come ci ha ripetuto la seconda lettura, dall’Apocalisse – e solo così vuol sedere sul trono del suo regno eterno di amore e di pace. Dalle sue piaghe siamo guariti. Non ci resta che affidarci all’amore crocifisso e glorioso del Signore Gesù, debole con i deboli, misericordioso con i peccatori, ma anche giusto con i prepotenti della storia.

A Lui affidiamo le nostre tristezze per questo mondo malato di egoismo, a Maria sua Madre consegniamo il dolore per le vittime della guerra, per tutti i bambini che oggi sono rimasti senza la mamma. Ringraziamo il Signore per la mamma che ci ha donato: rimarrà sempre il suo dono più grande, sia in cielo sia in terra.

«C’è un posto nel mondo
dove il cuore batte forte,
dove rimani senza fiato,
per quanta emozione provi,
dove il tempo si ferma
e non hai più l’età;
quel posto è tra le tue braccia
in cui non invecchia il cuore,
mentre la mente non smette mai di sognare…
Da lì fuggir non potrò
poiché la fantasia d’incanto
risente il nostro calore e no…
non permetterò mai
ch’io possa rinunciar a chi
d’amor mi sa far volar».

[Alda Merini, Tra le tue braccia]

24 aprile 2022: II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 20,19-31
 
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

La sera del primo giorno della settimana, Gesù attraversa le porte chiuse e si presenta ai suoi amici. Poi vi torna anche otto giorni dopo. Essi sono smarriti e impauriti, ma adesso gioiscono, increduli, stupiti, sconvolti. Non c’è stato tempo per elaborare il lutto. L’unico vuoto lasciato è quello del sepolcro. Gesù fa loro due regali: la pace nel cuore e lo Spirito. I peccati sono perdonati. Ci sarebbe stato da aspettarsi un rimprovero da parte del Signore, il senso di colpa per l’abbandono dei discepoli. Invece niente: solo la pace e la gioia. Questa è la novità di Pasqua: basta col passato, è l’ora di guardare avanti, non più a se stessi, oltre la paura, aldilà della morte.

Comincia così una nuova avventura: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Bisogna uscire dalla paralisi, partire e raccontare a tutti la breve e intensa storia d’amore vissuta insieme al Maestro. Non importa se si è capito tutto, se si è stati fedeli, se lo si è seguito fino in fondo. Adesso c’è la possibilità di rimediare: quanto non si è fatto prima tocca farlo d’ora in poi: diventare testimoni, con la forza dello Spirito.

Restano le proprie debolezze e fragilità, ciò che rende nuovi è il perdono, la grazia pasquale, la inattesa presenza misericordiosa del Crocifisso Risuscitato dai morti. Per questo oggi celebriamo la giornata della misericordia: Dio accoglie anche il rifiuto, lo perdona e salva dal peccato e dalla morte.

Nel nuovo orizzonte dischiuso dall’evento pasquale del Signore, c’è spazio anche per il dubbio, l’esitazione, la sfida. Tommaso ci rappresenta tutti, nel momento dell’incertezza, quando sopravviene la tentazione di toccare, di vedere, di essere certi. La fede pasquale genera un altro modo di stare con Gesù, che non viene dalla carne e da sangue, né dalla sola sensibilità umana, ma dalla sua grazia.

Da quel momento in poi, saranno «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!», ovvero tutti noi che, a distanza di secoli, incontriamo il Risorto grazie alla testimonianza ininterrotta di coloro che ne hanno custodita e trasmessa la memoria viva. La Chiesa nasce dalle ferite aperte del Crocifisso, con l’acqua del battesimo e il sangue dell’eucaristia, e dal dono dello Spirito, effuso sulla croce e donato dal Risorto.

Ci sarà ancora modo di tendere la mano e metterla nel fianco del Signore: quando incontriamo i più vulnerabili, i feriti, gli scartati. Quella sarà l’ora di credere alla sua nuova presenza in mezzo a noi. Gesù ha promesso di rimanere tra i suoi amici in due modi: con l’eucaristia e con i poveri. Dubitare che Egli sia lì, in mezzo a noi, in questi modi, sarà la sfida permanente della fede. Non potremo credere ad una presenza senza l’altra, perché solo l’amore ci permetterà di riconoscerlo. E quello che avremo fatto ai nostri fratelli più fragili, lo avremo fatto a Lui.

10 aprile 2022: Domenica delle Palme

Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Luca: Lc 22,14-23,56

«Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell’uomo, gli alberi, gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.
Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna».

Mario Luzi
Via Crucis al Colosseo, 1999

27 marzo 2022: IV Domenica di Quaresima

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 15,1-3.11-32
 
In quel tempo, si avvicinavano Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Con la storia del padre misericordioso e dei due figli perduti, Gesù pone la nostra umanità di fronte ad uno specchio, ove si riflettono i tratti di ciascuno di noi, delle nostre relazioni verticali e orizzontali. Ma soprattutto emerge il profilo del volto di Dio, dinanzi a qualunque resistenza al suo amore appassionato e senza riserve. Gesù racconta questa storia perché i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Dunque è una spiegazione del motivo per il quale il Signore sta volentieri con i peggiori, non li scarta, anzi siede a mensa con loro.

Il primo figlio, il più giovane, come ogni ragazzo, ha voglia d’indipendenza, vuole andare in cerca della propria strada, perciò chiede denaro e se ne va. Al padre probabilmente non dispiace questa legittima aspirazione, gli lascia corda lunga, accondiscende e lo lascia partire. Magari egli sa che è fragile, come ogni giovane si troverà di fronte a molte difficoltà, perciò lo aspetta: quella è e rimane la sua casa. Così di fatto avviene. Si trova nel bisogno, cerca lavoro e pane, ma invano, ed ecco una svolta: «Allora ritornò in sé». Comincia un dialogo interiore, pensa alla sopravvivenza, decide di tornare a casa da servo, spinto dal bisogno.

Noi, forse in maniera ipocrita, saremmo tentati di giudicarlo. Invece: «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Al padre non interessano i motivi, non gli lascia neppure terminare il discorso, per lui bisogna subito festeggiare: «perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Un’esagerazione? Forse. Almeno per il fratello maggiore, che si sente offeso, teme che gli venga tolto qualcosa, come se non ci fosse più posto per due nel cuore del padre.

Questa storia parla di noi, ma soprattutto di Dio. Del diritto di essere liberi, che solo il vero amore concede; del coraggio di riconoscere la propria miseria, e di chiedere umilmente aiuto; dell’osservanza di regole senza cuore; della gioia di ritrovarsi, e della tristezza che viene dall’orgoglio. Tuttavia, il racconto rimane aperto: non sappiamo se, dinanzi alla supplica del padre, il figlio maggiore rientrerà a casa per la festa. Il brano evangelico ce lo lascia sperare. Fatto sta che, per il padre, «questo mio figlio» è «tuo fratello», perduto e ritrovato, morto e tornato in vita.

Si dischiude così l’orizzonte pasquale, al quale ci stiamo avvicinando: il passaggio dalla morte alla vita. Per Dio contano più gli effetti che le cause. Non c’è mai un dolore senza speranza di vita, mai una pena da cui non essere risollevati, che tocca uno e riguarda tutti. Il figlio, che vorrebbe essere trattato da servo, trova un padre che gli corre incontro. Il fratello, che ha vissuto da servo, fatica a diventare figlio. Nessuno è perfetto. Ma non è questo che dispiace al Signore. Se disprezzasse l’umano peggiore, sarebbe solo come noi, una brutta controfigura. Invece, il suo amore appassionato «è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia» (Benedetto XVI, Deus caritas est, 10).

20 marzo 2022: III Domenica di Quaresima

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 13,1-9
 
In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

Quando avviene una tragedia voluta dagli uomini – i galilei uccisi da Pilato – o un disastro naturale – le vittime del crollo della torre di Siloe – siamo sempre tentati dalla domanda: di chi è la colpa? Questi esempi di Gesù sono particolarmente attuali per noi oggi. La guerra della Russia contro l’Ucraina e la pandemia, pur essendo due drammi di diversa natura, fanno sorgere lo stesso interrogativo. Che significa allora la medesima risposta di Gesù: «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo»?

Convertirsi o perire tutti, questa è l’alternativa. Non è la minaccia del Signore, ma il suo lamento, la sua supplica rivolta a questa nostra umanità smarrita, desolata, sconvolta. Siamo chiamati ad assumere il suo sguardo pasquale, che passa dalla morte alla vita; una prospettiva diversa da quella che lega la colpa alla pena. Non conta tanto discutere, analizzare, giudicare: è l’ora di volgersi al bene senza esitazione.

Le bombe che cadono dal cielo infiammano e distruggono, le donne e i bambini fuggono, gli uomini rimangono per difendersi e morire. È indicibile dolore che domanda pietà, soccorso, accoglienza. Non c’è che da rimboccarsi le maniche, aprire il cuore e la casa, offrire ospitalità e donare conforto. Questo significa convertirsi.

Come abbiamo fatto con la pandemia, pregando il Signore di allontanare da noi la peste del virus letale, imparando attenzione e cura, prudenza e sobrietà, così adesso, di fronte a questa immane tragedia voluta da un solo uomo, che inganna il suo popolo, non resta che coltivare semi di pace, di amore, di solidarietà. Potrebbe prenderci lo sconforto, il senso d’impotenza, e invece è l’ora di costruire nuove relazioni, ancor più salde, capaci di ridonare speranza a tutti coloro che sono lacerati dal dolore.  

C’è una ragione che viene dalla fede a motivare la svolta del cuore e della vita: la pazienza di Dio. Questo è il tema che attraversa il brano evangelico di oggi. L’albero di fichi che non dà frutti da tre anni è proprio questo nostro mondo ammalato e violento, di cui il Signore non si stanca. Potremmo essere tentati di proiettare su di Lui la nostra delusione, lo scoraggiamento. Ma la parola di Gesù è più forte di ogni tristezza; è la sua supplica rivolta al Padre: «lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire».

Impariamo da Lui, come insegna papa Francesco: «La pazienza evangelica non è indifferenza al male. Di fronte alla zizzania presente nel mondo il discepolo del Signore è chiamato a imitare la pazienza di Dio, alimentare la speranza con il sostegno di una incrollabile fiducia nella vittoria finale del bene, cioè di Dio» (Angelus, 20 luglio 2014). Ricordiamoci però che Signore Gesù ha già vinto con un’unica potente arma: il suo sangue versato per amore di tutti, vittime e carnefici compresi.

6 marzo 2022: I Domenica di Quaresima

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 4,1-13
 
In quel tempo, Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano ed era guidato dallo Spirito nel deserto, per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame. Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo”».
Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: “Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto”».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: “Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano”; e anche: “Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra”». Gesù gli rispose: «È stato detto: “Non metterai alla prova il Signore Dio tuo”».
Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato.

Nella prima domenica di Quaresima, il vangelo ci presenta Gesù nel deserto tentato dal diavolo. La cornice della scena è suggestiva: solo Gesù può averla raccontata, dal momento che si tratta di un combattimento consumato nella solitudine. Ciò che Egli sperimenta è la suggestione: quel «fenomeno della coscienza per cui un’idea, una convinzione, un desiderio, un comportamento sono imposti dall’esterno, da altre persone, o anche da fatti e situazioni valutati non obiettivamente, e da impressioni e sensazioni soggettive non vagliate in modo razionale e critico» (Vocabolario Treccani). Ci sono due aspetti che determinano la prova: qualcosa che ci sollecita da fuori, qualcos’altro che spinge dall’interno. Come accade per il bene, così avviene per il male. In realtà, proprio qui sta la difficoltà: distinguere se quanto abbiamo di fronte è un bene o meno, e decidere se dire sì o no? Solo così riconosciamo il valore della libertà, inestimabile dono di Dio.

Hai fame? «di’ a questa pietra che diventi pane». Sfamarsi è giusto, ma Gesù può farlo usando il suo potere, quello che gli è stato dato per diventare cibo per gli altri? La risposta che dà non vale tanto per il diavolo, ma per sé stesso e per tutti noi: «Non di solo pane vivrà l’uomo». Gesù allarga lo sguardo, non si fa ingannare dal proprio bisogno, pensa all’umanità intera che prima del pane – e insieme ad esso – ha bisogno di amore.

La seconda suggestione è ancora più potente: «tutto sarà tuo». Il potere, il dominio sugli altri, su «tutti i regni della terra». Vediamo in questi giorni dove può condurre tale illusione, a quali tragedie porta la sete di potere. Gesù reagisce con coraggio: «Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». Non c’è altro Signore a cui prostrarsi, questa è la certezza che dà speranza a tutti gli umiliati e gli oppressi del mondo. Nessun signore della guerra può prendere il posto del Signore della pace. Sappiamo quanta forza dà la fede, specialmente nei momenti di grande prova. Perciò dobbiamo pregare molto, perché chi soffre trovi il coraggio di non soccombere, prima di tutto interiormente, sapendo che non è da solo.

Infine, l’ultimo miraggio è quello della presunzione: «gèttati giù di qui», approfitta della tua posizione, fai vedere chi sei, esponiti pure al pericolo, ti andrà comunque bene. Gesù non ascolta la voce imperiosa dell’io, che si afferma su tutto e su tutti: «Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». Gesù non vuol essere il Dio dei potenti, ma il Consolatore dei deboli; è venuto per servire, non per essere servito.

Dinanzi alle prove, occorre volgersi altrove, e assumere uno sguardo diverso. Il rischio più grande è di lasciarsi trascinare nel conflitto, in una spirale senza fine, dove il più fragile sicuramente soccomberà. Potrà persino sembrare debolezza, ma l’unico modo per vincere le suggestioni del male è rimanere attaccati al Signore, senza fuggire, con la certezza che Egli non ci abbandonerà mai.

Ciò che permette di vincere la tentazione è non credere alla propria incolmabile solitudine: quando ti credi abbandonato, quello è il momento della sconfitta; se c’è qualcuno vicino a te, diventi più forte. Per tale ragione, proprio in questi giorni, il popolo ucraino ha bisogno del sostegno e della presenza affettiva e solidale di tutto il resto dell’umanità, il cui destino ultimo non può che essere la pace.

27 febbraio 2022: VIII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 6, 39-45

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola:
«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello.
Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».

Il tema del brano evangelico di oggi è il discernimento. Gesù invita i suoi discepoli a far bene attenzione a tre cose importanti: la guida, il giudizio, i frutti. In tutti e tre gli esempi – che Gesù chiama parabola – ci sono delle coppie: due ciechi, due fratelli, due alberi. Dunque, occorre valutare bene il nostro modo di vivere le relazioni, per saper scegliere il bene.

Prima di tutto, l’unico Maestro da seguire è Gesù stesso; chi lo sostituisce con altri rischia di smarrirsi: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?». Questo succede quando qualcuno si crede più saggio di un altro, e magari pretende di dare consigli prendendo il posto dell’unico Signore, la vera luce che illumina ogni uomo.

Secondo esempio. È il caso di un fratello che crede di dover correggere il fratello, ma in realtà lo giudica: «mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio». Ci si fa un’immagine deformata dell’altro quando non stiamo bene: allora diventiamo insofferenti nei confronti di dettagli irrilevanti, tutto ci dà fastidio, tendiamo a proiettare sull’altro la nostra insoddisfazione. È il momento in cui fare un esame di coscienza, invece di ergersi a giudici ipocriti. La consapevolezza dei propri limiti è il primo passo per diventare tolleranti, comprensivi, clementi: «Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello».

Terzo esempio. Distinguere tra l’albero buono e quello cattivo: «Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto». Si tratta di valutare bene le conseguenze di ciò che ha origine nel cuore. Il bene scaturisce da un cuore buono, il male dal cuore cieco, sprezzante, impietoso.

Sono tre situazioni in cui siamo messi di fronte a noi stessi e agli altri. Da chi ci lasciamo guidare: da ciechi presuntuosi o dal Signore che ci fa suoi discepoli? Lo stesso vale per noi, nel momento in cui ci illudiamo di guidare gli altri, mentre non siamo consapevoli della nostra fragilità e, dunque, manchiamo di misericordia. Che cosa c’è nel nostro cuore, che ci spinge a pronunciare parole buone o cattive, a compiere gesti di bontà o di egoismo?

Sono le domande che Gesù ci rivolge, ed è quanto mai opportuno rispondervi proprio alla vigilia della Quaresima, tempo propizio per la conversione del cuore: dall’io cieco e giudicante al tu benevolo e misericordioso. Senza questo passaggio, frutto della grazia, che viene dall’ascolto dell’unico vero Maestro, non troveremo la strada impegnativa e luminosa della pace, di cui ciascuno di noi e l’umanità intera ha sempre più bisogno, soprattutto in quest’ora oscura che incombe sull’Europa.

20 febbraio 2022: VII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 6,27-38

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.
E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro.
Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gl’ingrati e i malvagi.
Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso .
Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio”.

Le parole che oggi Gesù rivolge ai suoi discepoli sono dirompenti: «amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male». Viene spontaneo chiedersi: è mai possibile? Come si fa? Il tono appare imperativo, quasi un ordine indiscutibile. Eppure è quanto di più difficile, non solo da fare, ma anche da comprendere. C’è un istinto di difesa che ci soccorre di fronte a chi fa del male, una reazione spontanea, persino sana, che fa prendere distanza da chi offende e fa soffrire. Perché allora Gesù comanda di rovesciare quel legittimo sentimento umano di cui tutti facciamo esperienza?

Le parole di Gesù vanno ascoltate tutte, e quelle seguenti ci aiutano a capire: «come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro». A pensarci bene, chi fa del male non sempre ne ha piena coscienza e volontà. Qualche volta sarà capitato anche a noi di ferire e, una volta presa coscienza, avremmo desiderato essere perdonati, ma magari non abbiamo avuto la forza di chiedere scusa. Chi non ha qualcosa da farsi perdonare? Qui la parola di Gesù apre una strada: accogliere la debolezza di chi odia e maledice, senza scambiarla con la forza. Il male può essere sconfitto dal bene. Quando nel proprio cuore si fa spazio il risentimento e il rancore, il male raddoppia invece di sparire.

Siamo tutti capaci di scambiare bene con bene, di dare e di ricevere alla pari. Ciò che invece ci mette davanti il Signore è lo squilibrio: uno fa il male e l’altro risponde col bene; uno odia e l’altro ama; uno offende e l’altro perdona. C’è una ragione di fondo che spinge i cristiani su questo piano inclinato, ed è il modo di fare di Dio con noi e con tutti: «sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso».

Il terreno delle relazioni è scivoloso, asimmetrico, senza proporzioni né equivalenze. È più facile di quanto non sembri passare da vittime a carnefici: vi conduce la logica dell’occhio per occhio. Non si restituisce mai nella stessa misura, si rischia sempre l’eccesso. Ecco allora la logica rovesciata di Gesù: non condannare per non essere condannati, perdonare per essere perdonati. Chi dona amore ne riceverà sempre di più, magari non dalle stesse persone, ma da altre. Il circolo virtuoso del bene non si chiude tra l’io e il tu, ma va oltre. Secondo Gesù, questo è il modo per spezzare la spirale del male: far circolare il bene ovunque, a cominciare da dove manca.

Merita ricordare e ripetere spesso la Preghiera semplice di san Francesco d’Assisi:
«O Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace:
dove è odio, fa’ ch’io porti amore,
dove è offesa, ch’io porti il perdono,
dove è discordia, ch’io porti la fede,
dove è l’errore, ch’io porti la Verità,
dove è la disperazione, ch’io porti la speranza.
Dove è tristezza, ch’io porti la gioia,
dove sono le tenebre, ch’io porti la luce.
O Maestro, fa’ che io non cerchi tanto:
ad essere compreso, quanto a comprendere.
ad essere amato, quanto ad amare.
Poiché:
se è dando, che si riceve:
perdonando, che si è perdonati;
morendo, che si risuscita a vita eterna. Amen».

13 febbraio 2022: VI Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 6,17.20-26

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo.
Rallegratevi in quel giorno ed esultate,
perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo.
Allo stesso modo infatti agivano
i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi.
Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

Nel brano evangelico di Luca i beati sono quattro e i guai pure, invece degli otto beati del vangelo di Matteo. Qui siamo in pianura, là sul monte. Le due versioni complementari mostrano che Gesù deve aver parlato in diverse occasioni in modo simile, pensando non solo al futuro rovesciato da Dio, ma anche al presente da cambiare, che tocca a noi. In questo testo evangelico, infatti, sono messe a confronto due realtà opposte: chi sta male e chi sta bene, insieme alle conseguenze della giustizia di Dio e alle opportunità di cambiamento che valgono per tutti.
Non può che sorprendere il chiamare beati, ovvero lieti e felici coloro che versano in condizioni di povertà, le più differenti, gli affamati di pane e di amore, quelli che piangono e sono tristi per le avversità che debbono sopportare, gli offesi e i disprezzati perché discepoli del Signore. La vera ragione di questa strana beatitudine è che il Signore è l’unico a prendersi cura dei più deboli senza chiedere nulla in cambio: lui è il futuro ultimo di tutti gli scartati della terra. Gesù è qui, accanto a loro, per mostrare che quel futuro annunciato comincia con lui, che li avvicina con tenerezza.
Subito dopo, egli annuncia i guai per quelli che passano accanto ai poveri e restano indifferenti, pieni di sé e delle proprie sicurezze; per coloro che pensano al proprio benessere, incuranti di chi non ha nulla; a chi vive preso soltanto dalle cose materiali, senza alcuna interiorità.
Dunque, non sono soltanto promesse di riscatto per primi e minacce di sconfitta per gli altri: Gesù vede l’universo umano così com’è, immaginando cambiamenti impegnativi e radicali del modo di essere, che cominciano dal modo di pensare e di vivere. Il problema fondamentale è la chiusura dentro confini che sembrano invalicabili, destini segnati e irrimediabili, condizioni fatali che non prevedono svolte. Ed è su tale ineluttabilità che oggi siamo provocati: davvero non c’è modo di prendere parte attiva al cambio di rotta verso la fraternità?
La speranza di Gesù non si volge tanto alla giustizia divina, che rovescerà i potenti dai troni e innalzerà gli umili alla fine della storia, ma è soprattutto invito ad aprire occhi e cuore nel tempo presente, per mettere in atto “la giustizia degli affetti” (P. Sequeri). Il Dio che Gesù rivela con parole e gesti non è uno che ti abbandona al destino che ti procuri e ti meriti, ma il Padre amoroso che, mentre consola i disperati, non si stanca di bussare alla porta dei cuori chiusi.
Chi non ha niente e vive con la tristezza nell’animo non è così inutile come pensa: c’è lo sguardo di chi non lo rifiuta, e questo è di Dio e di coloro che lo prendono sul serio. Chi ha tutto e pensa solo per sé non è poi così certo di conservare la propria egoistica tranquillità: c’è una voce che scomoda quel po’ di coscienza che resta, non con la minaccia di perdere tutto, ma con la supplica di accorgersi del fratello e della sorella indigente.
Il Signore Gesù non è un sociologo che analizza il mondo umano e ne prevede uno divino migliore. È il Signore che desidera risparmiare a tutti i suoi figli pene di qui e pene di là, offrendo pienezza di vita possibile nell’aldiquà e certa nell’aldilà.

23 gennaio 2022: III Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 1,1-4; 4,14-21
 
Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch’io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’anno di grazia del Signore».
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

Nella giornata dedicata da papa Francesco alla Parola di Dio, la liturgia ci offre alcuni spunti su cui riflettere attentamente. Il primo viene dalla celebrazione della Legge – nella prima lettura – dove il popolo si commuove ascoltando i sacerdoti e gli scribi che la proclamano in pubblico. Siamo ancora nell’Antico Testamento: la Parola scritta è indicazione per il comportamento, invita alla conversione e alla fiducia nel Signore, per poter gioire della sua presenza in mezzo alla comunità d’Israele.

Ma è il Vangelo di Luca a farci vedere oltre: la Parola è la persona di Gesù. Con l’inizio del suo racconto, l’evangelista spiega come ha raccolto le informazioni su Gesù dai testimoni oculari, per rendere solida la fede di coloro che già hanno ascoltato il suo annuncio di salvezza. Subito dopo, la scena si sposta nella sinagoga di Nazaret, dove Gesù prende il rotolo del profeta Isaia e legge un testo importante: «Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione». La gente è colpita dal modo in cui Gesù ha letto, come se fosse lui stesso il contenuto di quel brano. Egli non commenta, riconsegna il rotolo e siede. Di fronte agli occhi fissi su di lui, ecco la conferma: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

I presenti, che hanno intuito qualcosa in più, non si sono sbagliati: colui che ha letto la Scrittura è la Parola in persona, la realizza, in lui si compiono le promesse di Dio non solo ad Israele, ma a tutti, specialmente ai poveri e ai prigionieri. Non è più la Legge a commuovere, non sono più i profeti ad annunciare, adesso è presente Dio stesso in carne ed ossa. Per questa ragione, i cristiani non sono uno tra i popoli del Libro, ma le membra di un corpo vivo, che si muove, lotta e soffre per amore, il cui capo è Gesù – questo ci ha detto San Paolo nella seconda lettura.

Per i credenti, da adesso, leggere le sacre Scritture significa ascoltare Gesù Signore vivo e presente nel mondo. Occorre dunque passare dal testo alla Testa (del corpo ecclesiale), dalle parole di Dio alla sua Parola fatta carne. Così, le Scritture sacre divengono il mezzo per guardare ai fratelli più poveri, ai quali è annunciata la gioia della liberazione da ogni oppressione, la grazia della salvezza che viene da Gesù, senza il quale non c’è vera speranza.

Leggendo il Vangelo, i nostri pensieri sono nutriti dal Signore: impareremo a pregare, come i bambini che imparano a parlare ripetendo le parole dei genitori. Eviteremo così di crearci un Dio a nostra misura, lasciando che siano i suoi pensieri a trasformare i nostri, spesso vuoti e sconsolati. La sua Parola, infatti, continua a ripeterci: «non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza».

16 gennaio 2022: II Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 2,1-11
 
In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.
Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

Appena concluso il tempo di Natale con il battesimo sul Giordano, la liturgia della Chiesa ci presenta il primo dei segni che Gesù compie in modo piuttosto originale rispetto a tutti gli altri che seguiranno durante la sua vita pubblica. Si completa così l’Epifania del Signore, la sua manifestazione pubblica, che la Chiesa identifica in tre momenti: l’adorazione dei Magi, il Battesimo, le nozze di Cana.

Ad una festa di nozze sono invitati Maria, Gesù e i suoi amici. Probabilmente si tratta di due giovani sposi cari alla famiglia di Nazaret. Da donna attenta ai particolari, Maria si accorge di un fatto importante, che forse nessuno ha ancora lamentato, ma che rischia di creare malcontento nei commensali: manca il vino, la festa potrebbe rovinarsi. Lei sa di sedere accanto ad un figlio speciale, capace di fare qualcosa di buono, magari di trovare un rimedio. Segnala il fatto – «Non hanno vino» – senza con questo pretendere nulla. Gesù risponde quasi scocciato, come se volesse restare fuori dalla questione, poi però trova una soluzione sorprendente, più con i fatti che con le parole. Fa riempire sei anfore d’acqua – quella che serviva agli ebrei per la purificazione rituale – per una totale di più di seicento litri: un’esagerazione. I servi obbediscono prima al suggerimento di Maria e poi all’ordine di Gesù senza batter ciglio. Ecco allora la sorpresa del maestro di tavola, attribuita erroneamente allo sposo: «hai tenuto da parte il vino buono finora».

Strano prodigio, quello di oggi, fatto di nascosto, senza clamore, senza parole che spiegano. Perché l’evangelista lo racconta? Di sicuro il segreto sta nella conclusione del brano: «Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui». Gli amici che Gesù ha portato con sé alla festa non sapevano ancora chi era il Maestro, ma da quel momento cominciarono a capire. Questo c’insegna che il Signore sta sempre accanto a noi con discrezione e delicatezza, compie segni non eclatanti, rivela la sua gloria nell’umiltà, e magari in situazioni inaspettate.

Però, se facciamo più attenzione, c’è un gesto ancor più tenero all’origine di questo primo segno: la premura della Madre di Gesù, che, certa del buon cuore del suo figlio, sussurra ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Tra le pochissime parole di Maria, che i vangeli riferiscono, questa appare decisiva, sta all’inizio e vale sempre: al tempo stesso, esprime fiducia e certezza, affidamento e complicità, intimità e libertà. In questo modo, unico e incomparabile, Maria ci permette di entrare nel cuore di Gesù attraverso il suo. L’acqua servirà anche per purificare, ma è il vino nuovo dell’amore versato nei nostri cuori che anticipa la gioia della festa senza fine nel regno di Dio, fin da ora pregustata nell’Eucaristia.

9 gennaio 2022: Battesimo del Signore

Dal Vangelo secondo Luca: Lc 3,15-16.21-22
 
In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

«Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera». Con questi rapidi tratti, i vangeli passano dall’infanzia all’età adulta di Gesù, che inizia la sua vita pubblica, dopo la giovinezza trascorsa nel silenzio e nel nascondimento. Egli lascia la propria casa, comincia la sua missione, s’immerge nel comune destino del suo popolo. Anche se per Gesù non si tratta di purificazione, di fatto avviene in lui una vera e propria conversione, nel senso di una svolta decisiva: dalla vita ritirata di Nazaret a quella itinerante lungo le strade della Palestina, senza un luogo ove poggiare il capo. Giovanni Battista lo riconosce come il Cristo, ma sono il Padre e lo Spirito che lo rivelano a tutti: adesso è lui che bisogna seguire.

Il Battesimo di Gesù è l’occasione per riflettere sul nostro battesimo, la porta dei sacramenti attraverso la quale siamo entrati nella famiglia del Signore, messi a parte della comunità dei credenti, ove ci riconosciamo figli e diventiamo fratelli. All’immagine cara alla tradizione, che ha identificato l’effetto del battesimo con un sigillo, un’impronta indelebile nell’anima – per cui il Padre ripete anche a ciascuno di noi: “tu sei figlio mio” –, potrebbe riferirsi anche un’altra immagine, collegata al tempo che stiamo vivendo: il vaccino. Il che vuol dire: non temere il male che ti minaccia, sono con te, ti proteggo; puoi anche ammalarti, ma non sarai perduto. Ovviamente, la similitudine è relativa: pur segnati dalla consapevolezza di essere figli, rimaniamo liberi, amati nonostante le lentezze, i ritardi, le cadute. Anzi, tale dono ci rende ancor più sensibili verso coloro che non l’hanno ricevuto: anch’essi figli come noi e fratelli tutti.

Prendere coscienza di questo dono ricevuto gratuitamente – il giorno in cui ai genitori «Dio concede di scegliere il nome col quale chiamerà ogni suo figlio per l’eternità» (Francesco, Amoris laetitia, 166) – vale a risvegliare il senso della gratitudine: il primo passo lo ha fatto il Signore, a noi tocca rispondere all’amore, non conquistarlo. Se siamo figli, siamo anche eredi, facciamo parte della sua famiglia, il legame indistruttibile col quale ci stringe a sé ci rende persone nuove, libere, capaci di amare come lui ci ha amati.

Mentre il tempo di Natale si conclude, ha inizio il tempo della sequela. Ci siamo avvicinati al Bambino per imparare a seguire il Maestro, lungo la strada della fiducia, della speranza, con umiltà, pronti a condividere e a servire i più deboli che incontriamo ogni giorno. Al dono ricevuto corrisponde un compito: realizzare con impegno ciò che siamo diventati per grazia: figli nel Figlio, fratelli e sorelle nella famiglia umana.

6 gennaio 2022: Epifania del Signore

Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 2,1-12

Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.

«Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». Con queste parole, alcuni sapienti d’Oriente vanno in cerca del nuovo misterioso re appena nato. Ma non è certo cosa tanto saggia andare a chiederlo ad Erode, che sente così vacillare la propria corona. I potenti sono talmente attaccati al potere che vivono con la costante paura di perderlo, e sono disposti a qualunque cosa pur di mantenerlo. Singolare profezia quella dei Magi: sulla croce di Gesù sarà Pilato a scrivere “Il re dei Giudei”, prendendo ancora l’ultimo abbaglio.

Potrebbe succedere anche a noi di attenderci un Dio sovrano, un Signore dei signori, capace di mettere in riga tutti i potenti del mondo, di liberare da ogni oppressione e di far trionfare con forza la giustizia. Ma non è di questo che si tratta, e i Magi se ne accorgeranno, nonostante il segno celeste che li ha guidati, di cui si sono fidati, portando omaggi regali. «Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono». Un bambino in braccio alla sua mamma, in una casa qualsiasi, senza corte né anticamera: questo è il Signore dinanzi al quale inginocchiarsi.

La tradizione della liturgia cristiana, interpretando simbolicamente i doni dei Magi, guarderà più avanti: l’oro offerto al grande Re, la mirra per l’uomo deposto dalla croce, l’incenso per il Dio immortale. Segni che annunciano il destino di quel bambino, profezie di un compimento adesso nascosto, protetto dalle braccia di Maria, custodito nel suo cuore, in attesa di rivelarsi al mondo. Anche i Magi vedono quel che brilla negli occhi stanchi del vecchio Simeone: «la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti» (Lc 2,30-32). La guida della stella è il riflesso della «luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9). Il segno nel cielo ha sospinto la ricerca sulla terra, a guardare in alto per trovare in basso. Questa via vale anche per noi, specialmente quando pensiamo a un Dio lontano, troppo in alto, che invece viene a cercarci quaggiù, dove siamo, dove viviamo.

La solennità dell’Epifania è l’inizio di quella manifestazione del Signore che procede per gradi: seguirà poi il battesimo sul Giordano, le nozze di Cana, quindi il suo cammino verso la Pasqua. Anche noi, accompagnati dai segni che ogni giorno ci vengono offerti lungo la strada, portiamo a Gesù quanto abbiamo di più prezioso. E quando nelle nostre mani vuote ci sarà solo paura, sofferenza e scoraggiamento, non temiamo: le braccia di Maria, che cullano il bambino Gesù, saranno sempre pronte ad offrirci il suo Figlio, il vero regalo che Dio attende di donarci. In fondo, questo è anche il capovolgimento di prospettiva cui si sono ritrovati i Magi: pensavano di portare doni e, invece, ne hanno ricevuto uno ben più prezioso dei loro.

La nascita di Gesù

«Se in te semplicità non fosse, come
t’accadrebbe il miracolo
di questa notte lucente? Quel Dio,
vedi, che sopra i popoli tuonava
si fa mansueto e viene al mondo in te.
Più grande forse lo avevi pensato?
Se mediti grandezza: ogni misura umana
dritto attraversa ed annienta
l’inflessibile fato di lui.
Simili vie neppure le stelle hanno.
Son grandi, vedi, questi re;
e tesori, i più grandi agli occhi loro,
al tuo grembo dinanzi essi trascinano.
Tu meravigli forse a tanto dono:
ma fra le pieghe del tuo panno guarda,
come ogni cosa Egli sorpassi già.
tutta l’ambra imbarcata dalle terre più remote,
i gioielli aurei, gli aromi
che penetrano i sensi conturbanti:
tutto questo non era che fuggevole
revità: d’essi, poi, ci si ravvede;
ma è gioia – vedrai – ciò che Egli dà».

Rainer Maria Rilke

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