25 dicembre 2021: Natale del Signore
Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 1,1-5.9-14
In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.

«Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio». Oggi, nel giorno di Natale, finalmente possiamo ascoltare la voce di Dio, nei vagiti del suo Figlio Bambino. Un Dio piccolo che piange, uscito dal silenzio del grembo di Maria per gridare all’umanità che c’è anche Lui tra noi. Questa è la prima parola, disarticolata, di Colui che impara a parlare come tutti noi, cercando di farsi intendere da mamma e babbo.
Il Natale ha bisogno di intuizione, non è un evento che comprendono i ragionatori, gli amanti dei sillogismi, della logica. Si accoglie nel cuore ed ha i suoi effetti nella concretezza della vita. Sono questi i due aspetti su cui vogliamo riflettere oggi.
Primo, il cuore. Abbiamo tutti bisogno di sentirci bene dentro, ma cosa ci dà quella pace e serenità che ci auguriamo scambievolmente? La parola che ci raggiunge in profondità è quella dell’angelo notturno: ««Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore». Questo annuncio è per ciascuno di noi, vuol dire: sei amato, sei amata, Gesù viene da te, per te, con te. Lui ti salva dalla tristezza, se ti senti solo; ti solleva dalla malinconia, se pensi a coloro che non ci sono più; cura il tuo dolore dell’animo, se hai ricevuto del male; ti dà coraggio, se hai una malattia.
Secondo, la concretezza. Il vangelo di oggi ci dice che: «il Verbo (ovvero la Parola) si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». Le parole che Gesù sussurra al nostro cuore debbono farsi carne, tradursi in gesti concreti di amore verso gli altri. Non ci sono solo i parenti e gli amici: la gioia che l’angelo annuncia ai pastori sarà “di tutto il popolo”, e noi dobbiamo allargare l’orizzonte. Pensiamo a come far felice, con uno sguardo, con un piccolo gesto, anche chi incontriamo per strada. Solo la fraternità ci salverà – ci ricorda papa Francesco – e fraternità vuol dire sentirsi parte di una famiglia più grande, dove nessuno deve sentirsi escluso. Il Natale è la festa della semplicità, non dello sfarzo; degli umili che si sentono amati e accolti; del trionfo della tenerezza sul disprezzo, della giustizia sulla sopraffazione, della delicatezza e del rispetto nei confronti di chi è più debole, diverso, scartato. Gesù è venuto partendo dalla condizione più disagiata, affinché tutti lo sentiamo vicino. I suoi vagiti di neonato sono la più potente parola che ci rivolge: ho bisogno del caldo abbraccio del tuo cuore, altrimenti muoio di freddo, mentre invece sono venuto per dare vita, ma non senza il tuo aiuto.
19 dicembre 2021: IV Domenica di Avvento
Dal Vangelo secondo Luca: Lc 1, 39-45
In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

«Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo». L’evangelista Luca, che raccoglie la memoria preziosa della testimonianza di Maria, ripete due volte questa delicata espressione, raccontando l’incontro tra le due prossime mamme: «Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo». Il nascituro Giovanni Battista reagisce dal seno di Elisabetta, quando sente avvicinarsi Gesù, portato in grembo da Maria.
L’incontro che i vangeli ci raccontano molto più avanti, sulle rive del Giordano, è anticipato da quello della Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta. Agli appuntamenti importanti ci si prepara, come avviene nell’imminenza del santo Natale di Gesù. Il Signore abita già in mezzo a noi, si fa incontro nei più piccoli, nei più poveri, nei più fragili, in coloro che sono nascosti e nessuno vede. La gioia nasce dentro chi fa spazio al fratello e alla sorella, e li accoglie senza paura. Anziché pieni di sé, riempiti dall’altro: anche questo è il miracolo del Natale.
Visitazione
L’inizio ancor lieve era per lei
ma salendo, già a volte l’incanto
del suo corpo intuiva. Poi
nei monti alti di Giuda, anelando,
sostò; non terra intorno dilata,
ma soltanto la propria pienezza;
e andando intuì: questa grandezza
che in sé ora prova, sta insuperata.
Le urgeva porre le mani sue
sopra un corpo che già oltre era
e vesti e capelli di ambedue
confluirono in onda leggera.
Ognuna, del proprio tempio santo
ricolma, ebbe a scudo la vicina.
Ah in lei il Salvatore era soltanto
fiore eppure sobbalzò esultando
il Battista in grembo alla madrina.
(Rainer Maria Rilke)
12 dicembre 2021: III Domenica di Avvento
Dal Vangelo secondo Luca: Lc 3,10-18
In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.

La domanda rivolta a Giovanni Battista dalla gente che gli va incontro nel deserto, sulle rive del fiume Giordano – «Che cosa dobbiamo fare?» – spesso è anche la nostra, di fronte all’annuncio di conversione che ci viene dal Vangelo di Gesù. La risposta riguarda la disposizione verso gli altri: condividere e agire con giustizia. La conversione del cuore comincia con l’apertura, con l’uscita da se stessi, per accorgersi dei bisogni di chi ci sta intorno, e non essere più al centro del mondo. Non è semplice rinuncia a possedere, che, in quanto tale, significherebbe troppo poco, ma prontezza nel mettere a disposizione degli altri quel che abbiamo: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Anzi, se di rinuncia si tratta, è di non pretendere più del dovuto, ovvero di non approfittare della posizione dominante verso coloro che sono in debito con noi: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Soprattutto di non abusare del potere nei confronti dei più deboli: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno».
Chi predica queste cose non è il Messia, ma colui che gli prepara la strada, pronto a mettersi da parte al suo arrivo. L’esempio di Giovanni è eloquente specialmente per coloro che sono chiamati ad aiutare gli altri ad incontrare Gesù: guai a chi si sostituisce, prendendo il suo posto. Il tempo di Avvento è l’occasione propizia per accogliere l’invito del Battista: fare spazio a coloro che incontriamo, con tenerezza e disponibilità. È il passo che ci avvicina a Betlemme, dove adoreremo Colui che si è fatto mendicante, per riempirci della sua presenza amorosa. Non dimentichiamo che il primo passo verso ciascuno di noi lo ha fatto il Signore, il quale non esige nulla di più di ciò che gli è dovuto: l’accoglienza nella fede e un po’ di amore sincero.
Prepararsi al santo Natale significa disporsi a riscoprire la centralità di Gesù nella nostra vita, in questo mondo impaurito, egoista, preoccupato di salvarsi dalla pandemia, dove noi tutti rischiamo di dimenticare che la salvezza è un dono che viene dall’alto, eppure sorge dal basso: «Stillate dall’alto, o cieli, la vostra rugiada e le nubi piovano il Giusto; si apra la terra e germogli il Salvatore (Isaia 45,8)».
5 dicembre 2021: II Domenica di Avvento
Dal Vangelo secondo Luca: Lc 3,1-6
Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto.
Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa:
«Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito,
ogni monte e ogni colle sarà abbassato;
le vie tortuose diverranno diritte
e quelle impervie, spianate.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!».

La figura di Giovanni Battista rappresenta uno dei segnali più luminosi nel tempo di Avvento, è la «Voce di uno che grida nel deserto». Lui grida, è la voce, ma la Parola è quella del Signore. Non annuncia se stesso, indica un altro, che verrà dopo di lui, al quale non sarà degno neppure di sciogliere i sandali, si considera perciò ancor meno di un servo.
L’avvento di Gesù va preparato, ma come? L’evangelista Luca interpreta l’annuncio del Battista con le parole profetiche di Isaia. Da una parte, occorre il nostro impegno: «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!». Tocca a ciascuno di noi fare qualcosa che smussare gli angoli. Abbiamo un brutto carattere? Siamo poco consapevoli dei nostri limiti? Vediamo prima di tutto noi stessi e poco gli altri? Ecco, qui dobbiamo riflettere: è necessaria un po’ di umiltà, che costa fatica, richiede disponibilità a cambiare qualcosa. Ma non è tutto.
La parola del profeta prosegue spostando la prospettiva su un’azione che ci accompagna: «Ogni burrone sarà riempito, ogni monte e ogni colle sarà abbassato; le vie tortuose diverranno diritte e quelle impervie, spianate». È l’azione del Signore che interviene: colma gli abissi della sfiducia, abbassa la cresta delle convinzioni di sé, corregge l’incedere ondivago del tornaconto, sostiene nella fatica di maturare.
Non tutto dipende da noi, non tutto dipende da Lui. Questa è la logica della preparazione: la collaborazione con la grazia che ci viene incontro, sulla via che Gesù percorre verso di noi, ove siamo attirati, con le nostre resistenze e lentezze, persino nelle cadute. L’incontro con il Signore è sempre carico di novità, anche costose, comunque liberanti. C’è un imprevisto che ci sorprende? Rimaniamo aperti al dono che spiazza. Siamo stanchi e sconsolati, non vediamo risultati sperati e attesi? Coraggio non temiamo, Gesù ci raggiunge anche nel buio più fitto del dolore.
Il tempo di Avvento è l’occasione propizia per ritrovare forze ed energie che non vengono solo dall’impegno, ma dall’accoglienza della grazia. Maria Immacolata ci prepara, insieme al Battista, all’incontro antico e sempre nuovo con il Signore Bambino, piccolo per i piccoli, povero con i poveri, lasciato fuori della porta con i senza tetto, vicino agli ultimi proprio perché nessuno si senta escluso. Questo è il piano di Dio: «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!»
28 novembre 2021: I Domenica di Avvento
Dal Vangelo secondo Luca: Lc 21,25-28.34-36
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

«Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia». Sono parole inquietanti quelle di Gesù, che incutono un timore che sembra non lasciare via d’uscita. Il mondo continua ad essere attraversato dalla pandemia: mentre credevamo di esserne usciti, ripiombiamo di nuovo nel terrore. «Gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra». I nostri ospedali ricominciano a ricevere malati anche gravi, senza poter riprendere a curare chi già soffre patologie non meno pesanti.
In un tempo come questo, la Chiesa inizia un nuovo anno liturgico con la prima domenica d’Avvento, ma con quale parola? «Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina». Di fronte alla prova, Gesù invita ad un sovrappiù di coraggio per guardare oltre: sembra la fine, ma è un nuovo inizio. Lo sguardo cambia non quando qualcuno ti dice che ce la puoi fare, ma ti viene incontro per liberarti. La tentazione più grande, quando si è assaliti dalla paura, è di rimanere da soli, abbandonati da tutti, lasciati a noi stessi. Questa è l’ora di udire una voce ferma e potente: «Vegliate in ogni momento pregando».
Pregare non è cercare una via di fuga, ma rimanere dove siamo: con la testa tra le mani e gli occhi chiusi, per supplicare il nome di Gesù; con lo sguardo in alto e le braccia alzate, per accogliere lo Spirito di Dio. Non ne seguirà subito ciò che speriamo, ma si riceverà la pace nell’animo. Dalla solitudine e dallo smarrimento non si esce da soli: bisogna che Qualcuno ti venga a trovare, magari non per portarti via da dove sei paralizzato; forse rimane con te, ascolta il tuo lamento, sente insieme a te la pena che ti strazia il cuore, resta in silenzio perché non serve risponderti a parole.
A qualcuno potrà sembrare di stare così vicino alla croce del Signore, in mezzo alle tenebre dell’ora nona. In certi momenti, si compare così davanti al Figlio dell’uomo. Qui però non ci confondiamo: Gesù non è più inchiodato alla croce, lo vedremo «venire su una nube con grande potenza e gloria». La Passione e la morte è stato un momento, un passaggio tremendo, ma solo questo, nient’altro. Adesso non è più lì, sta con te, dove sei, per staccarti dalla tua croce e trascinarti via con sé. Senza questo sguardo pasquale non andremo incontro al suo Natale. L’inizio lo si comprende solo dall’epilogo.
«Tempo del primo avvento
tempo del secondo avvento
sempre tempo d’avvento:
esistenza, condizione
d’esilio e di rimpianto.
Anche il grano attende
anche l’albero attende
attendono anche le pietre
tutta la creazione attende.
Tempo del Concepimento
di un Dio che ha sempre da nascere».
David Maria Turoldo
21 novembre 2021: Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo
Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 18,33b-37
In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».

La convinzione che Gesù, in quanto Dio, abbia il potere di fare qualunque cosa appare come la logica conseguenza della professione di fede in Dio Padre onnipotente. Per tale ragione, la supplica rivolta a Gesù dal lebbroso e da altri infermi nei vangeli – «Se vuoi, puoi guarirmi!» – diviene spesso anche la nostra, specialmente quando ci troviamo in situazioni di prova e di grande sofferenza. Tuttavia, accade quasi sempre di non avere il riscontro desiderato, di non ricevere risposta a questa attesa almeno nei termini sperati.
Ora, pur senza dubitare dell’amore che il Signore ha per ogni sua creatura, e della provvidenza misteriosa con la quale si prende cura di noi, è lecito chiedersi di che potere dispone Gesù, soprattutto quando non sembra impiegarlo a nostro favore. Anche perché il problema sorge non solo per i credenti successivi ai contemporanei di Gesù, ma è già presente nei vangeli. Anzi, è una delle ultime provocazioni che i capi religiosi d’Israele rivolgono al crocifisso, apertamente e con scherno: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto». Colui che scaccia i demoni con il dito di Dio, che è passato sanando e beneficando tutti, perché rinuncia a salvare se stesso e il malfattore sfidante? La meraviglia è legittima: visto che ha il potere di vincere ogni tipo di male, perché adesso non lo usa anche per sé e per altri?
Nei vangeli, Gesù si mostra forte e debole al tempo stesso: tanto forte da essere la risurrezione e la vita, così fragile da cadere in terra come un chicco di grano che muore. Egli è il pastore grande delle pecore e l’agnello che fu immolato; è il buon pastore che offre la vita per le pecore e il pastore percosso le cui pecore saranno disperse. La potenza di Gesù è così intimamente legata alla sua vulnerabilità, all’essersi lasciato ferire per amore fino a morire. Questa è la forza di Dio, che gli uomini credono debolezza.
Dalle testimonianze bibliche emerge dunque il profilo di un Dio-Figlio la cui onnipotenza è l’amore: che assume la vulnerabilità degli uomini per trascinare con sé i più deboli lungo il sentiero della croce. Senza l’illusione di evitare le prove, il Maestro e Signore si fa servo perché i discepoli imparino ad amare come Lui li ha amati. Ciò significa che quando cerchiamo un Dio risolutore dei problemi, altro non troveremo che la compagnia del Signore Gesù, che rovescia i potenti dai troni salendo sulla croce e innalza gli umili scendendo nell’abisso della morte. E che, una volta risuscitato dai morti, sceglierà di mostrarsi nel chiaroscuro della fede soltanto ai discepoli, «preferendo insegnare l’umiltà agli amici che rinfacciare la verità ai nemici» (S. Agostino).
14 novembre 2021: XXXIII Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 13,24-32
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«In quei giorni, dopo quella tribolazione,
il sole si oscurerà,
la luna non darà più la sua luce,
le stelle cadranno dal cielo
e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

Nelle ultime domeniche dell’anno liturgico, le parole del Vangelo sospingono il nostro sguardo in avanti, verso il futuro ultimo della storia. Un tono in certo senso inquietante potrebbe distogliere dal vero senso che Gesù intende dare a questa visione catastrofica: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte». Se ci fermassimo ai segni che anticipano il destino finale del mondo resteremmo terrorizzati. Invece di fissare il pensiero sugli elementi che saranno sconvolti, Gesù ci propone di attendere con fiducia e speranza la sua venuta: «Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria».
Dopo la morte dolorosa in croce e la sua scomparsa dall’orizzonte terreno, Egli tornerà glorioso per raccogliere ogni frammento di questa umanità tribolata, sofferente e smarrita. Nulla andrà perduto di tutto ciò che Egli ha amato: «Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo». Ciascuno di noi è suo eletto, specialmente i più deboli e scartati, coloro che sono provati dalla vita e non contano nulla per nessuno.
Tra le parole di Gesù che non passeranno, oggi ce n’è una che deve farci riflettere: «I poveri li avete sempre con voi» (Marco 14,7). È il titolo che papa Francesco ha dato alla quinta giornata mondiale dei poveri, con la quale siamo invitati a passare dalla mentalità dell’elemosina a quella della condivisione. L’unico vero modo per non aver paura del futuro è operare nel presente con giustizia e carità, e farsi prossimo senza attendere che qualcuno ci chieda ciò di cui ha diritto. Con queste parole, infatti, il papa conclude il suo messaggio:
«Mi auguro che la Giornata Mondiale dei Poveri, giunta ormai alla sua quinta celebrazione, possa radicarsi sempre più nelle nostre Chiese locali e aprirsi a un movimento di evangelizzazione che incontri in prima istanza i poveri là dove si trovano. Non possiamo attendere che bussino alla nostra porta, è urgente che li raggiungiamo nelle loro case, negli ospedali e nelle residenze di assistenza, per le strade e negli angoli bui dove a volte si nascondono, nei centri di rifugio e di accoglienza… È importante capire come si sentono, cosa provano e quali desideri hanno nel cuore.
Facciamo nostre le parole accorate di Don Primo Mazzolari: “Vorrei pregarvi di non chiedermi se ci sono dei poveri, chi sono e quanti sono, perché temo che simili domande rappresentino una distrazione o il pretesto per scantonare da una precisa indicazione della coscienza e del cuore. […] Io non li ho mai contati i poveri, perché non si possono contare: i poveri si abbracciano, non si contano” (Adesso n. 7 – 15 aprile 1949). I poveri sono in mezzo noi. Come sarebbe evangelico se potessimo dire con tutta verità: anche noi siamo poveri, perché solo così riusciremmo a riconoscerli realmente e farli diventare parte della nostra vita e strumento di salvezza».
7 novembre 2021: XXXII Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 12,38-44
In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

Il brano del vangelo di oggi si compone di due scene, che toccano le cose più care alla religione d’Israele: la Legge e il Tempio. Nella prima, Gesù parla alla folla degli esperti delle sacre Scritture: «Guardatevi dagli scribi», che cercano considerazione e pubblici onori, ostentano devozione e poi rubano alle vedove quel poco che è loro rimasto. Non è un giudizio malevolo, un pettegolezzo: quando si tratta di affrontare dottori della legge, scribi e farisei, Gesù non ha problemi a parlare chiaro in faccia. Guardarsi vuol dire non prendere esempio dal loro comportamento, non lasciarsi ingannare dalle apparenze: magari ascoltarli senza però imitarli. La Legge insegna cose buone, ma si può volgere al proprio interesse, per farne una copertura, specialmente quando non si pratica ciò che si insegna. In questo modo Gesù distingue tra il formalismo dei presunti osservanti e la sostanza degli insegnamenti biblici.
La seconda scena si svolge nel Tempio, ove Gesù non insegna, non parla con i sacerdoti né con la gente, ma sta in disparte e osserva. «Seduto di fronte al tesoro, [Gesù] osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo». Le offerte sono una forma di culto: si dona qualcosa per il luogo sacro, sperando che il Signore ricambi in benedizione. Anche in questo caso Gesù non giudica la prassi: prende solo atto di ciò che significa quel gesto per ciascuno, prendendo spunto da ciò che vede: «Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».
Cosa significano queste due scene? La prima, incentrata sul rapporto con la Legge, rivela come il cuore possa allontanarsi da Dio quando, invece di ascoltare la sua Parola e lasciarsi guidare, si assumono forme esteriori in cerca di compiacimento. La seconda rivela come Dio vede il cuore, e se ciò che presentiamo a Lui è veramente tutto ciò che abbiamo e siamo, oppure pensiamo di metterci a posto con atti formali.
La scelta da fare, per i credenti, è tra l’autenticità della fede e l’osservanza religiosa, perché talvolta, invece di armonizzarsi, potrebbero confliggere. Siamo tutti tentati di pensare che a Dio piacciano i nostri gesti, magari anche pubblici, ma a Lui interessa il cuore, l’intenzione sincera, l’amore vero. Senza questo, ogni espressione rischia di diventare un ostacolo non solo per se stessi, ma anche per gli altri.
24 ottobre 2021: XXX Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 10,46-52
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Gridare forte vuol dire urlare disperatamente. Di solito lo si fa per paura, quando ci sentiamo perduti. Nel brano evangelico di oggi, questa espressione riguarda un cieco mendicante, che avverte il passaggio di Gesù. «Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”». L’evangelista riferisce il nome e il padre di questo non vedente, per giunta anche povero: Bartimeo, figlio di Timeo. Vuol dire che è noto, molti lo conoscono, e chissà quante volte gli sono passati accanto senza neppure guardarlo, persino infastiditi dalla sua inutile presenza. Il suo dolore disturba, e allora lui urla più forte.
Gesù passa, ode il suo grido disperato, lo fa chiamare e lo incontra. La scena è accelerata, tutto si svolge con estrema rapidità e con l’esito sperato: «E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada». In poche righe c’è il racconto della svolta di una vita. Ciascuno di noi, come Bartimeo, potrebbe avere gli occhi chiusi, ma gli orecchi aperti. Mai tutto di noi è completamente fuori dalla portata del Signore che passa. Ci fanno dunque pensare questi tre diversi sensi: la vista, l’udito, la voce.
Non vedere significa dipendere da altri, doversi fidare, rischiando anche di sbagliare molto, e non è sempre del tutto negativo, specialmente quando si affinano di più gli altri sensi. Chi ha difficoltà visive migliora nell’udito, fa maggior appello alla parola. La fede che ha salvato Bartimeo – Gesù stesso gliela riconosce – è venuta dall’ascolto, dall’attenzione alla voce degli altri. A volte può capitare anche a noi di non vedere il Signore, ma di avvertire solo sussurri che ne fanno intuire la presenza: a questi bisogna dare ascolto. Poi tocca a noi, magari con la supplica, il lamento, il grido. Non è forse questo il momento più vero della preghiera?
Bartimeo ha supplicato Gesù ed ha avuto la grazia di vedere, per poter camminare dietro a lui lungo la strada. È la storia di ogni discepolo, del credente che è passato dalle tenebre alla luce, da mendicante ad autosufficiente, e ha ritrovato dignità. Non è solo questione di guarigione da una malattia, ma di novità di vita. Se ne poteva tornare a casa, come tanti altri sanati nel corpo, invece comincia a seguirlo. Ecco perché si tratta del discepolo. Forse anche ciascuno di noi ha bisogno, certe volte, di qualcuno che gli dica: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Se abbiamo avuto la grazia di ascoltare questo appello, ricordiamoci che anche gli altri hanno diritto di sentirlo da noi, specialmente coloro che sono ai margini della strada, disprezzati da tutti, fastidiosi per il fatto stesso di mendicare. Non giudichiamoli: sono i fantasmi di ciò che potevamo essere senza aver incontrato Gesù.
17 ottobre 2021: XXIX Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 10,35-45
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

I due fratelli Giacomo e Giovanni chiedono apertamente a Gesù una cosa molto impegnativa, di cui non si rendono ben conto: stare vicino a lui, a destra e a sinistra, nel suo regno futuro. A prima vista sembra una richiesta buona, persino ingenua, che nasce dalla sincera amicizia e dal desiderio di rimanergli accanto per sempre. Due sono le reazioni a tanto ardire. Da una parte, la risposta del Maestro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?»
Con questa domanda, Gesù sposta la loro posizione dal futuro lontano a quello prossimo. Egli sta andando verso la croce: i discepoli sono pronti a rimanergli accanto nell’ora della Passione? Prima della gloria c’è la sofferenza. Giacomo e Giovanni sembrano non temerla, rispondono di sì, ma forse non hanno ben compreso. E Gesù rinvia al Padre la scelta dei primi posti nella gloria: saranno per coloro che sono stati ai margini in questa vita, che hanno sofferto, sono stati scartati, ma non solo.
Di fronte all’indignazione degli altri dieci nei confronti dei due discepoli ambiziosi, Gesù chiarisce il senso dell’inversione delle precedenze. I potenti di questa terra dominano e opprimono, ma tra i suoi amici non dovrà essere così: «chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti». Com’è stato per il Maestro così dovrà essere per i seguaci: primeggerà chi ha servito, sarà più grande l’ultimo di tutti. Perché Dio non si va a cercare tra le nuvole, ma nelle pieghe nascoste della terra che Egli è venuto ad amare senza riserve.
10 ottobre 2021: XXVIII Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 10,17-30
In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».

Un giovane entusiasta insegue Gesù, si prostra ai suoi piedi e tenta il tutto per tutto: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». La richiesta è ardita, impegna soprattutto chi aspira al massimo, cioè al meglio per se stesso: avere la vita eterna. Domanda legittima: chi non spera nel paradiso? Di primo acchito, a insospettire Gesù è l’ambigua captatio benevolentiae, perciò subito precisa: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo». Poi, assecondando il desiderio del giovane – che spera di “avere”, perciò chiede cosa “fare” – lo rimanda alla Legge di Mosè: «Tu conosci i comandamenti». Ma sembra che questo non basti, altrimenti non si sarebbe rivolto al Rabbì originale. Questa strada la conosceva bene, non avrebbe avuto bisogno di cercare qualcosa di più. Il cuore sembra aperto, disponibile ad andare oltre la Legge, a seguire qualche ulteriore indicazione.
Bisogna soffermarsi sul desiderio di questo giovane aspirante alla santità. Talmente forte è lo slancio, con il coraggio di affrontare apertamente il Maestro, che viene da credere alla sua sincera disponibilità a sacrificarsi: è pronto a darsi da “fare”. Ma qui la scena cambia: «Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca…”». Che cosa manca al ragazzo? Pare che la delusione di fronte alla risposta del Maestro, che gli chiede di lasciare i suoi beni ai poveri e di seguirlo, stia tutta nell’attaccamento alle proprie ricchezze – almeno così conclude l’evangelista: «possedeva infatti molti beni». Forse non si tratta solo di questa eccessiva richiesta, ma ancor prima dell’imbarazzo di fronte ad uno sguardo intenso, profondo e amoroso, che gli legge dentro la sete di autoaffermazione, di conquista con le proprie forze del premio ambito. Il giovane è pronto a fare, ma non a lasciarsi cogliere interiormente; possiede se stesso prima che i suoi beni, questa è la ricchezza da cui non vuol distaccarsi.
A volte può capitare anche a noi di avere buone intenzioni, genuini desideri di impegno, prontezza nel donarsi, ma ciò che il Signore ci chiede – anzi, ci dona – è di accogliere uno sguardo d’amore che fa uscire da se stessi. Non si tratta di lasciare qualcosa, ma di ricevere un regalo; non c’è da sacrificare beni, ma da abbandonarsi al bene più grande: la liberazione dalla propria sete di autorealizzazione. La cruna dell’io è troppo stretta per lasciar passare l’ago della libertà. Gesù coglie l’occasione di questo incontro per ripetere ancora una volta ai discepoli cos’è la grazia: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
3 ottobre 2021: XXVII Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 10,2-16
In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

«Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie». Nasce da una provocazione, carica di ambiguità, l’interrogazione dei farisei. Vogliono sapere da quale parte sta questo scomodo Maestro autodidatta, che avvicina peccatori, malati, prostitute, poveri e disgraziati di ogni genere. Prendono la questione spinosa del divorzio – a certe condizioni concesso persino dalla legge di Mosè – vogliono sapere se lui permette o proibisce, esattamente come fanno loro. Sì, perché le norme servono a regolare la società, e secondo i suoi paladini è Dio stesso a darle, quindi chi si crede di essere questo Gesù che oltrepassa continuamente i confini del lecito. Abituati come sono a decidere sulla vita degli altri in nome di Dio, tendono un tranello al Rabbi galileo.
La risposta di Gesù è semplice. L’amore è il progetto originario: si lascia la casa dell’infanzia e della giovinezza e si forma una famiglia. Invece di pensare alla fine dell’amore, occorre volgersi al suo inizio. Il resto viene di conseguenza. Questo non significa dunque dare permessi o proibire, ma richiamare le esigenze dell’amore, che valgono per tutti. Sulla questione poi tornano anche i discepoli, e il Maestro non esita a rispondere in modo ancora più chiaro: ciò che vale per l’uomo vale anche per la donna. Si tratta di una precisazione importante, proprio in una cultura fondamentalmente maschilista, che escogitava vie legali per concedere di più all’uomo e meno alla donna, anche in tema di divorzio. Così Gesù riporta l’uomo e la donna a riscoprire la loro pari dignità e responsabilità nel costruire una relazione d’amore.
Purtroppo questo brano del vangelo è stato circoscritto entro una visione moralistica, mentre Gesù va oltre. Chi ama fa di tutto per essere fedele, poi però può capitare di non riuscirci, di non volerlo, d’indurire il cuore. E allora che si fa? Dio trova sempre il modo di riprenderci dopo ogni fallimento, perché non rinuncia al sogno di renderci felici. Affermare l’ideale non significa, per Gesù, negare il reale: se si cade ci si può rialzare. Ci sarà sempre una via per ritrovare l’amore, e non lontano dal Signore, che ci ama in qualunque situazione ci troviamo, anche in quelle di cui siamo responsabili o vittime.
La seconda questione che il brano di oggi ci presenta riguarda i bambini. Nelle società antiche – nel mondo giudaico come in quello greco-romano – i bambini non contano, vanno lasciati da parte. I discepoli risentono di questa mentalità, e Gesù sposta ancora più avanti lo sguardo, li abbraccia e indica in loro la forma del discepolo: «a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio». Il che vuol dire che tutti coloro che sono indifesi, emarginati, piccoli e senza diritti avranno la precedenza nel regno. La signoria di Dio non si rivela in chi domina, ma in chi accoglie; non appartiene ai potenti, ma agli umili.
26 settembre 2021: XXVI Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 9,38-43.45.47-48
In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».

Chi non è contro di noi è per noi». Con queste parole Gesù sorprende Giovanni, il discepolo che vede circoscritta alla stretta cerchia dei seguaci tutta l’azione salvifica del Maestro. La tendenza a chiudere entro un perimetro l’esperienza forte di chi pensa di essere eletto è comune a molti gruppi, cosiddetti appunto “scelti”. In effetti, Gesù ha chiamato a sé alcuni, perché stiano con lui e divengano partecipi della sua missione, ma cosa vuol dire questo lo impareranno pian piano. All’inizio c’è naturalmente un senso di onore, di predilezione, perfino di privilegio, per cui è normale guardare agli altri come quelli di fuori. Più cresce il senso di appartenenza e più diventa intensa una tendenza all’esclusivismo: noi e gli altri.
Per comprendere però cosa significhi davvero essere chiamati a condividere la vita con Gesù occorre fare attenzione a come lui si comporta. Avvicinare lebbrosi, prostitute, pubblicani, samaritani, ciechi, storpi e indemoniati sono già segni forti di un superamento costante delle barriere culturali e religiose del proprio tempo. Gesù però non fa questi gesti come uno che si pone sopra gli altri. Egli ha iniziato il suo cammino in mezzo e insieme al suo popolo sulle rive del Giordano, facendosi battezzare da Giovanni, dando persino l’idea di essere un peccatore come gli altri. In verità, Gesù è venuto a caricarsi del peso che altri scaricavano. La sua condivisione non è populista, ma inclusiva: sta in mezzo a loro come colui che serve, non come chi è venuto a farsi servire, perché si sente profondamente parte di questa umanità in cammino, alla ricerca di salvezza.
Con questo atteggiamento di fondo, egli manifesta l’agire di Dio verso tutti: come il Padre fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, così Gesù non sceglie a chi donarsi, anzi sceglie alcuni perché imparino da lui e con lui a spendersi senza riserve, verso tutti coloro che incontreranno. Ecco perché la chiamata a seguirlo invece di privilegio è impegno, invece di esclusività è apertura inclusiva. Quante persone Gesù incontra, risana e purifica, invitandole a tornare a casa anziché seguirlo. Il suo obiettivo è donare vita, non ingrandire il gruppo. Gli sta a cuore la libertà: da questa viene la gratitudine, non dal sentirsi obbligati. Il bene conta al di là di chi lo fa, per questo lascia andare senza costringere.
Anche noi, invece, spesso tendiamo a reclutare, a misurare l’appartenenza, a controllare. Gesù, d’altra parte, continua la sua azione oltre i nostri confini. L’unica cosa che ci raccomanda con una certa forza – nel vangelo di oggi – è di non scandalizzare gli altri. Scandalo è porre ostacoli, pietre che fanno inciampare, barriere che rendono difficile il cammino a chi già fa fatica. Prende ad esempio i bambini, perché sono i più fragili e non autonomi, ma con essi pensa a tutti coloro che sono scartati, messi ai margini, perché non contano nulla.
Basterebbe che ricordassimo una cosa semplice ed essenziale che muove il cuore di Dio, e che Gesù rivela in modo trasparente: ogni buona azione che c’è nel mondo non viene da noi, ma dall’alto, da Dio. I confini è lui che li supera, prima di tutto con ciascuno di noi, perché ci accoglie sempre così come siamo. Chiediamo al Signore di insegnarci a dire grazie quando vediamo il bene – anche solo un bicchiere d’acqua fresca dato con generosità – che viene da altri, fuori dal nostro giro: vuol dire che il raggio d’azione di Dio è molto più ampio di quello che vediamo. Egli davvero abbraccia tutti, e non possiamo che essergli grati e lieti. Anche perché non dipende dal merito, ma solo da suo immenso amore, senza confini.
19 settembre 2021: XXV Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 9,30-37
In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

«Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: “Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti”». I discepoli di Gesù reagiscono in questo modo all’annuncio che egli ha fatto poco prima della sua imminente tragica fine. Perché, invece, di pensare a lui, sono ripiegati su se stessi? Potrebbe essere la maniera di prendere distanza da uno scenario doloroso o, peggio ancora, la tentazione di pensare alla successione a capo del gruppo. Probabilmente, capita spesso anche a noi di cercare una strada diversa da quella che temiamo possa diventare pericolosa. Quando entra in gioco la paura è naturale tentare una via d’uscita, e non è detto che sia la migliore.
Il meccanismo della rimozione tende a respingere il pensiero della morte, volgendoci alla ricerca di onori, di potere sulla vita, in definitiva di autoaffermazione. Gesù non reagisce con sdegno per l’incomprensione, con un’accusa, ma con un gesto: abbraccia un bambino. Nella società del suo tempo, il bambino è senza diritti, non conta nulla, perciò è il segno della più evidente vulnerabilità, da accogliere e custodire. Con l’abbraccio di un bambino, Gesù dissolve l’incubo della morte che assilla i discepoli, e ridona vita al sogno del proprio e del loro futuro. «Quando un uomo ha grossi problemi dovrebbe rivolgersi ad un bambino; sono loro, in un modo o nell’altro, a possedere il sogno e la libertà», scriveva Fedor Dostoevskij.
Risaliamo insieme all’origine, torniamo alla nostra fragilità primigenia, ritroveremo il bisogno di essere presi per mano. Il cammino indicato non significa regressione, piuttosto è sguardo in avanti, verso la tenerezza che imbarazza gli adulti, la cura del più debole, che smaschera l’io onnipotente e presuntuoso, e libera dalla sete insaziabile dell’affermazione di sé. Perché, come scriveva Antoine de Saint-Exupéry: «Solo i bambini sanno quello che cercano. Perdono tempo per una bambola di pezza e lei diventa così importante che, se gli viene tolta, piangono».
L’abbraccio è un mezzo di trasporto e al tempo stesso una casa, sostegno e dimora, protezione e conforto. Così Gesù rivela ciò di cui abbiamo tutti bisogno: non la nostalgia dell’incoscienza, ma il coraggio di affidarsi; non l’ingenuità sognante, ma la supplica dell’accudimento; non l’autosufficienza, ma la sicurezza dell’amore. C’è dunque un solo modo per chi vuol diventare grande: servire tutti, senza scegliere chi lo merita. La conclusione del Maestro va persino oltre: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato». Si trova Dio quando le mani e le braccia si aprono, quando nel cuore si fa spazio al più fragile.
Un pensiero di Alda Merini potrebbe allora diventare la nostra preghiera, nel momento in cui avvertiamo con fiducia di essere nascosti nel petto di Dio: «C’è un posto nel mondo dove il cuore batte forte, dove rimani senza fiato per quanta emozione provi; dove il tempo si ferma e non hai più l’età. Quel posto è tra le tue braccia in cui non invecchia il cuore, mentre la mente non smette mai di sognare».
Molte paure svaniscono quando corriamo il rischio di chiedere un abbraccio. La preghiera silenziosa, in fondo, non è altro che questo: domandare al Signore di tenerci stretti a sé, per imparare a riconoscere chi ne ha bisogno, ma non ha la forza di chiederlo.
5 settembre 2021: XXIII Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 7,31-37
In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Il fatto che nei Vangeli ci siano diversi racconti di guarigioni non significa che Gesù sia stato avvicinato come un mago, come un guaritore. Certo è che in questi racconti troviamo spesso, almeno nel Vangelo di Marco, la raccomandazione di Gesù di non fargli pubblicità, di non dirlo a nessuno. Vuol dire che Egli non cerca seguaci attratti dalla legittima speranza di guarire chi è malato. Però questi gesti li compie, e normalmente c’è una fede in Lui fatta di speranza, di invocazioni, di preghiere, altre volte invece sono questi gesti che suscitano la fede. Quante volte Gesù dice: “Va, la tua fede ti ha salvato”! Serve fare attenzione, perché Marco è un evangelista che calcola bene le parole, ne usa poche, però quelle che usa sono volute e precise: “Gli portarono un sordomuto”.
Non è il sordomuto che va da solo, qualcun altro glielo porta: “e Lo pregarono di imporgli la mano”. Quindi le persone che portano quest’uomo chiedono semplicemente che Gesù neppure lo tocchi, ma semplicemente Gli ponga la mano sulla testa. Gesù supera questa attesa, questa aspettativa e lo fa con estrema puntualità e delicatezza. Intanto lo prese in disparte, lontano dalla gente, gli pose le dita negli orecchi. Questo è già un gesto molto forte, un contatto diretto nel luogo, prima di tutto, dell’udito. Il sordomuto non parla perché non ode: tocca un luogo chiuso, sigillato. Poi con la saliva gli tocca la lingua. Gesti che, se non fosse Gesù, noi considereremmo un po’ imbarazzanti, di cattivo gusto. Terzo, guardando verso il cielo, emise un sospiro e disse: “Effatà”, “Apriti”! Dalla sua lingua, dalla sua bocca alla bocca dell’altro, dal suo respiro l’apertura della parola nella bocca dell’altro; non solo della bocca, ma degli orecchi: “e gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente”.
Per Gesù conta l’incontro, il contatto. Non dimentichiamo che noi, venendo alla Messa, preghiamo, ascoltiamo, rispondiamo, parliamo, ma sono tutti preliminari a un contatto con il Suo corpo. Lui entra in contatto con noi in una forma così intima da farsi mangiare. Per Dio il corpo non è la via del male. È la scorciatoia divina: ci tocca, ci abbraccia, ci risana. Per incontrarci, il Signore non con tutti usa il pensiero. Noi crediamo che l’immagine di Dio nell’uomo sia l’anima razionale, e qui emerge con grande evidenza l’importanza della disabilità. Come le persone con una disabilità psichica possono incontrarsi con Dio?
È Lui che si incontra con loro. Noi siamo abituati invece a pensare che siamo noi che ci incontriamo con Dio, invece è Lui che si fa incontro a noi, questa è la grazia. La grazia vuol dire: il tocco di Gesù, la sua iniziativa. Le dita, la saliva, il respiro.
Vedete, il sordomuto qui è anche un simbolo. Probabilmente, l’evangelista non lo racconta soltanto perché è un gesto eclatante, tant’è che comandò loro di non dirlo a nessuno, e quelli, pensando di far pubblicità positiva a Gesù, creano solo problemi. La persona sordomuta è il segno della chiusura al mondo, purtroppo vive in un suo mondo, in un mondo parallelo. Molto spesso al sordomutismo si associa anche una forma di autismo, che vuol dire essere chiusi in sé stessi. C’è uno spettro di disturbi dell’autismo, ci sono varie forme, pensate agli Asperger, persone che hanno particolari qualità – tutti ricorderete il film Rain Man – ma prendiamo anche quella ragazzina che ora è un po’ messa in ombra: Greta Tunberg. Lei ha il suo cartello con scritto che il pianeta va in rovina… com’è che lei sente questo? Avete visto anche che nell’incontro con il Papa, non è che il suo volto cambi; lei deve mandare quel messaggio perché è tormentata. La persona autistica è sollecitata da troppi stimoli, non è che non è interessata a niente, ma avendo troppi stimoli si difende chiudendosi. Proprio perché ha una percezione di troppe cose insieme: suoni, rumori, numeri, persone, e allora ecco la chiusura, perché l’impatto anche del cambiamento climatico su certe persone è tale. Un po’ autistici siamo tutti quando ci ripieghiamo su noi stessi, quando pensiamo prevalentemente a noi chiudendoci agli altri perché abbiamo paura. Pensate quante volte – è capitato a tutti credo – incontri una persona che non ti ha visto e fai finta di non vederla perché altrimenti ti chiede qualcosa e non la vuoi incontrare, magari ti ha visto anche lei e ha fatto finta di non vederti. Non lo sai, però può succedere di evitare cose che ci chiedono di aprirci.
Allora direi che questo è un invito per tutti noi a lasciare che il Signore apra il nostro udito all’ascolto. Quante volte le persone ci parlano e noi pensiamo, prima ancora di aver capito, di dire la nostra, di rispondere col nostro pensiero. Non è facile ascoltare davvero, con il cuore aperto, non soltanto aver sentito con le orecchie. È una dimensione del cuore l’accoglienza, l’ospitalità. L’ospitalità alla parola e l’ospitalità verso la persona, non solo a quello che dice; tant’è che noi sappiamo quanto conti la modalità, il tono della voce, la maniera con cui si parla. Non è soltanto il contenuto; la forma del contenuto è la sostanza della comunicazione. Poi il parlare, il nostro modo di porci per farci intendere. Quante volte parliamo a noi stessi e non all’altro. C’è questa necessità di farci comprendere, di trovare la via più semplice. Sono irritanti coloro che salgono in cattedra, parlano difficile perché gli altri si sentano inferiori: fanno pena, grande tristezza. Quelli sanno tutto meno una cosa: che chi hanno di fronte forse non li capisce. E questa sottomissione non aiuta, perché isola chi parla e chi ascolta. Gesù non fa così, compie gesti e alla fine usa una parola: “Apriti”! Ma prima ha fatto un percorso, c’è una pedagogia, un contatto, un abbracciare tutto della persona. Gli avevano solo chiesto di imporgli la mano e Lui ha fatto molto di più. Cosa vuol dire questo? Che il Signore, a ciò che noi chiediamo, risponde in un altro modo, donandoci molto di più di ciò che Gli abbiamo chiesto.
29 agosto 2021: XXII Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 7,1-8.14-15.21-23
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme.
Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».

La liturgia della parola di oggi ci mette di fronte ad una apparente alternativa: o la religione delle regole, delle norme, dei precetti o la religione del cuore. Si può essere tentati, attratti da uno di questi due poli e non soltanto per la ragione che nell’Antico Testamento prevale la religione dei precetti e nel Nuovo quella del cuore. Questa è un’apparente dialettica: attenzione! Nella seconda lettura Giacomo ha detto questo: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre”. Israele ha pensato che questo dono venuto dall’alto fosse la Torah, la legge, i primi cinque libri della Bibbia, il Pentateuco, e ha pensato di tradurla in 613 precetti da osservare scrupolosamente: nella vita quotidiana, soprattutto il sabato, i giorni di festa e per tutta la tradizione che anche oggi gli ebrei osservanti mantengono. Avete sentito nella prima lettura, nel Deuteronomio: “non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla, osserverete i comandi del Signore vostro Dio che io vi prescrivo, questa sarà la vostra saggezza, la vostra intelligenza. Quale altra nazione ha un codice legale, giuridico, religioso come voi?”.
Nelle culture umane, nelle società organizzate il diritto serve per garantire la convivenza pacifica e l’ordine sociale, ed è giusto che ci sia, ma quando questo diventa norma religiosa (lo vediamo con la sharia o con le interpretazioni più o meno rigide della sharia) ci troviamo di fronte ad un paradosso. Dio vuole che tutti facciano così, ma questo Dio non esiste, perché la fede è comunque una scelta e una risposta libera, religiosamente e umanamente basata sulla libertà. Quindi nessuno Stato può imporre un Dio. Questo è un problema che si pone nelle grandi religioni, almeno monoteiste. Che cosa fa Gesù? Rovescia totalmente questo schema? Oppure accetta una pedagogia, una gradualità? Come si passa dall’Antico al Nuovo testamento? Attraverso una frattura, con una rivoluzione o con una riforma? Questo è un altro problema che si pone nelle società organizzate, quando si è di fronte a cambiamenti impellenti.
Nella pagina del Vangelo, abbiamo sentito tutte queste osservanze rituali, fondamentalmente igieniche, sanitarie: lavare – sanificare diremo noi oggi – bicchieri, stoviglie, oggetti, ecc… Per Gesù, questo è collegato a un rimprovero che già i profeti nell’Antico testamento facevano, e cita Isaia che dice: “questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”. Quindi il problema non è sostituire ai precetti, alle norme, il cuore, perché questo ci porterebbe di nuovo in un interiorismo soggettivo che niente ha a che fare con il Vangelo. “Non c’è nulla fuori dell’uomo che entrando dentro lo contamina”. Qui l’idea di contaminazione fa appello a qualcosa che noi abbiamo di un po’ ancestrale: l’idea di una purezza originaria, di un paradiso perduto. I bambini sono innocenti, tutto è bello, tutto è buono, poi la società – pensate a Rousseau – ci corrompe, ma si nasce buoni. Tutti problemi della filosofia del diritto, se vogliamo. In realtà qui si tratta di comprendere una questione semplice: non è quello che capita da fuori che decide della nostra responsabilità, ma il modo con il quale noi affrontiamo gli eventi che ci capitano.
Gesù qui sta facendo appello semplicemente alla responsabilità personale, a non nasconderci dietro le leggi o dietro i fatti che accadono, ma a dare la nostra personale interpretazione. L’ha detto anche Giacomo, che cerca anche lui di fare una mediazione: “religione pura e senza macchia è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo”. Quindi è la carità e il rifiuto della mondanità. La contaminazione non è il profano che contagia il sacro; si tratta piuttosto di trasformare la nostra mentalità da egoista in oblativa. Questo è il punto, per cui infatti dice ancora prima: “siate di quelli che mettono in pratica la Parola e non soltanto ascoltatori”. Cioè la responsabilità porta all’azione, il cuore muove al dono. Se non avviene questo, noi rimaniamo schiavi delle giustificazioni che ci diamo: il mondo va male, io che ci posso fare? Quindi, privandoci della possibilità di fare il nostro piccolo passo per cambiare qualcosa, ci accorgeremo che ciò che veramente deve cambiare è soltanto, prima di tutto, il nostro cuore, il nostro modo di vivere. Quindi Gesù fa la mediazione facendo vedere che c’è una gradualità, che Dio ci accompagna.
Da bambini abbiamo bisogno di norme, di regole; ad un bambino non puoi dire: “fai quello che ti senti”, perché questo lo fa smarrire. Ad un adulto non puoi continuare a dire: “fai così”, perché altrimenti rimane un bambino. Quindi anche nella pedagogia umana c’è questo passaggio dalle regole alla responsabilità. Poi c’è un’altra ragione ancora più semplice: se noi assumiamo i dieci comandamenti come la regola ci accorgiamo che la maggioranza di essi dice non fare e il non fare non basta. Anche qui si vede ancora una volta che la Legge, il diritto – anche inteso in senso religioso – è per limitare il danno, non per spingere a fare il bene. Non te lo può dire la legge: fai questo perché è bene. La legge ti dice non fare questo perché è male, ma non è il Vangelo.
Il Vangelo non è soltanto non fare il male, ma fai il bene: “a chi ti chiede il mantello dai anche la tunica, a chi ti chiede di fare un miglio fanne due, a chi ti percuote su una guancia porgi anche l’altra”. Quindi non siamo ancora cristiani se riduciamo i 613 precetti alle dieci Parole. Saremo cristiani quando daremo da mangiare agli affamati, daremo da bere agli assetati, visiteremo i carcerati, ospiteremo i pellegrini, cureremo i malati e compiremo le opere di misericordia, di giustizia prima che di misericordia. Ecco la gradualità, il cammino, il passaggio. La legge limita, è un confine da oltrepassare. Come diceva Frida Khalo, – una pittrice messicana morta negli anni ’50 – “dove tu vedi confini, io ancora vedo orizzonti”.
25 luglio 2021: XVII Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 6,1-15
In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Oggi abbiamo di fronte questo racconto che ben conosciamo, il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: è, direi, il miracolo della sproporzione. Sproporzione perché cinque pani e due pesci non possono sfamare cinquemila persone, e poi perché, una volta moltiplicati, avanzano dodici canestri. Dal troppo poco al troppo, dalla mancanza alla sovrabbondanza, dal deficit all’eccesso. Gli evangelisti hanno conservato questo racconto perché deve aver colpito l’effetto straordinario. Anzi, si parte – come vedete – da un calcolo economico: quanto ci vorrebbe di soldi per dare da mangiare a tutta questa gente? E qui Filippo fa il conto e dice: “duecento denari non sono sufficienti”. Si parte da un calcolo economico, quindi da una valutazione realistica, probabile. Poi si riparte da quello che c’è, e forse questo ragazzo viene sorpreso con la merenda, chissà se lui ha detto: “io ho questo”. Oppure se Andrea ha detto: “ma te che hai nel sacchetto? Fammi un po’ vedere!”. Chissà quante altre persone avranno avuto con sé la merenda.
L’effetto è straordinario: l’evangelista riporta sulle labbra di Gesù parole che assomigliano a quelle dell’ultima cena: dopo aver reso grazie li diede … prese i pani, rese grazie. È chiaro che c’è una associazione tra questo evento e l’Eucarestia. Il capitolo 6 di Giovanni, che oggi abbiamo cominciato a leggere, nelle prossime domeniche proseguirà con il discorso nella sinagoga di Cafarnao sul pane dal cielo, la discussione se a Mosè, con la manna nel deserto, Dio ha dato un pane; Gesù dà un altro pane, vedremo le prossime domeniche.
Qui non ci interessa il come è avvenuto, però mi chiedo come potrebbe avvenire oggi? Se 5 più 2 fa 7, 5000 diviso 7 quanto fa? 714. Facciamo l’ipotesi che 714 persone abbiano imitato quel ragazzo, abbiano tirato fuori 5+2 cioè 7: si arriva a sfamare tutti. Questo è il principio. Cioè se oggi è possibile per ciascuno mettere poco, e tutti mettiamo poco, forse avanza anche qualche cosa. Diceva Gandhi: “nel mondo c’è pane sufficiente per la fame di tutti ma insufficiente per l’avidità di pochi”. Che dobbiamo fare? “Il mistero delle cose – diceva Oscar Wilde – non è nell’invisibile ma nel visibile”. Il mistero non sta nel pane che deve cadere dall’alto, ma nel pane che si deve condividere dal basso.
Per entrare in una logica della condivisione bisogna superare la logica dello spreco. Perché a noi avanzano delle cose, non è che viviamo sul limite del necessario e non ci rimane niente, c’è qualcosa che sprechiamo. Quindi per entrare nella logica della condivisione bisogna partire dal superare la logica dello spreco, non per essere misurati al punto che non ci avanzi niente, ma se ci avanza qualcosa vuol dire che quello che abbiamo in più può essere condiviso. È una logica che, qui nel testo, Gesù svela nel momento in cui avanzano 12 canestri. Io mi chiedo: perché non ha fatto un calcolo preciso? Ci sono 5000 uomini, sfamiamo tutti, perché ci debbono essere avanzi? Che senso ha l’avanzo? È scarto? Oppure, come dice, niente deve andare perduto. Raccogliete i pezzi avanzati perché nulla vada perduto. L’eccedenza, la sovrabbondanza del dono di Dio è il segno che non pensa solo a noi, ma attraverso di noi pensa anche agli altri.
A questa logica della inclusione e dello scarto – il tema dello scarto è particolarmente caro a Papa Francesco – oggi si collega abbastanza direttamente il tema degli anziani e dei nonni. Paradossalmente, si è tentati di dire che queste persone non consumano e non producono, non servono più. Ma non è vero, soprattutto se consideriamo che tanti giovani vivono grazie alla pensione dei nonni. Se non ci fossero i nonni, con la loro pensione, tanti giovani non avrebbero neppure qualcosa su cui contare. Quindi non mi pare che siano proprio da scartare. Oggi preghiamo soprattutto per le persone anziane: perché possiamo apprezzarle e servirle, perché della loro compagnia godano i bambini, perché del loro consiglio facciano tesoro i giovani, perché della loro debolezza si prendano cura gli adulti. In particolare, preghiamo per tutti gli anziani morti per la pandemia, sono state le vittime più numerose. Chiedo a tutti noi di avere questa cura, perché chi di noi non ha ricevuto dai nonni una testimonianza di fede, un esempio di un amore generoso, anzi anche un po’ viziato? I nonni non hanno tutte le preoccupazioni che hanno i genitori. Ricordiamoci dei nostri nonni, perché ricordarci delle radici significa non perdere il senso della gratitudine verso la memoria che ci ha fatto diventare migliori di quelli che potevamo diventare.
11 luglio 2021: XV Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 6,7-13
In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

Questa pagina del Vangelo ci mostra un primo tentativo da parte di Gesù di mandare i suoi discepoli in mezzo alla gente. Non va con loro, li manda. È una esperienza anticipata di quella che poi sarà la loro missione. Quasi un test per vedere come hanno inteso la missione. Come si intende noi la missione di cristiani? Ci sono due estremi, quello di dire: “beh…io sono credente, gli altri hanno la loro fede, ognuno segua la sua, poi a tutti penserà il Signore”, oppure l’estremo opposto: bisogna a tutti predicare la conversione, quindi si diventa in qualche modo propagandisti della fede. Nella storia noi abbiamo conosciuto prevalentemente questo tipo di missione. Proclamarono che la gente si convertisse quindi: la crociata, la forma integralista del proclamare la fede, la pretesa che lo Stato e i governi facciano quello che pensa la Chiesa… conosciamo questa storia. La pagina del Vangelo, invece, ci riporta all’equilibrio che Gesù propone ai suoi discepoli – questa è la seconda parte, poi si viene alla prima, quella dell’essenzialità, della sobrietà, del corredo – partiamo da questa seconda: “dovunque entriate in una casa, rimanetevi finche non sarete partiti di lì, se non vi accogliessero e non vi ascoltassero, prendete e tornate a casa, scuotete la polvere e arrivederci”.
Cosa indica questo piccolo sommario? Che c’è un modo rispettoso e delicato di rapportarci agli altri, pur mantenendo la nostra identità cristiana e la nostra fede. È una via media; non è un fatto privato la mia fede, e quindi io me la tengo e gli altri la pensino come vogliono. Questo è un estremismo che non corrisponde al mandato evangelico perché c’è una indicazione precisa: hai ricevuto gratuitamente un dono, gratuitamente lo devi condividere. Non è possibile pensare ad una fede che sia soltanto una opzione privata, come può essere il mio hobby: ci deve essere una manifestazione. Però in questa manifestazione non si deve diventare crociati, propagandisti, integralisti, come se agli altri noi dovessimo insegnare quello che debbono pensare, quello che debbono fare. Tra questi due estremi bisogna trovare una via media, e probabilmente la condizione di fondo che appartiene al cristiano è proprio nella premessa, nella sobrietà. Non attrezzatevi in modo da pensare che il vostro armamentario, il vostro corredo sia decisivo, non portate niente con voi. Cioè portate voi stessi e basta. Purtroppo, nei secoli abbiamo visto come la Chiesa si è anche attrezzata in modo, come dire, piuttosto articolato per la propria missione, per la plantatio Ecclesiae, il riprodurre strutture culturali occidentali da trasportare altrove, senza magari rispetto per le culture diverse.
Allora, siate voi stessi, date quello che siete, non portate con voi superfetazioni che ostacolano: questo diventa uno stile. Anche noi oggi, nella cultura dei consumi, tendiamo a ritenere indispensabile ciò che è superfluo, con il rischio anche qui di due estremi: l’accumulo, sempre più cose, come quando andiamo al supermercato e abbiamo una lista ben precisa, prendiamo quello che abbiamo stabilito, ma se non abbiamo una lista precisa ci faremo venire la voglia di prendere altre cose, indotte in quel momento lì: le grandi offerte o altro, e portiamo a casa molto più del necessario. Poi c’è l’altro estremo, lo spreco, che fa sì che buttiamo via cose che potrebbero essere riutilizzate. Non dico che bisogna entrare nella cultura ossessiva del riciclo, però della riparazione sì, anche se poi c’è l’obsolescenza programmata: le cose non debbono durare più di tanto. Da una parte si accumula, dall’altra si spreca, perché le cose non servono più.
Ecco, credo che questa sia un’indicazione utile per noi oggi, per capire in quale modo il cristiano vive nel mondo. Diceva un testo antico, la Lettera a Diogneto: i cristiani nel mondo vivono come tutti gli altri, non si distinguono per il loro modo di vestire o di abitare, ma la loro patria è nel cielo. Guardano oltre, si comportano normalmente, ma hanno una prospettiva più lunga, diversa. Ecco, credo che Gesù, facendo questo test con i suoi discepoli, voglia affidare loro la possibilità di rapportarsi con gli altri consapevoli di un dono, ma non proprietari di una verità. Essere testimoni di un dono è diverso da essere possessori, propugnatori e difensori della verità, perché la verità è Lui, e non si è difeso.
4 luglio 2021: XIV Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 6,1-6
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Oggi a Gesù tocca una cosa che capita di solito anche ai bambini nelle proprie famiglie: “Sento dire che sei bravo da tutte le parti, ma a casa come ti comporti?”. Qual è il genitore che non ha detto questo ai propri figli? “Parlano tutti bene di te fuori, ma io so come ti comporti a casa!” Questo è il problema. Hegel scriveva: “Nessun uomo è così grande per il proprio cameriere”. Cosa vuol dire? Che purtroppo la familiarità a volte si traduce in svalutazione: “Di fronte agli altri ti comporti bene e qui ti comporti male”.
Questo capita anche a Gesù, perché va dai suoi compaesani – è cresciuto a Nazaret, in una cittadina dove tutti lo conoscono come il figlio di Giuseppe, il falegname –, i quali sentono dire che ha fatto grandi cose di qua e di là, da tutte le parti ha compiuto miracoli, segni, e lo sfidano: “Fallo vedere anche qui di cosa sei capace, dicono tutti bene di te”. Ecco: sfida e svalutazione.
Purtroppo questo succede a volte anche a noi: quando sentiamo parlare bene di una persona, quale sentimento nasce in noi? Quello di apprezzare, di essere contenti, di gioire con chi gioisce, oppure sale piano piano una certa invidia? Perché – guardate – l’invidia è un tarlo segreto e pericoloso. Si preferisce a volte avere compassione per chi ci racconta dei propri dolori, piuttosto che condividere la gioia degli altri. Siamo fatti un po’ così: ci rimane complicato essere felici di qualcosa di cui non siamo artefici, la gioia degli altri chiede gratuità, il dolore degli altri invece chiede compassione, una compassione che è a volte anche un po’ malata.
Sapete perché i giornali non sono pieni di buone notizie? Ci avete mai riflettuto? C’è chi ha provato a fare giornali, quotidiani con buone notizie. Perché non vanno? Perché se io leggo: “Tale imprenditore ha fatto una donazione ai poveri”, il sentimento comune, di molti è l’invidia. “Chi si crede di essere? Se voleva fare il bene lo faceva senza fare tanto clamore! E poi se l’ha fatto qualche interesse ce l’ha!”. Questo è sminuire il bene. Invece, le cattive notizie perché tutto sommato hanno più mercato? Perché una cattiva notizia – quello è stato ucciso, quell’altro ha rubato, quell’altro è in carcere – da una parte fa nascere il senso del male comune: “Mamma mia, che mondaccio, guarda là”; però intimamente il pensiero è: “Per fortuna non è toccato a me! È toccato a lui, è toccato a lei”. Quindi, si è più complici nelle sventure che solidali nelle vittorie, di cui non siamo protagonisti. Cosa vuol dire questo? Che siamo più portati a svalutare che ad apprezzare.
Il Signore non fa così con noi. Il Signore è in controtendenza. È un Genitore, un Padre che ci dice: “Più sbagli, più sei lontano, più hai bisogno di amore. Sei stato più cattivo? Hai bisogno di più amore. Non ti ho voluto abbastanza bene, e allora te ne voglio ancora di più”. Non è uno che svaluta facendo il deluso. Guai a quel genitore che di fronte l figlio dice: “Ma come, dopo tutto quello che ho fatto per te e tu mi ripaghi così?”. Questa è una grande tentazione dell’adulto, dell’educatore, del genitore, della persona in posizione di superiorità. La delusione è lo scoraggiamento per l’altro; invece, nel momento in cui invece tu sei più debole, più fragile, io mi prendo maggiore cura di te.
I concittadini di Gesù sono anche un po’ ingenui, perché se avessero fatto il calcolo del loro interesse, avrebbero iniziato a portargli ammalati, indemoniati, e a dirgli: “Guarda, per favore, aiuta anche noi”; invece no, lo sfidano: “Hai fatto tanto bene altrove, perché non lo fai anche qui?”. E si meravigliava della loro incredulità. Non poté compiere nessun prodigio ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. Quindi, Gesù alla fine non reagisce nemmeno come avrebbero meritato i suoi compaesani, facendo finta di niente: “Vabbè, lasciamo stare tanto è lo stesso”. No, si prende comunque cura di qualcuno che è più debole.
Chiediamo al Signore di liberarci dalla tentazione di essere invidiosi, svalutanti e soprattutto sprezzanti. Perché qui c’è una parola forte che Gesù usa: un profeta non è disprezzato… Disprezzare vuol dire: “Non vali quello che sembra, il prezzo è minore, vali meno, non vali niente”. Non c’è nessuno che non vale niente, anzi il prezzo è altissimo: Gesù ha offerto la sua vita soprattutto per i più lontani, per i peccatori. Se ci sentiamo da quella parte può darsi che comprendiamo il prezzo che valiamo e il prezzo che valgono gli altri.
20 giugno 2021: XII Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: (Mc 4, 35-41)
In quel tempo, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

Il brano della tempesta sedata ci colpisce per l’iniziale esperienza di paura, che poi alla fine del brano si risolve in timore. I discepoli hanno paura di perire. Essere in preda ad una tempesta sul lago è un’esperienza sicuramente sconvolgente, soprattutto per il fatto che Gesù rimanga a dormire sul cuscino – deve aver colpito questo strano particolare – al punto che i discepoli gridano: “Maestro, non ti importa che siamo perduti?”.
Gesù si sveglia, minaccia il vento e lo calma. In realtà calma una paura che è nel cuore dei discepoli; però in loro nasce un altro sentimento, il timore: “furono presi da grande timore”. Quindi si passa dalla paura al timore. C’è un passaggio oltre la solitudine, perché ciò che paralizza nella paura è il sentirsi da soli, anche se siamo con altri. Noi l’abbiamo sperimentato durante quest’anno: pur essendo coinvolti tutti in questa esperienza di limitazione, di contenzione, ci siamo sentiti soli anche se accomunati dalla medesima condizione. Quindi la paura rende soli.
Come si esce dalla paura? Invocando aiuto. La paralisi, l’immobilizzazione che crea interiormente un evento avverso è un invito, un appello positivo, perché ci mette di fronte al nostro limite, al fatto che da soli non ce la possiamo fare, quindi ci spinge a chiedere aiuto. I discepoli chiedono aiuto a Gesù, noi chiediamo aiuto a Dio, poi nella quotidianità dovremo imparare a chiedere aiuto alle persone che ci vogliono bene.
Sono i sentimenti che ci aiutano nel momento della solitudine, specialmente quando capitano situazioni ricorrenti, come il risultato di un’analisi medica, l’esperienza di un trauma relazionale, di un crollo familiare, di un figlio o un a figlia che prendono altre strade. Che cosa avviene in questi momenti? Il dolore si trasforma anche in paura, e questo fa aumentare anche gli spettri che si aggirano dentro la nostra mente e il nostro cuore.
Allora qui c’è un’esperienza semplice: “Maestro non ti importa che siamo perduti?”. È bella questa domanda, è delicata, è intima. Non è soltanto: “Signore, salvaci”, ma soprattutto: “non ti importa di noi?”. Questa è una preghiera bellissima rivolta al Signore: “non lo vedi come mi sento?”. Gesù calma il mare e poi invita a riflettere, perché non basta solamente uscire dal momento della crisi, bisogna pensare qualcosa.
“Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Questo ci dice che quando il Signore non risponde alla nostra domanda, non vuol dire che non ci ha ascoltato: significa che non ci ha esaudito. Ma quanti genitori ascoltano i propri figli e non per questo possono o vogliono o debbano esaudirli. Non bisogna confondere tra l’essere ascoltati e l’essere esauditi. È per questo che si parla di fede: io ho solo fiducia in chi fa quello che gli chiedo? Posso ancora avere fiducia in chi mi vuol bene, ma non risponde alla mia attesa del momento? Oppure la fiducia in realtà è soltanto uno scambio, non è fidarsi. Ti chiedo una cosa, me la dai, fine della questione.
Fidarsi invece è proprio rimanere in una relazione di affidamento anche quando non si viene esauditi. Ma questa poi, se ci pensate, è la condizione di tutti noi credenti, perché quante cose chiediamo a Dio e Lui non ce le dà. Non ci dà quelle che ci aspettiamo. Allora vuol dire che Dio non ci dà nulla? No, vuol dire che Dio ci dà un’altra cosa: la presenza, la compagnia. Cosa fa un genitore quando un figlio si fa male? Vorrei togliertelo, prenderlo io questo dolore, ma non lo può prendere. Allora cosa può fare? Rimane vicino. Rimanere vicini nel momento della paura e del dolore, è forse l’unica cosa che possiamo fare nel momento della crisi. Quando una persona grida la propria paura, o non la grida neppure, nel silenzio soffocato dalla paura, o ci chiede perché a me succede questo? Non è detto che siamo tenuti a dare una risposta. A volte la migliore risposta è il silenzio. Perché chi chiede un perché non ha bisogno di una spiegazione logico-matematica, è umano chiedere perché. È anche divino non rispondere a quel perché. Giobbe, lo abbiamo sentito nella prima lettura.
Credo che noi di fronte all’esperienza della paura e del dolore dobbiamo chiedere aiuto, ma dobbiamo anche riflettere sul come affrontiamo le nostre e le paure degli altri. Infatti, il timore con cui si conclude il brano di fronte alla presenza di Gesù, che è stato capace di placare le acque e anche i loro cuori, è: “Chi è Costui? Anche il vento e il mare gli obbediscono”. Il vento e il mare… e noi? Noi gli obbediamo? Noi lo ascoltiamo? Noi lasciamo che plachi le nostre ansie e le nostre paure? E siamo capaci di placare e accompagnare le paure e le ansie dei fratelli? Questo ci insegna il brano. Chiediamo al Signore di donarci la fede, soprattutto nel momento in cui non abbiamo le risposte che ci aspettiamo.
13 giugno 2021: XI Domenica del Tempo Ordinario
Dal Vangelo secondo Marco: Mc 4, 26-34
In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Oggi Gesù ci parla del regno di Dio, e lo fa ricorrendo a due semplici riferimenti agricoli: la semina e la crescita del grano e della pianta di senape. La gente che lo ascolta è invitata a riflettere su come le cose importanti della vita maturano lentamente, grazie all’impegno di chi ci mette del suo con cura e, allo stesso tempo, attende con fiducia che giungano a compimento. Impegno personale e speranza: sono i due aspetti collegati che non si debbono separare. Non tutto dipende da noi, ma senza la fatica personale niente di buono può succedere.
Si tratta quindi di riflettere su come il Signore ci chiede di partecipare al suo progetto di costruzione della nostra vita e di quella degli altri. Nessuno può farcela da solo, né deve aspettarsi che i problemi che incontra debbano risolverglieli gli altri. Gesù parla di regno di Dio per dirci che la signoria di Gesù nella nostra vita dipende dalla collaborazione. Invece, quante volte ci capita di essere più disposti alla competizione! Abbiamo tutti bisogno di scoprire che il segreto vincente del vivere sociale non è l’indipendenza, ma l’interdipendenza. Finché non impareremo a sentirci parte della famiglia umana continueremo a scambiare l’io-più-l’altro come somma, mentre invece io-per-l’altro è la chiave.
Interdipendenza vuol dire capacità di riconoscere ed essere riconosciuti, apprezzare ed essere apprezzati, donare e ricevere. Non sono due movimenti opposti, ma convergenti, coesistenti, collegati strettamente. Il Signore Gesù ci insegna proprio questo: non vuol fare tutto da solo con l’umanità, né si aspetta che ciascuno di noi sia un eroe al di sopra di tutti. Per questo ha voluto la famiglia umana e la Chiesa: comunità di fratelli e sorelle che si sentono parte di un progetto comune, da costruire insieme. A noi spetta il compito di faticare e, allo stesso tempo, di pazientare, con fiducia.
Tra l’investimento di risorse e gli obiettivi raggiunti c’è sempre uno scarto, in difetto o in eccesso: non tutto dipende dal proprio impegno, e non mancheranno certamente rischi e incertezze, al punto che ogni risultato non sarà sempre quello immaginato, calcolato, previsto. Profondere energie, speranze e attese non garantisce: vi è un di più e di altro che interviene, favorevole o contrario che sia. Che cosa impariamo, dunque, dalla similitudine della semina?
Probabilmente molti penseranno che non si deve sprecare, che è doveroso essere saggi e avveduti nel valutare il rapporto tra ciò che si spende e quanto si deve raccogliere. Questo è giusto in linea di principio, ma è anche vero che esiste una sovrabbondanza dell’impegno di cui mai pentirsi, nonostante i risultati scarsi e deludenti. Seminare vuol dire credere nella potenza intrinseca del seme, nella sua capacità di farsi strada nel terreno, di fruttificare comunque e aldilà di chi semina.
Forse è meglio riflettere su quanto scriveva Frédéric Ozanam, amico dei poveri, alla moglie: «Io sono convinto che in fatto di opere di carità non bisogna mai preoccuparsi delle risorse finanziarie, arrivano sempre. Alcuni nostri colleghi sono stati incaricati dal tribunale civile di far visita ai fanciulli detenuti. Questi piccoli sfortunati […] è impossibile correggerli. Non importa, si semina sempre, lasciando a Dio la cura di far germogliare il seme a suo tempo» (Parigi, 23 luglio 1836).
30 maggio 2021: Santissima Trinità
Dal Vangelo secondo Matteo: Mt 28,16-20
In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato. Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

Queste parole concludono il Vangelo di San Matteo, e l’ultima frase del vangelo ci dice qual è la promessa di Gesù: “Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”. In quale modo il Signore è presente con noi fino alla fine del mondo? Con l’Eucarestia – domenica prossima sarà il Corpus Domini – con la sua Parola, con i poveri: “i poveri li avrete sempre con voi”. Ecco il testamento di Gesù, che nell’ultima cena ha detto: “questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. È ciò che da duemila anni la Chiesa custodisce come memoria cara, la presenza di Dio in mezzo a noi in questa forma umile, la povertà di un po’ di pane e di un po’ di vino, e la povertà di tanti fratelli.
In queste parole ha messo tutto Gesù: andate, raccontate. Fate discepoli vuol dire: raccontate ad altri quello che voi avete sperimentato. Che cosa avete sperimentato? La mia compagnia, la mia amicizia, il mio amore, il mio perdono. Sono stato con voi in questo modo, così state anche voi con gli altri.
Guardate che il messaggio del vangelo è semplice ed essenziale, altrimenti non avrebbe potuto resistere per duemila anni. Certo, poi c’è anche l’altro aspetto: “a me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”, dice Gesù. Da come si ascoltano queste parole, il messaggio del vangelo può cambiare orientamento. Facciamo un esempio: in certi secoli, in certi luoghi, da varie parti, la Chiesa ha interpretato così questo potere: l’hai dato a noi, e in tuo nome noi comandiamo agli uomini quello che debbono fare. L’interpretazione del potere nella Chiesa è stata anche temporale, come si dice. Diventare un impero, diventare addirittura uno Stato Pontificio; e questo noi sappiamo che non ha esattamente rappresentato il mandato di Gesù. Il mandato di Gesù è un altro.
A me è stato dato ogni potere: qual è il potere di Gesù? Perché noi tutti sappiamo che un piccolo pezzetto di potere lo abbiamo. Se siamo genitori, se siamo insegnanti, se siamo adulti, se siamo persone che in qualche modo hanno una responsabilità sugli altri, il potere lo abbiamo. Non lo hanno solo i politici, i banchieri, gli amministratori. Un piccolo potere l’abbiamo tutti. E la nostra tentazione è quella di abusare del potere. Quand’è che si abusa del potere? Quando non si vuol solo avere ragione, non si vuol solo vincere, ma si vuol stravincere. Non si vuole solo che gli altri facciano quello che noi suggeriamo benevolmente per il loro bene. Penso ai genitori, ma penso anche a tutti quelli che con la retorica del sapere qual è il bene degli altri in qualche modo lo impongono, condizionano, manipolano. Ecco, è l’abuso. Non è l’offerta di un esempio, di una testimonianza, perché il vero potere è quello dell’esempio.
Noi sappiamo che parlano di più i fatti delle parole, e noi tutti ci riveliamo per quelli che siamo più con i fatti che con le parole. Perché con le parole diciamo delle cose e con i fatti ne facciamo altre; ma quello che rimane, quello che lascia un’impronta, sono i fatti, non sono le parole. Noi ricordiamo le parole di Gesù perché alle sue parole hanno corrisposto dei fatti. Infatti, ciò che noi facciamo è ascoltare prima la sua Parola e poi celebriamo il suo fatto, la sua morte, la sua resurrezione, il suo essere con noi. Non ci promette di essere con noi per concetti, per idee, per filosofia, ci promette di essere con noi per amore, nei fatti.
E io penso che dicendo queste parole Gesù si sia anche un po’ dispiaciuto, perché è un saluto, un distacco. Anche lui se ne va. Di solito chi se ne va non è mai felice di andarsene, anche se pensa di trovare una soluzione. La soluzione la trova dicendo: “verrà lo Spirito, vi lascio il mio corpo”, però se ne va. Qui c’è un distacco anche per lui. Io penso che Gesù, andandosene da questo mondo ne avrà avuto anche un po’ di nostalgia. Se c’è stato volentieri con i suoi amici, adesso che non c’è più qui, un po’ gli dispiacerà. Non è soltanto sul versante nostro il fatto: beati gli apostoli, l’hanno visto, sono stati con lui. Che cosa però promette? Battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Oggi è la festa della Santissima Trinità. La Trinità è una faccenda complicata da spiegare, non è roba da teologi. La Trinità è una compagnia d’amore, la capisce soltanto chi pensa che Dio sia legame, comunione, amore fra persone: è Uno in Tre. Io non lo so spiegare, però posso leggervi le parole di Don Tonino Bello, che era un pastore; a volte i pastori spiegano meglio dei teologi.
Dice: «Sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c’è una Persona che si aggiunge all’altra e poi all’altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l’altra. E sai come concludo? Dicendo che questo è una specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario’ così dominante in ‘casa Trinità’ che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l’uomo per gli altri».
Ecco, allora non è una somma, è una relazione di dono, di amore. Se questa è la Trinità, questo è ciò che dovrebbe aiutarci a capire che noi non siamo una somma di persone. Noi siamo gli uni per gli altri, e in questo si riflette la Trinità di Dio. Mi sembra una spiegazione convincente, semplice, che ci permette di capire che noi siamo venuti da soli in chiesa, ma questo stare insieme non ci fa uscire come prima. Anche se ce ne torniamo a casa da soli, qui è avvenuto qualcosa, siamo diventati un pochino più famiglia, anche se non ci conosciamo bene. Oggi la nostra assemblea è divisa in due momenti, come si fa una volta al mese. Prima c’è questa assemblea riunita nella fede e per l’Eucarestia, dopo c’è un’assemblea riunita per la seconda Eucarestia, per l’amore, per la carità verso i più poveri.
23 maggio 2021: Domenica di Pentecoste
Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 15,26-27; 16,12-15
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

«Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità». Con queste parole Gesù prepara i suoi discepoli al futuro che li attende: non senza di Lui, ma con la consolante presenza dello Spirito santo, che invierà una volta giunto al Padre. Il Paraclito non è soltanto l’interprete di Gesù, ma anche il suo successore: «perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Grazie a lui i credenti di ogni tempo sapranno adattare le parole del Signore alle nuove situazioni della vita.
Deve farci riflettere l’insistenza di Gesù sull’importanza dello Spirito a cui consegna la custodia di sé, della sua memoria e volontà: vuol dire che non ha paura di perdere un potere, gli interessa piuttosto rendere attenti e responsabili coloro ai quali ha insegnato a ricevere e donare, come Dio ha fatto con lui: «Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». La comunità dei credenti dovrà lasciarsi guidare dall’azione misteriosa del Risorto e del suo Spirito, con fedeltà e creatività, per diventare spazio di libertà e di amore, non ingabbiata da rigidi protocolli.
Come c’insegna papa Francesco: «è come immergersi in un mare dove non sappiamo che cosa incontreremo […]. Tuttavia non c’è maggior libertà che quella di lasciarsi portare dallo Spirito, rinunciando a calcolare e a controllare tutto, e permettere che Egli ci illumini, ci guidi, ci orienti, ci spinga dove Lui desidera. Egli sa bene ciò di cui c’è bisogno in ogni epoca e in ogni momento. Questo si chiama essere misteriosamente fecondi!» (Evangelii gaudium 280).
Invocare lo Spirito, perché ci conduca a tutta la verità di quello che Gesù ha detto e fatto per noi, significa aprirci alla memoria e alla libertà. Memoria vuol dire cercare nella nostra vita i segni di ciò che il Signore ha operato, le tracce dell’amore disseminato nel terreno accidentato dell’esistenza, fatta di cadute e di riprese, di sbagli e di perdono, di rifiuti e di accoglienze. La memoria non funziona solo all’indietro: apre squarci di luce sul futuro, con la speranza di essere perdonati, per diventare migliori. Questo è dono dello Spirito: di non ripiegarci su noi stessi, ma di scorgere nuove possibilità. La memoria è un ponte verso la libertà.
Dunque occorre chiederci come viviamo il presente. Se prevale la nostalgia del passato, non rischiamo forse di perdere la speranza? Se domina l’attesa del futuro, non ci stiamo illudendo? Abbiamo bisogno di guardare indietro senza fuggire e al futuro senza paura. Per questo Gesù sposta la questione in avanti, affida il compito al potente soffio dello Spirito, per dire che da soli non si trova la verità, il nostro pensiero non basta, c’è bisogno d’altro, di altri, forse di tutti coloro che incontreremo, lungo tempi e attraverso spazi diversi.
Scriveva Sant’Agostino: «Un fatto è ora limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. È inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa» (Le Confessioni XI, 20, 26).
Non ci resta che accogliere, nel nostro presente, il dono dello Spirito che ci spinge indietro e in avanti alla continua e appassionata ricerca del volto di Dio nel volto dei fratelli e delle sorelle che incontriamo. Ci aiutano le parole ispirate di un poeta che ricordiamo con gratitudine:
«E ti vengo a cercare
anche solo per vederti o parlare
perché ho bisogno della tua presenza
per capire meglio la mia essenza.
Questo sentimento popolare
nasce da meccaniche divine
un rapimento mistico e sensuale
mi imprigiona a te.
Dovrei cambiare l’oggetto dei miei desideri
non accontentarmi di piccole gioie quotidiane
fare come un eremita
che rinuncia a sé.
E ti vengo a cercare
con la scusa di doverti parlare
perché mi piace ciò che pensi e che dici
perché in te vedo le mie radici.
Questo secolo oramai alla fine
saturo di parassiti senza dignità
mi spinge solo ad essere migliore
con più volontà.
Emanciparmi dall’incubo delle passioni
cercare l’Uno al di sopra del Bene e del Male
essere un’immagine divina
di questa realtà.
E ti vengo a cercare
perché sto bene con te
perché ho bisogno della tua presenza».
Domenica 9 maggio 2021: VI Domenica di Pasqua
Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 15, 9-17
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Non può non sorprenderci, ascoltando questo brano, l’insistenza su questo comando: Gesù comanda di amare. Perché? Qui c’è un cambiamento di prospettiva. Noi sappiamo bene che c’è una distinzione da fare tra l’innamoramento e l’amore; l’innamoramento è un istinto che parte e non ha motivo: una persona ti colpisce in modo particolare, un’altra no, e si tende a pensare che il problema sia passare dall’innamoramento all’amore, ma sempre con la stessa dinamica: perché? Perché l’amore nasce spontaneo e ognuno lo sente per chi gli pare. Quindi alla fine con questo ragionamento succede che l’amore diventi una conseguenza, un cambiamento all’interno di un rapporto di innamoramento che si stabilizza. Finisce l’incanto, la passione, l’infatuazione e la cosa si normalizza. Ma se ragioniamo così dell’amore, noi facciamo una riduzione.
Gesù comanda di amare perché sa che si tende ad obbedire a questo istinto, che fa sì che l’amore diventi selettivo: io amo chi mi sento di amare o chi mi ama. Perché Gesù comanda di amare come ha amato Lui? Dov’è la differenza? Che cos’è il: come ho amato io? Amare tutti. Questo è il punto. Noi ci confondiamo su questo perché pensiamo che l’amore sia elettivo,per cui alcune persone di fatto le amiamo e altre non le amiamo. Alcuni addirittura ci sono totalmente indifferenti, non ci riguardano. Il problema di amare non si rivolge a tutti. Ecco perché comanda: perché non lo riceviamo come un ordine dato a dei servi, ma una raccomandazione data agli amici. Perché? Perché l’amore ha bisogno di diventare pian piano estensivo. L’amore si propaga, quindi c’è da dubitare che chi dice di amare, ma ama una sola persona, c’è da dubitare che ami. Perché facilmente questo diventa lo scambio di reciprocità, e in qualche modo anche di interesse, di sopravvivenza. Abbiamo bisogno di amare qualcuno, abbiamo bisogno di essere amati da qualcuno. Se dei genitori dicessero che amano solo i loro figli e non gli altri, fossi quel figlio avrei qualche dubbio che quello diventi un amore che mi fa bene.
Allora è questo passaggio dal particolare dell’innamoramento all’universale dell’amore che sta cercando di dirci Gesù. Scriveva Simone Weil: «È vero che bisogna amare il prossimo, ma nell’esempio che Cristo dà per illustrare questo comandamento il prossimo è un essere nudo e sanguinante, svenuto sulla strada e di cui non si sa niente. Si tratta di un amore del tutto anonimo, e per ciò stesso universale».
Quindi domandiamoci, quando facciamo un esame di coscienza sull’amore, che è più facile farlo sulla fede no? Credo in Dio… non è quello il problema, non è tanto il credere, è la conseguenza del credere; e questa conseguenza è AMARE. Facciamo un esame di coscienza: a chi veramente voglio bene io? Perché se sono poche le persone a cui voglio bene, sono chiamato ad allargare l’orizzonte. Altrimenti l’amore è un’altra cosa: io sto chiamando amore quello che invece è una semplice logica di parentela, di affetti, di scambi, di reciprocità. Questo amore che va verso chi non si conosce e che non ha neppure un volto o un nome, ci espropria dalla logica del ricambio: è un amore a fondo perduto e questo è l’amore di Dio.
Perché come fa Dio ad amare tutti gli uomini, tra i quali gran parte non se ne rende conto e soprattutto neppure sente di dover corrispondere e neppure dire grazie. Quindi va cambiata un po’ la nostra idea di amore: se chiamiamo amore quello che è uno scambio, è un’altra cosa. Almeno secondo Gesù.
Sant’Agostino diceva: “Ama e fa’ ciò che vuoi”. Tanti citano questa frase, ma non conoscono il contesto. Chi cita questa frase pensa che Agostino intenda: “Fai quello che ti pare”. In realtà, nel Commento alla prima lettera di Giovanni dice esattamente così: «Ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene».
Oggi chiediamo al Signore Gesù che ci insegni ad amare come il Padre ha amato Lui e come Lui ha amato noi, soprattutto con la preghiera, perché se non c’è questo rapporto intimo, personale, profondo con Lui, il nostro pensiero tende ad avvolgersi su quella che è la nostra abitudine e lo sguardo non si allarga, l’orizzonte non si dischiude.
Domenica 2 maggio 2021: V Domenica di Pasqua
Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 15,1-8
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Dopo le parole d’addio rivolte ai discepoli, Gesù prosegue con il discorso figurato della vigna, caro ai profeti dell’Antico Testamento e agli agricoltori di Palestina. Il tema è l’intimo legame d’amore che Dio Padre ha stretto con i credenti nel suo Figlio: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore»; immagine che indica la relazione tra Dio, Gesù e noi. Col discorso figurato sul pastore e le pecore avveniva qualcosa di simile, adesso tocca alla vite e ai tralci, cominciando dal vignaiolo che d’inverno recide i rami secchi e d’estate pota i getti: «Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto». Se non si fa così i grappoli non maturano e non si produce il vino. Per portare frutto occorrono tagli, che a prima vista sembrano perdite, in realtà è la cura della vite, la purificazione necessaria per la sua vitalità. Gesù non sta facendo un discorso moralistico, richiama solo i discepoli al fondamento di un agire fecondo: il legame con lui, in cui perseverare: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci». Il problema è la pretesa di autosufficienza, con l’illusione di essere liberi pensando solo a se stessi, mentre è il legame che permette di rimanere attaccati a colui che dona la sua linfa vitale: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla». A volte si preferisce rimanere soli, secchi, bruciati dal nostro io, piuttosto che affidarci ad un’altra parola, diversa da quella che vogliamo sentire. Perciò il Signore non si stanca di ripeterci il suo invito: «che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli». La sua non è una minaccia, è il dispiacere di vederci soli, tristi, inariditi. «L’uomo è come il vino: non tutti i vini invecchiando migliorano; alcuni inacidiscono» – scriveva Eugenio Montale. Allora ci conviene rimanere nel suo amore, per invecchiare come il vino migliore.
Domenica 25 aprile 2021: IV Domenica di Pasqua
Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 10, 11-18
In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

Nel Vangelo di oggi Gesù ripete per ben cinque volte: “io offro”. Egli non chiede, dona; non pretende, regala. Che cosa offre il buon pastore? La sua vita. A chi? A tutti: a chi riconosce la sua voce e a chi non l’ha mai sentita.
Offrire significa presentare o proporre a qualcuno una cosa – materiale o no, ma che comunque si ritiene utile o gradita – perché la prenda o l’accetti; vuol dire manifestare con parole o con atti tale intenzione. È ciò che precede il dono e la sua eventuale accoglienza, nasce nell’intimo, parte da casa, è la disposizione di fondo con cui ci si presenta agli altri.
Donare è un’altra cosa, implica già una probabile ricezione. Offrire, invece, viene prima, anticipa il regalo, lo presenta umilmente, quindi chiede delicatamente il permesso dell’accoglienza.
Gesù si pone in questo modo davanti a noi per una ragione semplice e fondamentale: ama la nostra libertà, non vuol costringere nessuno, perché conosce la sproporzione tra la sua offerta e la nostra capacità di comprenderla e di accoglierla.
Ci vuole delicatezza nell’offrire: chi ci sta davanti deve prima di tutto stare dentro il nostro cuore. Non si tratta, infatti, di scambiare qualcosa, ma soltanto di proporre, senza aspettarci restituzione. È la forma squisita del vero amore, che lascia liberi anche di rifiutare.
Amare significa abbattere ogni muro e ogni paura, per offrire all’altra persona il nostro mondo al completo. L’amore di cui noi siamo capaci è sempre imperfetto, struggente, caratterizzato dagli aspetti più crudi della vita. Questo però è quello che possiamo offrire.
Vi leggo adesso una poesia di Jorge Luis Borges. È un elenco, più o meno, di avvenimenti, dettagli di esistenza, squarci di quotidianità e di passato, che compongono quel pacchetto completo che il poeta rappresenta. Ma poi, in fondo, oltre a tutto quello che il nostro io rappresenta, ognuno di noi ha un nocciolo, un cuore profondo. Amare significa così offrire anche la parte più buia di se stessi, per poter essere “luce” in due, in molti, con tutti.
Ciò che ti offro
Ti offro strade difficili, tramonti disperati,
la luna di squallide periferie.
Ti offro le amarezze di un uomo
che ha guardato a lungo la triste luna.
Ti offro i miei antenati, i miei morti,
i fantasmi a cui i viventi hanno reso onore col marmo:
il padre di mio padre ucciso sulla frontiera di Buenos Aires,
due pallottole attraverso i suoi polmoni, barbuto e morto,
avvolto dai soldati nella pelle di una mucca;
il nonno di mia madre – appena ventiquattrenne –
a capo di un cambio di trecento uomini in Perù,
ora fantasmi su cavalli svaniti.
Ti offro qualsiasi intuizione sia
nei miei libri, qualsiasi virilità o vita umana.
Ti offro la lealtà di un uomo
che non è mai stato leale.
Ti offro quel nocciolo di me stesso
che ho conservato, in qualche modo –
il centro del cuore che non tratta con le parole,
né coi sogni e non è toccato dal tempo,
dalla gioia, dalle avversità.
Ti offro il ricordo di una
rosa gialla al tramonto,
anni prima che tu nascessi.
Ti offro spiegazioni di te stessa,
teorie su di te, autentiche e sorprendenti notizie di te.
Ti posso dare la mia tristezza,
la mia oscurità, la fame del mio cuore;
cerco di corromperti con l’incertezza,
il pericolo, la sconfitta.
Domenica 18 aprile 2021: III Domenica di Pasqua
Dal Vangelo secondo Luca: Lc 24, 35-48
In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

Mangiare
«“Avete qui qualche cosa da mangiare?”. Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro». Con questa esperienza apparentemente normale, Gesù risorto rassicura i discepoli sconvolti e stupiti. È proprio lui, come prima, ma non nello stesso modo. Continuità e novità: questa è l’esperienza pasquale. Sono ancora insieme, come l’ultima volta a cena, ma tutto è cambiato. Come se la croce fosse ad un tratto scomparsa, ma non è proprio così.
Ritrovarsi insieme a mangiare, anche per noi in questo tempo di paralisi relazionale, è diventato un ricordo lontano, in attesa di poterci di nuovo sedere a mensa con gli amici. Gesù ricomincia da questa semplice e originaria esperienza, che poi è il segno lasciato ai discepoli: mangiare insieme, farlo in suo ricordo, con Lui presente nei segni del pane e del vino. Comincia così una storia nuova: il futuro nasce dalla memoria.
Cosa significa per noi, riuniti qui intorno alla mensa dell’Eucaristia, condividere lo stesso cibo? Prima di tutto, non è una cosa primariamente individuale: siamo insieme ad altri che non abbiamo scelto, ma che sono convenuti perché invitati. Quel che conta in primo luogo, dunque, è con chi si mangia. Lo ricordava già Cicerone: «Il piacere dei banchetti non si deve misurare dalle squisitezze delle portate, ma dalla compagnia degli amici e dai loro discorsi».
Tuttavia, per noi c’è di più: Colui che ci ha invitati è l’Amico più importante, che non solo ci parla di sé e di noi, ma che vuole nutrirci con la sua persona. Questa è la sorgente dell’intimità, dà senso al nostro convenire. Senza di Lui saremmo solo un gruppo di comparse, dei nostalgici intristiti che commemorano tempi passati, ripiegati sulle proprie tristezze. Invece non è così, ma dobbiamo scoprirlo ogni volta nuovamente. Questo è il prodigio, qui avviene la sorpresa: Gesù si fa sentire tra noi, lo possiamo riconoscere, la sua voce ci raggiunge in profondità, il suo sguardo ci penetra con dolcezza.
Se i discepoli non avessero fatto questa esperienza, non avrebbero avuto la forza e il coraggio di annunciarlo, e noi oggi non saremmo ancora qui come duemila anni fa. «Ancora più che il pane, l’uomo desidera la compagnia», ripeteva santa Madre Teresa di Calcutta. Questa è la ragione del nostro stare insieme qui, per poi uscire pronti a condividere con i più poveri: essi hanno più bisogno di compagnia che di cibo.
È vero: ci manca la mensa in comune, e il ricordo ce la fa ripensare piena di sorrisi senza mascherine, di accese discussioni o di intensi colloqui. Non più però ripiegati ognuno sul proprio cellulare, avvolti da silenzi incomunicanti, come spesso capitava di fare. Auguriamoci di tornare presto a rivivere, senza pericolo, questi sogni. Abbiamo tutti davvero bisogno di serena leggerezza. Come diceva Oscar Wilde: «A tavola perdonerei chiunque. Anche i miei parenti».
Domenica 11 aprile 2021: Domenica della Divina Misericordia
Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 20,19-31
La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

«Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Con queste parole Gesù si rivolge a Tommaso. Ieri abbiamo meditato, nel Lessico, sul verbo “dubitare”. Oggi vogliamo riflettere sul verbo “toccare”. Questa è l’esperienza originaria di ciascuno di noi, il contatto fisico, ciò che ci manca soprattutto oggi, a causa di questa interminabile pandemia. Per noi cristiani, abituati come siamo a pensare che lo spirito conta più della carne, c’è una verità che dobbiamo riscoprire: Dio si è fatto carne per farsi toccare, per entrare in intimo contatto con noi, persino per farsi mangiare. Quella carne ricevuta da Maria, Gesù l’ha portata nel seno della Trinità, rimane nell’eternità di Dio e tra noi fino alla consumazione dei secoli.
Come ci ricorda papa Francesco: «Ci dice che Dio si è fatto fragilità per toccare da vicino le nostre fragilità. Dunque, dal momento che il Signore si è fatto carne, niente della nostra vita gli è estraneo. Non c’è nulla che Egli disdegni, tutto possiamo condividere con Lui, tutto. Caro fratello, cara sorella, Dio si è fatto carne per dirci, per dirti che ti ama proprio lì, che ci ama proprio lì, nelle nostre fragilità, nelle tue fragilità; proprio lì, dove noi ci vergogniamo di più, dove tu ti vergogni di più. È audace questo, è audace la decisione di Dio: si fece carne proprio lì dove noi tante volte ci vergogniamo; entra nella nostra vergogna, per farsi fratello nostro, per condividere la strada della vita» (Angelus, 3 gennaio 2021).
L’autentica fede cristiana esige fedeltà alla carne di Cristo, alle sue piaghe che restano impresse nell’umanità vulnerabile e ferita. Toccare, accarezzare e curare con tenerezza le piaghe di Gesù oggi significa compiere le opere di misericordia – su cui tutta l’umanità sarà giudicata (cf. Mt 25,31-46) –, che, per i credenti, manifestano un atto di fede nella presenza di Gesù nei fratelli più fragili.
Cosa facciamo noi con la nostra carne? E con quella dei nostri fratelli e delle nostre sorelle? La carne non è solo rivestimento, la pelle non è un abito: siamo noi, affacciati sul mondo, con la porta della nostra potente fragilità, che domanda attenzione, delicatezza, cura. Il contatto s’imprime nella memoria, lascia traccia nel cuore più di quanto non pensiamo, perché implica permesso, accesso, ingresso. Vuol dire offrire la mano e prendersi per mano, fare una carezza, prendere in braccio e abbracciare, toccare una spalla e prendere in spalla.
Oggi sono esperienze rimandate, di cui però custodiamo la memoria, con nostalgia: purtroppo, le nostre dita sfiorano più cellulari che volti; è come essere dietro un vetro, non puoi toccare niente di quello che vedi. Forse impareremo di nuovo l’importanza di toccare senza ferire, come si fa con le ali di una farfalla; di avvicinarci con attenzione e rispetto; di accarezzare col cuore prima che con le mani, perché se usiamo solo le mani non potremo mai toccare tutto. Questo è ciò che ci insegna Tommaso: Gesù invita l’apostolo incredulo a toccare, ma il vangelo non dice che lo ha fatto.
Abbiamo davvero bisogno d’imparare nuovi modi per entrare in contatto, per toccare la vita che non smette di pulsare potente. Come diceva Alda Merini: «Mi piace la gente che sa ascoltare il vento sulla propria pelle, sentire gli odori delle cose, catturarne l’anima. Quelli che hanno la carne a contatto con la carne del mondo. Perché lì c’è verità, lì c’è dolcezza, lì c’è sensibilità, lì c’è ancora amore». Preghiamo il Signore Risorto che ci doni la fantasia di nuovi tocchi dell’anima, perché nessun poveraccio si senta così solo da perdere la speranza di essere ancora umano.
Lunedì 5 aprile 2021: Lunedì dell’Angelo (da Casa Ilaria)
Vangelo di Matteo 28, 8-15
In quel tempo, abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli. Ed ecco, Gesù venne loro incontro e disse: «Salute a voi!». Ed esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono. Allora Gesù disse loro: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno».
Mentre esse erano in cammino, ecco, alcune guardie giunsero in città e annunciarono ai capi dei sacerdoti tutto quanto era accaduto. Questi allora si riunirono con gli anziani e, dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati, dicendo: «Dite così: “I suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo”. E se mai la cosa venisse all’orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione». Quelli presero il denaro e fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questo racconto si è divulgato fra i Giudei fino a oggi.
STUPORE
«Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli» (Matteo 28,8).
Lo stupore e la meraviglia sono emozioni forti, che emergono davanti a una sorpresa, di fronte a qualcosa di inatteso o di inimmaginabile che accade. In un tempo come il nostro, preoccupato di prevedere tutto o di cercare forzatamente qualcosa che stupisce, come può ritrovare il suo giusto e naturale senso lo stupore?
Trovarsi di fronte a qualcosa di inatteso, davanti a una sorpresa, può suscitare reazioni diverse quali la paura, lo sbigottimento, la meraviglia, una gioia incontenibile, e molte altre non definibili con una parola. La notizia della morte di un amico genera certamente sconcerto e profondo dolore. Il risultato inaspettatamente positivo di un test di gravidanza è motivo di grande gioia, per due persone che si amano e desiderano un figlio. Lo stesso vale per l’esperienza del ritrovamento di una cosa o di una persona smarrita, che si credeva ormai perduta per sempre. Si tratta di eventi istantanei, che sprigionano moti istintivi, non ragionati; emerge in un momento qualcosa che affonda nell’intimo delle proprie aspettative, delle speranze e dei timori più reconditi. A un tratto, ecco l’accadimento: qualcosa di nuovo che stupisce, meraviglia, incanta.
In verità, ovunque si racconta l’incontro tra Dio e l’uomo, avvenuto in luoghi e momenti storici, viene in luce questa dimensione stupefacente, sprigionata come effetto dai mirabilia e magnalia Dei (le mirabili e grandi opere di Dio). Dio è capace di sorprendere anche con il suo nascondimento, persino nel suo silenzio o apparente assenza. Ne potrebbe dare testimonianza la storia di Giobbe e ancor più il centurione romano che da sotto la croce, al veder morire Gesù in quel modo, esclama: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!». Dunque, lo stupore appartiene intimamente alla relazione tra Dio e l’uomo, quando il contatto raggiunge forme imprevedibili da parte umana. L’evento della Risurrezione celebra questo incontro imprevedibile tra l’amore di Dio e la piccolezza umana.
«Dal sepolcro la vita è deflagrata.
La morte ha perduto il duro agone.
Comincia un’era nuova: l’uomo riconciliato nella nuova
alleanza sancita dal tuo sangue
ha dinanzi a sé la via.
Difficile tenersi in quel cammino.
La porta del tuo regno è stretta.
Ora sì, o Redentore, che abbiamo bisogno del tuo aiuto,
ora sì che invochiamo il tuo soccorso,
tu, guida e presidio, non ce lo negare.
L’offesa del mondo è stata immane.
Infinitamente più grande è stato il tuo amore.
Noi con amore ti chiediamo amore.
Amen».
(Mario Luzi, Via Crucis al Colosseo, 1999)
Domenica 4 aprile 2021: Resurrezione del Signore
Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 20,1-9
Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. Infatti, non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

È curioso questo racconto della corsa dei due discepoli, di Pietro e l’altro discepolo al Sepolcro, perché si conclude con questa espressione, il quarto evangelista dice: “e vide e credette”. A che cosa credette? Non hanno visto Gesù, hanno però visto degli indizi. Io ieri ho mandato sul Lessico questa riflessione sugli “indizi”. Oggi voglio riflettere su un’altra parola collegata, perché indizi sono i segni che rimandano a qualcos’altro; sulla parola che indica il nostro modo di porci di fronte agli indizi: l’intuizione. Perché la fede che oggi ci porta qui, dopo 2000 anni, a credere è basata su una intuizione. Noi non abbiamo visto Gesù, però intuiamo, percepiamo, avvertiamo da dei segni che Egli è presente; e i segni che ci ha lasciato sono il pane, il vino – il suo Corpo e il suo Sangue – e i poveri. Questi sono segni della sua presenza in mezzo a noi. Ma allora la fede come fa a basarsi su una certezza? Qual è la certezza che noi abbiamo? Noi siamo qui a pregare, a cercare di riflettere, ma come facciamo a essere sicuri? Ecco, la fede è fatta di una certezza diversa da quella della matematica, della fisica, della scienza.
Ci sono certezze interiori nate da un’intuizione superiore a qualunque dimostrazione, e questo avviene nella fede, ma anche nell’amore. Come abbiamo certezza che la persona che amiamo ci ama? Infatti, siamo continuamente alla ricerca di prove di amore. Vuol dire che c’è una percezione, un’intuizione, un fidarsi, un affidarsi. Come fa un genitore ad esser certo dell’amore dei suoi figli? È più facile per i figli essere certi dell’amore dei genitori, ma anche qui… tralascio la questione di relazione uomo-donna.
Diceva Blaise Pascal: «Ci sono due tipi di mente… quella matematica, e quella che viene chiamata l’intuitiva. La prima arriva alle sue vedute lentamente, ma sono ferme e rigide; la seconda è dotata di grande flessibilità e applica se stessa simultaneamente alle diverse parti apprezzabili di ciò che essa ama».
Questo cosa vuol dire? Che nella fede come nell’amore, grazie a Dio, siamo insicuri, e questa incertezza è ciò che ci permette di esporci, altrimenti calcoleremmo, ma allora non si chiama più fede, si chiama dimostrazione, non si chiama più amore, si chiama contratto, accordo, convenzione. Anche Albert Einstein diceva qualcosa di simile: «La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un fedele servo. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono».
Ecco perché noi nel credere a Gesù risorto facciamo un po’ come questi discepoli, facciamo una corsa, arriviamo qui e cosa troviamo? Vedete, la liturgia pasquale parla attraverso una serie di simboli: la luce, l’acqua, le uova; segnali indicativi. Noi alla simbologia nella liturgia siamo abituati da sempre, ma tutto questo rimanda ad una seconda eucarestia, a quello che c’è fuori. Quindi il problema è collegare i segni del pane e del vino con la realtà che viviamo: il simbolo di Cristo risorto, la luce, con le tenebre che ci impauriscono. Tutto questo appartiene alla nostra realtà interiore, ma appartiene anche alla realtà sociale nella quale viviamo, e viviamo nel chiaro-scuro, nella penombra. La luce e le tenebre, l’acqua che purifica e l’arsura, la sete, l’aridità, il cuore inaridito. Pasqua vuol dire questo passaggio: passare dalle tenebre alla luce, dall’aridità alla fecondità, dal calcolo al dono.
Voglio rileggere questa poesia di Alda Merini, perché è molto bella, e pensando a questi teli posati e al sudario mi è venuto in mente un grembiule. Sentite cosa scrive Alda Merini:
«Mia madre invece aveva un vecchio grembiule
per la festa e il lavoro,
a lui si consolava vivendo.
In quel grembiule noi trovammo ristoro
fu dato agli straccivendoli
dopo la morte, ma un barbone
riconoscendone la maternità
ne fece un molle cuscino
per le sue esequie vive».
Domenica 28 marzo 2021: Domenica delle Palme. Anno B
Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Marco: Mc 14, 1 – 15, 47

L’ascolto della Passione non richiede di essere commentato; soltanto, facciamo un momento di silenzio.
Mi permetto soltanto di riprendere le parole di un antico autore cristiano che ci aiuta a mette l’attenzione sul senso di questo evento, che è un evento doloroso, ma riempito d’amore.
Scrive Origene, nelle Omelie su Ezechiele:
«Farò un esempio tratto dalla nostra vita, poi se lo Spirito Santo me lo concederà, passerò a parlare di Gesù Cristo e di Dio Padre. Quando mi rivolgo a uno e lo supplico d’un favore, che abbia compassione di me, se è privo di pietà non lo tocca nessuna delle parole che gli dico; se invece è di animo sensibile e non ha alcuna durezza di cuore, mi presta ascolto, prova compassione per me e si dispiega dinanzi alle mie preghiere un’interiore tenerezza. Riguardo al Salvatore, fai conto che accada la stessa cosa. Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore. Persino il Padre, il Dio dell’universo, “pietoso e clemente” e di gran benignità, non soffre anche lui in certo qual modo? Non sai che quando governa le cose umane, condivide le sofferenze degli uomini? Infatti “il Signore tuo Dio ha sopportato i tuoi costumi, come un uomo sopporta quelli di suo figlio” (Dt 1,31). Quindi Dio prende i nostri costumi, come il Figlio di Dio porta le nostre sofferenze. Nemmeno il Padre è impassibile. Se lo preghiamo, prova pietà e misericordia, soffre di amore e s’immedesima nei sentimenti che non potrebbe avere, data la grandezza della sua natura, e per causa nostra sopporta i dolori degli uomini» .
Origene, Omelie su Ezechiele VI, 6, Città Nuova, Roma 1987, 119
Domenica 21 marzo 2021: V Domenica di Quaresima. Anno B
Vangelo: Gv 12, 20-33
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

Partendo da questo brano evangelico, nel Lessico di ieri ho messo in evidenza il verbo “servire”. Oggi prendo la parola “donare”, che esprime la modalità del servizio, perché significa regalare, non prestare. A volte servire corrisponde a investire, fare qualcosa in attesa del suo effetto, magari del contraccambio, e non c’è nulla di male. Donare, invece, vuol dire lasciar andare, senza controllare dove e come va a finire il regalo. È qualcosa che assomiglia al perdere, a non vedere il destino del dono fatto, che in qualche misura scompare. Noi tutti conosciamo l’imbarazzo che si prova quando si regala un libro: chi lo riceve non sappiamo se lo leggerà; non conviene mai, infatti, domandarglielo. Come pure quando si dona un’altra cosa, è difficile verificare se è stata custodita o dimenticata, smarrita, svalutata.
Donare senza attendere di conoscere il risultato può sembrare disinteresse, persino superficialità, e invece è proprio ciò che Dio fa con noi: ci consegna ciò che ha di più caro, il suo Figlio Gesù, mettendolo nelle fragili mani dell’umanità. Questo si chiama amore senza riserve, senza residui, perché quando gli uomini hanno sepolto il chicco caduto in terra, non sapevano che era un seme, e che sarebbe germogliato, risorto a vita nuova. Il Vangelo di oggi ci racconta proprio questo, ed è Gesù stesso che lo dice: Egli sa che il dono di sé può essere rifiutato, sciupato, sprecato, ma non per questo rinuncia a regalarci la sua vita. Lui solo sa se, come e quando porterà frutto. Questa è la sua parte nell’amore. Ed è l’unico modo che non decide chi merita e chi non merita di essere amato, perché vuol raggiungere davvero tutti, senza discriminazione. Ma soprattutto genera libertà in chi sceglie di rispondere.
E noi, che possiamo fare? Accoglierlo, con la consapevolezza che se sprechiamo l’amore ricevuto perdiamo l’occasione per rinascere, per vivere in modo nuovo, liberi dalla logica del profitto, dell’interesse, del contraccambio. Chi si accorge di essere amato gratuitamente risponde con eccesso, senza misura, al di là del calcolo. Questa è l’opportunità che ci è offerta: donare più di ciò che abbiamo. Diceva Madre Teresa di Calcutta: «Quanto meno abbiamo, più diamo. Sembra assurdo, però questa è la logica dell’amore». Ciò significa dare più di quello che possiamo, e prendere meno di ciò di cui abbiamo bisogno, senza aspettare che ci venga chiesto. Ce lo ricordava già Dante nella sua Commedia: «ché quale aspetta prego e l’uopo vede, / malignamente già si mette al nego», chi vede il bisogno e aspetta di essere pregato, si prepara malignamente a negare il suo aiuto (Purgatorio, XVII, 59-60).
Merita allora ascoltare il suggerimento di un altro grande poeta, Alessandro Manzoni:
«Occupati dei guai, dei problemi
del tuo prossimo.
renditi a cuore gli affanni,
le esigenze di chi ti sta vicino.
Regala agli altri la luce che non hai,
la forza che non possiedi,
la speranza che senti vacillare in te,
la fiducia di cui sei privo.
Illuminali dal tuo buio.
Arricchiscili con la tua povertà.
Regala un sorriso
quando tu hai voglia di piangere.
Produci serenità
dalla tempesta che hai dentro.
“Ecco, quello che non ho te lo dono”.
Questo è il tuo paradosso.
Ti accorgerai che la gioia
a poco a poco entrerà in te,
invaderà il tuo essere,
diventerà veramente tua nella misura
in cui l’avrai regalata agli altri».
Domenica 14 marzo 2021: IV Domenica di Quaresima. Anno B
Nel 14esimo anniversario della morte di Sr Ilaria
Parrocchia del Sacro Cuore – Pontedera, 14 marzo 2021
Cari amici e care amiche,
sono trascorsi quattordici anni dal giorno in cui, stravolti e increduli, abbiamo vissuto la tragica scomparsa di Ilaria. Per coloro che l’hanno amata davvero non è passato nemmeno un minuto, e sono certo che sono tanti qui. Alla grande desolazione che in quel momento invase l’animo, nel tempo, è seguita la consolazione: il dono di Ilaria, raccolto dal Signore in terra d’Africa, ci viene restituito pian piano, soprattutto nell’ora in cui siamo tentati di farci prendere dallo sconforto a causa dalla pandemia. «Non lasciatevi rubare la speranza», ripete più volte papa Francesco, e sono certo che Ilaria adesso lotta con noi per vincere la paura di soccombere al virus. Lo avrebbe fatto da medico, lo sta facendo anche adesso. Per vivere questo atto d’amore nei suoi confronti, prenderò tre parole – speranza, memoria, coraggio – che credo possano aiutarci a riflettere, a pregare e a vivere meglio nella fede e nell’amore.
Un primo pensiero che desidero condividere con voi è sulla speranza. Stiamo percorrendo il cammino quaresimale che ci condurrà a Pasqua, alla celebrazione di Gesù morto e risorto per tutti. Il Vangelo di oggi dice: «bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo». Vuol dire che senza alzare lo sguardo verso il Crocifisso-Risorto non riusciremo a trovare la forza per reagire alle difficoltà che incontriamo, perché ci sentiamo soli e abbandonati. Invece, Gesù è salito in alto – prima sulla croce e poi in cielo – per attirarci a sé: nel momento del dolore, per ricordarci che sa cosa stiamo provando, ed è vicino a noi; nel momento della gioia, perché Lui ne è la sorgente, e ce ne fa dono. Ilaria è salita su quella croce, ma da lì è andata più in alto, incontro al Padre, finalmente nella pace. Noi siamo ancora in mezzo alle tribolazioni, e allora non ci resta che chiedere al Signore – e al cuore di Ilaria, che batte ormai insieme al Suo – di sostenerci nella speranza.
Un secondo pensiero è sulla memoria. Tante persone che si sono avvicinate all’ospedale di Bossemptélé, in Repubblica Centrafricana – grazie specialmente al costante impegno di Simona, la sorella di Ilaria, che ringrazio di cuore – non l’hanno conosciuta, come pure i moltissimi amici del progetto di Casa Ilaria, dedicati generosamente alle persone con disabilità e svantaggiati sociali del nostro territorio. A tutti voglio ricordare che sono a disposizione ancora diverse copie dei suoi scritti, che potranno aiutare a conoscere il suo cuore, la sua breve e intensa vita, soprattutto interiore. Adesso c’è bisogno di custodirne la memoria, soprattutto da parte di coloro che ne hanno condiviso gli anni giovanili, le esperienze, la gioia di vivere che trasmetteva a tutti. A questo riguardo, desidero esprimere la mia viva riconoscenza a Laura, presidente della Fondazione Casa Ilaria, che il 10 marzo ha condiviso sui social un video con molte immagini, la mia omelia per i funerali, con la musica originale che Dario Marianelli, premio Oscar per la miglior colonna sonora (2008), ha composto per noi. La mia speranza è che molte persone possano conoscere meglio la vita e le opere di Ilaria, perché il suo dono venga accolto e condiviso. Insieme a Gesù, anche lei è un seme che non è rimasto solo, e porta frutto in mezzo a noi. Anche per questo a Casa Ilaria stiamo continuando a seminare, a raccogliere e a condividere i frutti della terra, insieme alle persone più fragili e grazie ai numerosi acquirenti, che ci auguriamo crescano sempre più.
Un terzo pensiero è sul coraggio. Ne abbiamo particolare bisogno, specialmente nel momento che stiamo attraversando, in cui la tentazione più forte è di rassegnarci all’isolamento, lasciandoci pervadere da un senso d’incolmabile solitudine, senza vedere la luce in fondo al tunnel. Invece proprio Gesù, nel Vangelo di oggi, ci avvisa: «chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio». Per cercare la verità ci vuole coraggio, le opere per cui ci impegniamo richiedono leale distacco da noi stessi, da interessi personali, da smania di protagonismo. Ilaria ce lo ha insegnato andandosi a nascondere in Africa, spendendo giorni e notti nella cura degli ammalati e dei più poveri del mondo, dinanzi al solo sguardo di Dio. C’è urgente bisogno di riprendere a lavorare insieme, sapendo che le cose migliori si fanno con semplicità e condivisione, attenti a chi abbiamo vicino, dietro e davanti a noi.
Nel suo Diario, il 3 novembre 1993, Ilaria scriveva: «Guardo dentro di me alla ricerca di un coraggio che non ho: non può che derivare da te perché tu sei la mia forza, lo sei stato, lo sarai» (Accetto tutto, p. 28). E il 27 aprile 1997, a Grazia e Lorenzo scriveva di Fabio, il loro figlio disabile da poco tornato al Signore: «Mi aveva insegnato che nessun uomo può essere autosufficiente: tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri… riconoscerlo richiede umiltà e il coraggio di essere vulnerabili» (Ibidem, p. 318).
Care amiche e cari amici, ricordare Ilaria significa attingere ancora a quel sovrappiù di amore che ha lasciato dietro di sé, e oggi ci nutre e ci sostiene. Varrebbe a poco ritrovarci guardando indietro senza la spinta ad andare avanti, con maggior slancio, sicuri che anche dalle ferite più dolorose – come la sua scomparsa dal nostro orizzonte terreno – venga una forza che solo chi si riconosce debole sa domandare e attendere con fiducia. Ilaria ci fa compagnia, sta con noi, ci tiene per mano, dolcemente.
Abbiamo bisogno di rinsaldare vincoli di fraternità, per nutrire una visione comune dove c’è posto per ciascuna e per ciascuno, senza giudizio, con uno sguardo benevolo. Sono certo che ci sono persone tra noi che sentono Ilaria vicina, nei momenti di prova le chiedono aiuto, perché lei glielo ha dato qui e non lo farà mancare di lassù. Se sapremo sollevare lo sguardo insieme, e non da soli, troveremo la consolazione, si potrà dischiudere innanzi un orizzonte nuovo, pieno di speranza, di memoria e di coraggio.
Grazie a tutti coloro che oggi sono qui, cominciando da don Angelo, che ha voluto gentilmente concedermi la parola: so quanto affetto e nostalgia portiamo tutti nel cuore. Un grazie particolare a Sr Elisabeth – era in auto con Ilaria il giorno dell’incidente – che ha inviato la sua memoria struggente, non potendo essere qui di persona a causa degli spostamenti impediti: le siamo riconoscenti per averla accompagnata nell’ultimo tratto di strada verso il cielo.
A voi tutti il più caro augurio di buona Pasqua. Il Signore si fa incontro a noi nella vulnerabilità, per donarci il coraggio di abbracciarlo nei più poveri, per i quali Ilaria ha speso la vita. Come scriveva Paul Ricoeur: «La speranza viene a noi vestita di stracci perché le confezioniamo un abito di festa».
don Maurizio
Domenica 7 marzo 2021: III Domenica di Quaresima. Anno B
Dal Vangelo secondo Giovanni: Gv 2, 13-25
Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

È un gesto forte quello che oggi Gesù compie nel tempio di Gerusalemme, potremmo leggere questo episodio sotto vari punti di vista. Già ieri nel Lessico – che potete trovare sul sito – ho messo in evidenza la parola indignazione; indignazione vuol dire quel forte risentimento che nasce di fronte ad una situazione ingiusta, inadeguata. Oggi voglio riflettere su un’altra parola: gratuità, perché il segno che Gesù compie ha un significato interessante. Non è tanto contro la legge, che prevedeva le offerte da fare al tempio: i buoi, le pecore e tutto ciò che è legittimo, ma che corrisponde all’idea di ingraziarsi Dio. Io faccio delle opere buone e Dio mi benedice. È una visione comune nell’Antico Testamento, nel giudaismo. Osservare la legge significa compiere certi gesti per ottenere qualcosa da Dio. Gesù rovescia questo banco, rovescia il contratto, rovescia l’accordo; non è l’uomo che ottiene qualcosa da Dio: È Dio che dona qualcosa all’uomo. Ed è per questa ragione che parla non del tempio, ma del suo corpo. Questo è il dono che Dio fa. Non si tratta di essere a posto con Dio nel darGli qualcosa, è Dio che ci mette a posto con Lui donandoci sé stesso: questa è la sostanza del discorso.
Allora, la gratuità. Parole e sguardi che donano amore senza chiedere niente in cambio. Questo è il Vangelo, perché questo ci fa domandare “perché” di fronte ad un dono che Dio ci fa: immeritato, immotivato, a peccatori quali siamo noi. A noi continua ad offrire suo Figlio. Sorge la domanda: “perché mi vuoi bene?”. Noi siamo malati di un virus che è il merito. Pensiamo che dobbiamo meritarci l’amore, ma l’amore non si merita, all’amore abbiamo diritto tutti, ed è ciò a cui aspiriamo profondamente. Essere amati per ciò che siamo, non per ciò che facciamo. Non si è amati perché facciamo il bene e puniti perché facciamo il male; si è amati perché siamo figli. E questa è la gratuità di Dio. Questa è una cosa diversa dall’aspettativa che giustamente noi tutti abbiamo del riconoscimento per ciò che siamo. Abbiamo un valore che non dipende dalle azioni che compiamo: questa si chiama dignità. Dignità vuol dire essere degni, ma degni non si è perché si fa qualcosa per esserlo.
Dice Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti: «la dignità che non si fonda sulle circostanze, bensì sul valore del suo essere» (n. 107), non perde la dignità neppure il peggior criminale (n. 269). È per questa ragione che la Chiesa finalmente ha cambiato un punto del Catechismo in cui si ammetteva la pena di morte. Anche il peggior criminale non perde la dignità di essere una persona e questo è un concetto forte. Non uccidere ha un valore assoluto, non relativo, la dignità!
Allora, con questa idea della gratuità, vorrei che noi riflettessimo anche sul tempo che viviamo. Un tempo tenebroso, difficile. Ci apprestiamo ad un marzo, speriamo non come quello dell’anno scorso.
In giorni come questi, spesso
la tetraggine m’assale
e il vivere d’ora in ora
mi tortura. Ma arrivi tu
che sconfiggi la noia
coi tuoi discorsi variopinti.
Anche oggi cercheremo una breccia.
Una parola che ci possa salvare
e che ci tenga in bilico
sul confine ideale tra realtà
e fantasia potrà, anche
se per poco, cangiare l’esistenza.
Questa è una luce che si accende nel pensiero pessimista di Eugenio Montale, nel suo Diario Postumo. Non brillava Montale per ottimismo, però si accende una luce, c’è una speranza e questa noi cristiani sappiamo che ha un nome, ed è la persona di Gesù. Quindi, come rispondere alla gratuità? Si risponde con uno sguardo d’amore verso gli altri. Se abbiamo ricevuto un amore gratuito, dobbiamo restituirlo. E non lo restituiamo a Dio senza passare attraverso gli altri. La fantastica invenzione che ha avuto Dio nel crearci e nel mantenere la sua invisibilità sta proprio in questo: nel chiederci di restituirgli attraverso i fratelli il dono che Lui ci ha fatto.
Se tu mi guardi con i tuoi occhi
dai quali mi viene incontro la tenerezza
e se io guardandoti con i miei occhi
ti faccio spazio dentro di me,
in questo incrocio di sguardi
che riassume milioni di attimi e di parole,
in questo scambio silenzioso
che per entrambi è guardare e lasciarsi guardare,
in questo penetrare l’uno nell’altro
nel tempo con benevolenza,
ci è dato tessere la reciprocità di questo amore
e forse la gratuità.
Pablo Neruda
Domenica 28 febbraio 2021: II Domenica di Quaresima. Anno B
Vangelo: Mc 9,2-10
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

Questa scena della Trasfigurazione è un regalo che Gesù fa ai suoi discepoli prima della Passione, è un anticipo: Egli cerca di far vedere loro quale luce si accenderà dopo le tenebre della sua morte. E quindi porta sul Monte Tabor proprio questi tre, che poi si addormenteranno nell’Orto degli ulivi: Pietro, Giacomo e Giovanni. Lì cambia d’aspetto: c’è un cambiamento, “metamorfosi” in greco, trasfigurazione. Ieri, sul Lessico, ho riflettuto su questa parola “cambiamento”, oggi prendo un’altra parola: coraggio. Perché questo episodio fa sì che i discepoli, in qualche modo, anche se inconsapevolmente, trovino il coraggio di riprendersi dopo un momento tragico. Fuggiranno, Gesù sarà crocifisso, ci sarà buio su tutta la terra, e allora sarà necessario il coraggio.
Come trovare negli archivi della nostra anima le tracce della luce? Dove appoggiare il cuore nella memoria del sole quando si brancola nel buio? Tutti attraversiamo momenti difficili, specialmente in questo periodo siamo tutti presi dalla paura, e allora come riflettere sul coraggio? Voi sapete che qui in San Sepolcro cerchiamo di mettere insieme la fede, la cultura e la carità, quindi anche per questo prendo parole dai personaggi più diversi, che non sempre sono quelli più religiosi.
“Il successo non è mai definitivo, il fallimento non è mai fatale, è il coraggio di continuare che conta”. Questo lo diceva Sir Winston Churchill, uno che ha chiesto lacrime e sangue al suo popolo nel momento tragico della guerra, e diceva ancora: “Il coraggio è quello che ci vuole per alzarsi e parlare, il coraggio è anche quello che ci vuole per sedersi e ascoltare”.
Bisogna che il cuore vada al di là, faccia un passo in più, e cos’è che spinge il cuore a vincere la paura? Perché la paura è un sentimento che giustamente tutti proviamo, che ci paralizza. Però, oltre alla paura c’è anche la spinta ad andare oltre, a superarla. Sono due impulsi che si combattono dentro di noi. Chi è cosciente di aver paura sente anche il desiderio di poterla vincere, pensa di non farcela, e per chi crede qui c’è il dono di Dio, c’è la sua Grazia. Perché se la paura diventa preghiera, supplica, ci affidiamo a Colui che può spingerci oltre. Ma anche senza la fede, senza essere credenti, c’è qualcosa che ci spinge oltre la paura: è l’amore, che trasforma l’incertezza nel coraggio. Il cuore permette di fare passi in avanti, quelli che la ragione frena.
Come scriveva Oscar Wilde: “Io non voglio cancellare il mio passato, perché nel bene o nel male mi ha reso quello che sono oggi. Anzi ringrazio chi mi ha fatto scoprire l’amore e il dolore, chi mi ha amato e usato, chi mi ha detto ti voglio bene credendoci e chi invece lo ha fatto solo per i suoi sporchi comodi. Io ringrazio me stesso per aver trovato sempre la forza di rialzarmi e andare avanti, sempre”.
Vedete: nella sapienza delle diverse culture, delle situazioni, c’è un pensiero che nutre la speranza nel momento della difficoltà.
“È difficile fare le cose difficili, parlare al sordo, mostrare la rosa al cieco. Bambini, imparate a fare le cose difficili. Dare la mano al cieco, cantare per il sordo, liberare gli schiavi che si credono liberi”. (Gianni Rodari, Lettera ai bambini).
Domenica 21 febbraio 2021: I Domenica di Quaresima. Anno B
Vangelo: Mc 1, 12-15
In quel tempo, lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano. Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

Avrete notato tutti la brevità del racconto di Marco. Conosciamo le tentazioni di Gesù nel deserto: “trasforma le pietre in pane, buttati dal pinnacolo del tempio, domina il mondo”. Marco non ce le racconta, è più sintetico: lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni. Oggi voglio parlare della solitudine e del deserto. Questo è un aggettivo – deriva da un participio passato, vuol dire abbandonato – che è diventato un sostantivo: è quel luogo lì il deserto. Questa esperienza di Gesù, che vi è sospinto dallo Spirito – quindi non c’è andato volontariamente, qualcuno ce l’ha mandato – e il fatto che vi sia rimasto, ci fa pensare ai deserti che tutti tentiamo di fuggire: i deserti interiori, le desertificazioni che avvengono nelle relazioni.
A pensarci bene, anche noi viviamo un po’ tra eremo e città, tra compagnia e solitudine. C’è una solitudine positiva, quella che scegliamo quando rientriamo dentro di noi. Penso a La salita al Monte Ventoso di Petrarca, ma anche ad Agostino: “ti cercavo fuori di me, invece eri dentro di me”, in interiore hominis; la ricerca di un centro di gravità permanente, avrebbe detto Battiato. Abbiamo tutti bisogno di trovare qualche punto stabile. Ma nel deserto non conviene rimanere fermi, nel deserto bisogna camminare: di giorno il sole è rovente, la notte è gelida. È una metafora, che però ci fa pensare a come abitare anche i momenti di desolazione, in cui non c’è il sole, incui siamo assolati, desolati e in qualche modo raffreddati dentro.
“Gesù stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano”, dice il vangelo. Senza scomodare la psichiatria, la psicanalisi, le psicoterapie, ci chiediamo: quanti fantasmi, quanti incubi, quante paure, quanti terrori assalgono chi nella notte non riesce a dormire? E anche il giorno è popolato di fantasmi, che a volte sono gli altri, che diventano figure fisiche, non solo mentali. Ci sono solitudini che si scelgono, perché non si riesce a sopportare la vita comunitaria, perché è impegnativa, perché il confronto con l’altro è una sfida che ci chiede di uscire da noi stessi e ci inquieta, ci provoca, ci turba, ci sfida. Anche Gesù sperimenta queste tentazioni, e le tentazioni vengono quando ci si trova da soli, perché nel pensiero, nei labirinti della mente sorgono giudizi, decisioni buone e anche cattive.
Dio abita i deserti, Gesù va ad abitare un deserto. È il segno che Dio vuole entrare nei nostri deserti, nelle nostre solitudini, ma in punta di piedi. Dio non è un invadente, nessuno lo vede. Siamo qui a raccontarlo da 2000 anni, ma con la povertà dei segni: un po’ di pane, un po’ di vino, l’acqua, l’olio, i sacramenti. Siamo stati rigenerati col Battesimo, nutriti dall’Eucarestia, purificati con la Riconciliazione. Segni che partono dalla nostra esperienza quotidiana e ci dicono che Dio percorre i nostri sentieri, le nostre strade, ci viene a cercare dove siamo. Credo che questo basti a farci capire anche il tempo che viviamo, fatto di profondi deserti, di solitudini imposte, mal accolte, di tormenti della mente e del cuore. Eppure proprio il Signore ci raccoglie e ci salva.
Vorrei leggervi un piccolo brano, che poi magari alcuni hanno già letto nel Lessico che ho mandato ieri, ma merita ascoltarlo di nuovo:
“«È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità».
Come faceva a scrivere questo nel suo Diario Anna Frank? Vuol dire che qualche luce si accende nelle tenebre, anche nelle più oscure di una ragazzina di cui sappiamo il destino.
Solo
Da bambino non ero come gli altri,
non vedevo come gli altri vedevano,
né le mie passioni scaturivano
da una fonte comune, e le mie pene
non avevano la stessa sorgente.
Il mio cuore, poi, non si destava
alla gioia in armonia con gli altri.
Io, tutto ciò che amai, l’amai da solo.
Allora, nell’infanzia, nell’aurora
d’una vita tempestosa, trassi
il mistero che ancora m’imprigiona
da ogni abisso del bene e del male,
e dal torrente o dalla sorgente,
dalla roccia rossa della montagna,
dal sole che tutto m’avvolgeva
nel suo autunno colorato d’oro,
dal fulmine del cielo che improvviso
mi sfiorava, scoppiava accanto a me,
dal tuono, dalla furia della pioggia,
e dalla nube che prendeva forma
di un dèmone ai miei occhi,
mentre il resto del cielo era sereno.
Edgar Allan Poe
Abbiamo bisogno di compagnia, e il Signore viene ad accompagnare le nostre solitudini e i nostri deserti, ci chiede di farci compagni di strada di chi incontriamo, che probabilmente vive più solitudini di quelle che noi non vediamo.
Domenica 14 febbraio 2021: VI Domenica del tempo ordinario. Anno B
Mc 1, 40-45
In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

Oggi abbiamo davanti questa figura del lebbroso, dei lebbrosi, ed è interessante che a Gesù venga chiesto di essere purificati, non soltanto guariti. Ora, la parola purificazione oggi per noi ha anche un collegamento con questa ossessione che abbiamo di sanificare: dobbiamo sanificare tutto, mani, oggetti, ambienti. Questo bisogno di purificazione appartiene a tutte le culture, a tutte le religioni; è l’idea di passare da una condizione che non ci piace ad una migliore.
Abbiamo bisogno anche di purificare la nostra memoria. Voi oggi siete qui in molti come amici di Sandro. La memoria si custodisce, ma al tempo stesso si purifica, nel tempo diventa sempre più chiaro ciò che conta: tenere nel cuore una persona, l’amicizia, l’affetto, le cose buone ricevute, le cose buone donate. È una memoria che si purifica anche da quel risentimento che inizialmente è normale avere, anche nei confronti di Dio, perché perdere una persona cara significa domandare al Signore perché? Quindi è un processo lento, faticoso che non è tutto dipendente dai nostri ragionamenti, ma è un dono, un regalo di Dio. Se ci pacifichiamo, se arriviamo ad accettare, è un modo per fare pace anche con noi stessi, con questa rabbia, con questa ingiustizia. D’altra parte, è vero che la vita ci è affidata, ci è regalata e vediamo quanto è fragile e quanto siamo responsabili oggi anche di custodire la vita degli altri.
Ma proseguiamo un po’ sulla riflessione che ci suscita questo brano. Per gli antichi, per Israele, per tante culture, la malattia è collegata in un certo senso al male morale. Purtroppo, questa è un’idea che sopravvive anche oggi: chi è causa del suo male pianga sé stesso. O è colpa tua, o vieni punito per qualcosa. Non è così. Abbiamo l’idea che al male fisico sia collegato il male morale. Se quello si ritrova in quella situazione, se è un disgraziato o un poveraccio, vedrai che se lo merita. Questa idea della retribuzione, che chi sta bene è merito suo e chi sta male è colpa sua, va superata. Gesù ci aiuta a superarla.
Nei tempi antichi l’idea di purificazione si chiamava “catarsi”. I greci andavano a teatro, silenziosi e assorti guardavano gli attori nascosti dalle maschere per recitare Eschilo, Sofocle, Euripide: la tragedia greca. I miti degli eroi e le loro tragiche vicende, che erano espresse con frasi lapidarie, s’imprimevano negli spettatori e in essi avveniva come un processo di purificazione. Cioè: vedevano una scena di amore, di odio, di vendetta, di senso di colpa o di altri turbamenti dell’anima e questo causava nello spettatore, virtualmente, un turbamento; faceva rivivere nello spettatore un bisogno di superamento: causava la pietà, la compassione, la paura; dissuadeva dal percorrere la stessa strada dei personaggi visti nella tragedia. E quindi lo spettatore reagiva, non tanto all’eccesso dell’emozione, ma a quell’armonia che avveniva alla fine della tragedia, dove i vari elementi contrastanti si ricomponevano in una unità superiore.
Questo era il modo degli antichi. Nei filosofi pitagorici, la catarsi, la purificazione avveniva con la musica: ascoltare la musica provocava un senso di liberazione, di pace. Per Benedetto Croce, invece, la purificazione era il momento più alto della poesia. Ognuno cerca un modo, anche in questo tempo di pandemia, per trovare un equilibrio, per superare quel risentimento, quella depressione che si diffonde intorno a noi. Da giallo a arancione, poi rosso; cosa si può o non si può fare; da una limitazione all’altra! Come purificarci? Come liberarci da questa ossessione?
Per la visione cristiana non ci si libera da soli. Non ci si purifica da soli. È un dono, una grazia. Bisogna invocarla, bisogna saper chiedere aiuto, non si può fare tutto da soli. Abbiamo bisogno di contatti, telefonate, passeggiate, ma non da soli. Abbiamo bisogno degli altri. Si parla dei lebbrosi oggi, e Raoul Follereau, che era l’apostolo dei lebbrosi, dava un’indicazione al suo tempo che forse vale anche per noi oggi, a coloro che cercano un senso alla vita; perché in momenti come questi cerchiamo un senso: ci usciremo? Cosa faremo? L’anno prossimo? Quando?
Raoul Follereau diceva: «All’opera miei giovani amici! Mentre i Grandi preparano il suicidio dell’umanità o si divertono a giocare alle bocce nella stratosfera, la sconvolgente moltitudine dei Poveri si sforza di sopravvivere amandosi. È verso di loro che bisogna andare. È per loro che bisogna combattere. Sono loro che dobbiamo amare. Cercate uno scopo alla vostra vita? Mancano nel mondo tre milioni di medici: diventate medici. Più di un miliardo di esseri umani non sanno né leggere né scrivere: diventate insegnanti. Due uomini su tre non mangiano a sazietà: diventate seminatori e fate sorgere dalle terre incolte raccolti che li sazieranno».
Vedete, nei momenti più difficili bisogna costruire, non possiamo lasciare che si distrugga dentro di noi una speranza. Allora, pregare, ragionare, riflettere insieme oggi ci aiuta a ritrovare un senso di pienezza, di speranza, di vita.
Domenica 7 febbraio 2021: V Domenica del tempo ordinario. Anno B (da Casa Ilaria)
Mc 1,29-39
In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni. La suocera di Simone era a letto con la febbre e subito gli parlarono di lei. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano; la febbre la lasciò ed ella li serviva. Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni; ma non permetteva ai demòni di parlare, perché lo conoscevano. Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava. Ma Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero: «Tutti ti cercano!». Egli disse loro: «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo, infatti, sono venuto!». E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demòni.

Dicevamo all’inizio che la liturgia di questa domenica, la parola di Dio che abbiamo ascoltato, ci fa compiere un cammino: dalla sofferenza, dal dolore alla guarigione. Il libro di Giobbe, che abbiamo ascoltato come prima lettura, è di una tristezza, di un’angoscia sconcertanti: “l’uomo non compie forse un duro servizio sulla terra, i suoi giorni non sono come quelli di un mercenario?”.
C’è un’apertura verso la fine del brano: “ricordati che solo un soffio è la mia vita, il mio occhio non rivedrà più il bene”, insomma, un quadro un po’ angosciante. Ecco, si parte da qui, dalle nostre tristezze, dalle nostre angosce, dalle nostre paure e si compie un cammino, un cammino appunto alimentato dalla speranza. E perché si affacci questa speranza dentro di noi c’è bisogno di distogliere gli occhi da noi stessi. Il vero problema siamo noi stessi, quando lo sguardo su di noi ci incupisce, e quindi si trasferisce anche sugli altri, per cui non riusciamo a vedere con un po’ di speranza. Ci sono le nubi, tornerà il sole? Il sole tornerà, però bisogna guardare un po’ oltre, un po’ al di là. E allora oggi il brano del Vangelo ci indica la strada per passare da questa tristezza a una maggior serenità.
Gesù si sposta tra la normalità feriale e un costante altrove, abita tutti i luoghi, dove più forte pulsa la vita: il lavoro (le barche, le reti, il lago), le assemblee (la sinagoga, il tempio), i sentimenti e gli affetti (la casa di Simone in cui la suocera ha la febbre). C’è un’ironia nei Vangeli: Pietro ha lasciato la moglie, i figli, tutto, poi torna a casa e c’è la suocera ammalata; si alza, guarisce e si mette subito a servirli. Meno male, un buon segno di gratitudine. Però, per dire la quotidianità: non è un miracolo che ha un gran significato, ma ci dice il modo con il quale Gesù si accosta ai luoghi dei sentimenti, degli affetti: una casa, una persona con la febbre. E poi la malattia: quanti ammalati e quanti indemoniati vengono portati da Gesù dalla città? Tutti dietro a Lui. Certo c’è bisogno di segni, di guarigioni, di qualcosa che ci faccia sentire meglio. Ma Gesù abita tutti questi luoghi e al tempo stesso se ne va altrove, nel deserto a pregare, per conto suo. Ecco questo è il modo con il quale il Signore ci sta vicino: viene là dove siamo, sta con noi e ci chiama però a seguirlo, a spostarci.
Quindi non è solo spostare lo sguardo, ma anche spostare il nostro corpo. Oggi, vedete, siamo venuti qua. Perché ci spostiamo? Questa in un certo senso è una collina che sa anche di deserto, di luogo in cui ci si ritira; però subito accanto alla collina c’è la pianura, il luogo del lavoro dove i nostri ragazzi vengono tutti i giorni, anche con questo tempo così problematico. Sono lì a infangarsi i piedi, le mani, a raccogliere le verdure, quel poco che dà l’inverno. La collina e la pianura, alzare lo sguardo e poi abbassarlo: alzarlo per trovare fiducia e speranza, e abbassarlo per chinarsi sui più deboli, sui più fragili. Ce lo insegna anche questo sguardo sollevato in alto di Suor Ilaria. E ringrazio Annamaria che ha fatto questo ritratto, in cui c’è uno sguardo che si solleva, che va verso il cielo. Però a quel cielo si giunge passando tra la terra insanguinata, sofferente e dolorosa dell’Africa.
Ecco, questo è il nostro cammino: per guarire quello che è possibile guarire, soprattutto le ferite del cuore, bisogna spostare gli occhi in alto e in basso. Varrebbe a poco fuggire dalle difficoltà; le difficoltà si dimenticano quando si incontrano quelle degli altri, è l’unico modo per dare un senso alle sofferenze. Le sofferenze chiamano qualcuno a prendersi cura. Sarebbe un mondo egoista quello in cui tutti stessimo bene, con la salute: nessuno guarderebbe l’altro. Sarebbe un mondo tragico quello in cui tutti stessimo male, perché nessuno avrebbe la capacità di guardare l’altro, perché preso dal dolore di sé stesso. Quindi, questa mescolanza tra salute e malattia che si alternano anche nelle fasi diverse delle nostre vite, sono proprio una chiamata a prendersi cura. Allora oggi voglio concludere con un pensiero che Suor Ilaria scriveva nel suo diario il 25 settembre 2002:
«Questa sera mi sono commossa vedendo una malata che mangiava un pezzo di pane e beveva un po’ d’acqua: la sua cena per questa sera! E l’altro con la febbre che si stava sdraiando su una panchina di 30 cm di larghezza… e ogni sera un malato portato sulla barella e quasi in coma. Mi sento impotente di fronte alla maggior parte delle situazioni. Alcune migliorano… ma dovessi dire perché, sarei veramente in difficoltà! Se ora è così, non oso pensare come sarà quando non ci saremo più né io né Sabrina. Eppure non posso pensare di essere indispensabile per nessuno, nemmeno per questo pezzo d’Africa. […] Gesù dove sei? Cerco nuovamente il tuo volto, soprattutto nel volto di questi malati? So gioire delle loro guarigioni? Donami la gioia di servirti in questi poveri, malati, sofferenti!» (Accetto tutto, 25 settembre 2002, p.185).
Domenica 31 gennaio 2021: IV Domenica del tempo ordinario. Anno B
Mc 1,21-28 In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao] insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli, infatti, insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi. Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.

In questa pagina del Vangelo ritornano più volte il verbo insegnare e il sostantivo insegnamento.
Gesù insegna. Insegnare è una parola antica, che oggi ha anche un qualche sapore paternalistico. Poi c’è la scuola che attraversa una certa difficoltà. Oggi si preferisce parlare di informazione. È più autonomo. Uno si informa. L’informazione è auto didattica. Poi non è così, perché veniamo riempiti e bombardati da notizie che non sappiamo se sono vere o false. Però c’è l’idea dell’auto formazione. Oggi si deve fare da soli. In realtà, anche guardando un po’ l’età dei presenti, noi tutti abbiamo avuto insegnanti, siamo di generazioni che hanno avuto insegnanti, abbiamo imparato da qualcuno. Allora, oggi vorrei riflettere su queste due parole: insegnare e imparare.
1. Che cosa vuol dire insegnare? Insegnare vuol dire comunicare con parole e con esempi, in modo che chi abbiamo di fronte ne riceva un’impronta, si faccia un’idea, si ricordi, apprenda qualche cosa. Gesù insegnava come uno che ha autorità. Dove sta l’autorevolezza di un buon insegnante? In che cosa viene preso sul serio? Perché ha una tecnica? Perché riesce a imprimere bene nella mente dei concetti? O perché piuttosto è una persona appassionata che trasmette le sue emozioni, la sua passione, e quindi trascina, coinvolge. L’insegnamento è una cosa difficile. Noi tutti abbiamo avuto insegnanti frustrati e frustranti. Abbiamo anche avuto insegnanti entusiasti e entusiasmanti. È un carisma quello dell’insegnamento, è un dono, un talento, che però come ogni talento ha bisogno anche di un certo esercizio, di un certo allenamento. Va curato, come il talento artistico, della musica, della pittura, di qualunque arte. E allora Gesù questo talento l’ha ricevuto dal Padre suo: parla come il Figlio, come uno che parla di cose che conosce, perché le conosce per intimità, per consustanzialità. Non ha studiato nelle scuole alte. Gesù non ha frequentato scuole rabbiniche e questo fa la differenza, ma non perché è un autodidatta: perché non parla della legge, parla della libertà. Forse è un buon insegnante quello che educa alla libertà, a ragionare con la propria testa. Perché se un’insegnante avesse soltanto come obiettivo di riprodursi, e quindi di godere nell’ascoltare a un esame la ripetizione delle proprie parole, sarebbe semplicemente un narcisista. Se invece ha di fronte una persona che è partita da un punto, ha fatto qualche piccolo passo e ha trovato fiducia in sé stesso – in modo da cercare di dire con le proprie parole, anche rischiando di sbagliare –, se l’insegnante è capace di riconoscere questi passi, vuol dire che ha ottenuto un risultato buono. Invece non capita sempre di avere insegnanti così. Ma questo si trasferisce – se vogliamo – dalla scuola a ogni tipo di relazione, perché i primi insegnanti sono i genitori. Noi sappiamo che c’è grande differenza tra sentirsi dire: “va bene, non preoccuparti: hai sbagliato, riprova, ce la farai” oppure sentirsi dire: “che delusione! Te l’ho detto cento volte, e non hai ancora capito nulla”. Questo è il dinamismo che fa crescere e diventare liberi o frustra. “Ma come? Mi sono impegnato tanto, e non hai imparato nulla!”. Come fa uno che riceve questo messaggio ad acquisire fiducia in sé stesso, in sé stessa e a imparare qualcosa? Non ce la fa. Se invece riceve il messaggio: “dagli errori s’impara. È un bene che tu abbia sbagliato” – se te ne rendi conto di aver sbagliato. Ecco il superamento dell’idea di perfezionismo. Purtroppo, l’insegnante molto spesso corre questo rischio: di mettere tutto il suo impegno, magari con la buona volontà, e di caricare l’aspettativa che l’altro faccia come te. Ecco, Gesù non fa così. Per questo forse colpisce la sua autorità e diventa autorevole. Perché parte sempre dal punto in cui uno è, e guarda avanti. Ecco la differenza tra un buono e un cattivo insegnante. Il buon insegnante guarda avanti, ma non alle tue potenzialità: “potresti fare sempre meglio!” Questo è un altro messaggio frustrante: “potresti fare sempre meglio! Bravo, però se si impegnasse…” Questa retorica ci avvolge e ci stritola, ma soprattutto stritola gli altri. Invece di guardare o indietro, perché non si fa mai bene come ci si aspetterebbe, o troppo in avanti, l’insegnante buono guarda il presente: in quel presente c’è già un passo.
2. E allora come si fa a imparare? Questo vale anche per gli insegnanti. Gli insegnanti sono buoni insegnanti se hanno coltivato e hanno continuato a coltivare l’arte di imparare. Come si dice popolarmente: “nessuno nasce imparato”.
Prendo 5 verbi, che descrivono in modo articolato qualcosa che avviene in una forma sintetica. S’impara guardando, ascoltando, leggendo, riflettendo e imitando. Guardare: vuol dire fare attenzione a chi abbiamo di fronte, contano gli occhi, conta l’incontro. Ascoltare: non solo le parole, ma il tono, il senso. Occorre fare spazio dentro la mente quando si ascolta, perché ci sono delle parole che ci colpiscono di più e altre che ci colpiscono meno. Ascoltare ci mette nella condizione di distinguere tra il centro e la periferia, tra ciò che è essenziale e ciò che non lo è. Leggere: anche se non si capisce tutto subito bisogna insistere con pazienza. Leggere oggi è diventata una cosa più rara; siamo abituati a guardare i testi, le informazioni, le sintesi. Leggere è la pazienza di andare avanti. Riflettere: ripensare con calma, in silenzio senza l’ansia di padroneggiare. Ma questo vale per tutto: non è questione di libri, di scienza di cultura. A parte i romanzi, il resto richiede di ripensare. Infine, imitare: non vuol dire replicare esattamente quello che abbiamo visto o sentito. L’imitazione è lasciarsi in qualche modo trasformare dall’esempio, dal buon esempio. È chiaro che si fanno errori, ma se ci rendiamo conto degli errori che abbiamo fatto, questo è già aver imparato. Ricordate che Confucio diceva: “Imparare senza pensare è fatica sprecata, pensare senza imparare è pericoloso”.
Allora vorrei concludere con un paio di pensieri di uno che ha fatto l’insegnante, ma non solo. Don Lorenzo Milani scriveva: “Spesso gli amici mi chiedono come faccio a fare scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda. Non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma dovrebbero preoccuparsi solo di come bisogna essere per poter fare scuola”.
Poi, nel suo “testamento pedagogico”, a Adele Corradi, diceva così: “Non ho bisogno di lasciare un testamento con le mie ultime volontà perché tutti sapete cosa vi ho raccontato sempre: fate scuola, fate scuola; ma non come me, fatela come vi richiederanno le circostanze”; e poco prima di morire: “Guai se vi diranno: il Priore avrebbe fatto in un altro modo. Non date retta, fateli star zitti, voi dovrete agire come vi suggerirà l’ambiente e l’epoca in cui vivrete. Essere fedeli a un morto è la peggiore infedeltà”. Il nostro maestro, Gesù, è un vivente. A Lui possiamo essere fedeli, senza temere di tradirlo e di tradire noi stessi.
Domenica 24 gennaio 2021: III Domenica del tempo ordinario. Anno B
Vangelo: Mc 1, 14-20
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

Nella terza Domenica del tempo ordinario, che cade all’interno della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, il Papa ha dedicato una particolare attenzione alla Parola di Dio. Noi custodiamo questa parola, che leggiamo e ascoltiamo come una lettera d’amore: è una parola preziosa che viene dai secoli e custodisce l’annuncio di Gesù. Quello che abbiamo ascoltato qui, questa buona notizia, il Vangelo, ci dà la speranza e la gioia nel sapere che c’è una parola rivolta a noi. Questa lettera è per ciascuno di noi.
Ieri, sul lessico, ho cercato di proporre una riflessione sulla prossimità, la vicinanza: il regno di Dio è vicino, Dio è vicino, la Sua Signoria è vicina a noi. Oggi voglio riflettere su un’altra parola, sul verbo chiamare. Abbiamo sentito che Gesù chiama dei discepoli, ha bisogno di amici. Non è una squadra di marines, chiamati per una missione speciale. Ha bisogno di amici che entrino in intimità con lui. Questi ascoltano la chiamata. “Venite” è un invito, una proposta, un’offerta. Voglio riflettere su questo verbo – chiamare – che va oltre anche questa chiamata specifica.
È un invito. Quando ci sentiamo chiamare, chiamare per nome, vuol dire che qualcuno si rivolge proprio a te. Ti chiama per nome, ti ha visto, non sei più anonimo tra la folla.
È una proposta. Nasce la curiosità di sapere perché, che cosa, dove, con chi? Qualcuno che ti chiama ti interpella, incuriosisce. Ti fa domandare: “che cosa c’è?”. Quindi è lo spazio della meraviglia. Proprio io? per fare che cosa? Quando aspettiamo una chiamata, pensate alla chiamata che tutti adesso stanno aspettando, quella del vaccino: quando mi chiameranno? Quando tocca a me?
È un’offerta. C’è qualcosa di nuovo. Di piacevole? Di impegnativo? Di sconosciuto? Si fa qualcosa insieme, non da soli. Chi ti chiama dice: ti riconosco, riconosco la tua identità, la tua presenza, vedo che ci sei, facciamo qualcosa insieme.
Tutto questo appartiene alla dinamica del chiamare, del far uscire una parola, un nome, dalla propria bocca, che si rivolge a qualcuno. E naturalmente tutto questo vuol dire che tu sei vivo, che tu ci sei, esisti. Questa è la verità della chiamata, la vita. Fino al giorno in cui ne ascolteremo una definitiva, alla pienezza della vita senza fine. Essere chiamati per nome è il primo gesto che hanno fatto i nostri genitori quando siamo nati. E sarà anche il primo gesto di Dio per la vita eterna.
Domenica 17 gennaio 2021: II Domenica del tempo ordinario. Anno B
Vangelo: Gv 1,35-42
In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro – dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

Con la seconda domenica del tempo ordinario, che fa seguito a quella del battesimo di Gesù con cui si concludeva il tempo di Natale e iniziava il tempo ordinario, riprendiamo il cammino dietro a Gesù adulto che chiama dei discepoli.
Ieri nel lessico spirituale – che potete trovare anche sul sito – ho sottolineato il verbo “cercare”: “che cosa cercate?”. Cosa significa cercare? Oggi voglio sottolinearne un’altra. Questo brano del Vangelo di Giovanni si apre e si conclude con una stessa espressione: “fissare lo sguardo”. Si apre con Giovanni che fissa lo sguardo su Gesù e si conclude con Gesù che fissa lo sguardo su Simone, su Pietro.
Lo sguardo. Giovanni dice ai suoi discepoli: “ecco l’Agnello di Dio”, che significa indicare in Gesù la mitezza, l’inermità del Signore. Questo è ciò che Giovanni vede in Gesù: un Dio umile, con il quale camminare e seguire. Con il quale camminare, perché è l’Agnello; da seguire, perché è il Pastore. Gesù combina in sé questi due aspetti: la mitezza dell’agnello e la forza, la sicurezza del pastore. Solo che entrambe queste figure sono rivestite di profonda vulnerabilità, fragilità. “L’Agnello immolato fin dall’origine del mondo”, dice l’autore dell’Apocalisse, e il buon Pastore che dà la vita per le sue pecore, che muore; che invece di uccidere il nemico si lascia uccidere. Un pastore apparentemente debole, ma in realtà è Lui che offre la vita, la dona nuova con la Sua risurrezione.
Nella conclusione del Vangelo, Gesù fissa lo sguardo su Simone e lo chiama Pietro. Cosa vuol dire fissare lo sguardo? Specialmente in questo momento nel quale noi siamo tutti costretti allo sguardo, perché la bocca e il sorriso sono coperti dalla mascherina. Se c’è un sorriso davvero deve venire dagli occhi; come se c’è una tristezza deve venire dagli occhi. La solitudine è assenza di sguardi; le persone sole sono tali perché nessuno le guarda. Tutti noi abbiamo bisogno di essere guardati, guardati con profondità. Perciò guardare gli occhi significa incontrare la persona, decidere se accoglierla o respingerla. Nasce immediatamente dallo sguardo fiducia e simpatia o diffidenza e perplessità. Uno sguardo non amorevole su alcuni produce maggiore effetto di uno schiaffo. Diceva Chesterton: “c’è una strada che va dagli occhi al cuore senza passare per l’intelletto”. Lo sguardo è immediatezza, intuizione, percezione.
Voi ricorderete che i medici greci antichi guardavano l’occhio del paziente, e con la krìsis facevano la diagnosi (dal verbo greco krino = separare, cernere, in senso più lato, discernere, giudicare, valutare). Poi la medicina va avanti e guarda il fondo dell’occhio; e quello fa decidere – con lo sguardo si decide, prima di aver pensato. Anche le neuroscienze oggi dicono che c’è un’anticipazione neuronale delle sinapsi che precede il gesto e l’azione, per cui siamo prigionieri liberi. Ci crediamo liberi, ma in realtà siamo già autodeterminati da qualcosa che avviene prima nel nostro cervello. Questo è il problema del rapporto fra mente e cervello di cui oggi le neuroscienze si occupano: pare che io quando muovo una mano c’è già una sinapsi che ha deciso istanti, secondi prima, la mia azione. Questo è interessante perché tutto passa da una percezione visiva.
Lo sguardo è la prima mossa fra due persone timide o molto coraggiose. Con lo sguardo ci si accoglie e con lo sguardo ci si sfida. Quel che avviene con uno sguardo pieno di amore è un evento unico. Questo è ciò che fa Gesù, ciò di cui è capace il Signore. Il guardarci significa amarci, dirci “tu sei mio figlio, ti amo per sempre”. Lo sguardo quindi è qualcosa che avviene una volta e segna in profondità.
Domenica 10 gennaio 2021 – Battesimo del Signore. Anno B.
Vangelo: Mc 1, 7-11
In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo». Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».

La festa del battesimo di Gesù ci fa compiere questo salto dall’infanzia alla vita adulta. Ci troviamo immediatamente di fronte a un giovane che lascia la sua casa, le sue tranquillità, di trent’anni di vita Nazareth di cui non sappiamo niente. Gli evangelisti ci raccontano questo episodio, tutti gli evangelisti. Deve aver colpito molto il fatto che Gesù abbia iniziato la sua vita pubblica in questo modo così dimesso, così umile. Anzi dà l’impressione di aver bisogno anche Lui di purificazione: perché si mette insieme ai peccatori e va da Giovanni Battista. Si potrebbe pensare che anche Lui avesse bisogno di purificazione. Però questo ha un senso: è il modo con il quale Dio si presenta in mezzo a noi; non solo Gesù Figlio, ma anche il Padre e lo Spirito. In queste poche parole che abbiamo adesso ascoltato vediamo come Dio agisce. Noi ci aspettiamo che Dio faccia chissà che cosa dal cielo, e invece qui vediamo davvero che cosa fa, come lo fa.
La parola che oggi voglio prendere è delicatezza. Delicatezza ha dei sinonimi che sono: finezza, morbidezza, discrezione, rispetto, leggerezza. Vorrei prendere cinque caratteristiche di questo agire di Dio verso di noi, che qui vediamo manifestate attraverso lo Spirito che discende verso di Lui, che plana verso di Lui, come una colomba. E poi la voce dal Cielo: “Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento”. Che vuol dire: mi piaci. Queste cinque caratteristiche ci dicono come agisce il Figlio, come agisce lo Spirito, come agisce il Padre. Anche con noi.
- Il Signore ci parla senza gridare, cerca le frequenze del nostro cuore per sussurrare. Cerca la sintonia. Non impone la sua, cerca la frequenza come quando noi cerchiamo un canale alla radio. Dio cerca di capire in quale modo possiamo ascoltare, qual è la nostra acustica. Ha cercato i modi possibili per noi: si è messo insieme ai peccatori. Dice Sant’Agostino: i peccatori scaricano nelle acque del Giordano i loro peccati, Gesù entra nelle stesse acque per caricarli su di Sé.
- Ci avvicina senza invaderci, attende la nostra attenzione, pazienta e cerca le vie possibili. Noi invece da Dio ci aspettiamo la forza, la potenza, il risolvere i problemi, come la violenza nei confronti dei cattivi e il premio ai buoni. Invece no: Egli attende la nostra attenzione, pazienta. Dio è paziente, delicato, discreto.
- Ci sta accanto senza soffocarci, non entra in mezzo ai suoi conterranei, si fa spazio e dice: “adesso è arrivato il Messia, sono io. Giovanni, grazie: è finito il tuo compito”. Non fa così. Vuol dire che con discrezione Egli accompagna i nostri passi incerti e vacillanti. Noi invece vorremmo soluzioni, imposizioni. Quante volte a Dio chiediamo questo. E se non lo fa Lui, prendiamo noi il suo posto e diventiamo noi Dio.
- Ci solleva senza strattoni, come dovrebbe fare un genitore, un padre, con i suoi figli. Quindi attende che gli tendiamo la mano quando siamo prostrati e tristi. Non ci prende di forza. Aspetta che questa mano si sollevi. Questa mano è la preghiera: a volte il grido, la supplica, il lamento, il silenzio soffocato. Quante forme ha la nostra richiesta di aiuto! Ecco, Dio è capace di percepire questo sibilo dell’anima.
- Ci risparmia prove insostenibili, perché conosce la nostra fragilità e non ci abbandona alla tentazione. O meglio, c’è una traduzione più esatta, alla fine del Padre nostro che stiamo imparando a recitare con “non abbandonarci alla tentazione”. La traduzione più corretta – anche se c’è dibattito tra gli esegeti, ma le scelte fatte dalla CEI sono queste – è: “non permettere che entriamo nella prova”, ovvero risparmiacela. Sono aspetti complementari, se vogliamo, ma è per dire: “se vedi che non ce la faccio, mandami il freddo secondo i panni o mandami i panni secondo il freddo, ma fa’ che io non soccomba”. E quindi ci risparmi prove insostenibili.
Queste cinque caratteristiche vediamo come si riflettono, come in un caleidoscopio, nel nostro agire verso gli altri. Se questo è il modo delicato di agire di Dio, come possiamo fare noi ad imparare questa stessa delicatezza? Sintetizzo, perché ne ho già scritto ieri nel lessico spirituale: accogliere senza trattenere, custodire senza possedere, abbracciare senza soffocare, condividere senza sprecare, curare senza pretendere di guarire. Questa è la delicatezza, questo è il modo nel quale noi impariamo nella quotidianità l’agire di Dio. Che diventa l’agire nostro.