
Carissimi amici e amiche,
dopo la recente e impegnativa esperienza del lockdown, che abbiamo vissuto insieme attraverso “le pillole”, ora raccolte nel libretto Un giorno senza tramonto. Pillole cristologiche antivirus, ho pensato di riprendere il nostro dialogo nella forma di una newsletter settimanale, che sarà pubblicata su Facebook e inviata per WhatsApp ai vari gruppi in qualche modo interessati.
L’idea è quella di proporre ogni settimana una parola chiave, ispirata dal brano evangelico della domenica, con una breve riflessione che possa aiutarci a riflettere, per vivere meglio il nostro tempo. Si tratta di un repertorio di parole, una specie di Lessico spirituale, originariamente pensato per Casa Ilaria, che vorrebbe accompagnare tutti coloro che lo desiderano lungo la strada che parte o arriva in questo luogo – non solo fisico – di ospitalità e lavoro dedicato in modo particolare alle persone più vulnerabili.
Non saranno commenti al vangelo, ma considerazioni a partire dal testo, da una parola che dischiude un ampio orizzonte di senso, in grado di toccare la mente, il cuore e la vita di tutti. All’inizio ho parlato di “dialogo”, perché questa volta mi piacerebbe che ognuno si sentisse libero di interagire nel modo che ritiene più opportuno.
Pisa, 5 settembre 2020
don Maurizio
SOMMARIO
- Presenza
- Clemenza
- Invidia
- Volontà
- Avarizia
- Banchetto
- Denaro
- Amore
- Beati
- Attenzione
- Talento
- Carità
- Sorpresa
- Essenziale
- Testimone
- Grazia
- Figli
- Leggerezza
- Cercare
- Prossimità
- Insegnare
- Guarire
- Purificazione
- Deserto
- Cambiamento
- Indignazione
- Luce
- Servire
- Passioni
- Indizi
- Dubitare
- Fantasmi
- Voce
- Legami
- Comandamento
- Miracoli
- Verità
- Potere
- Corpo
- Semina
- Paura
- Supplicare
- Disprezzo
- Sobrietà
- Riposo
- Spreco
- Fame
- Mormorare
- Umiltà
- Parole
- Impuro
- Disabilità

Presenza
La nostra riflessione con gli amici e le amiche di Casa Ilaria comincia intorno a una parola che ci suggerisce il vangelo di domenica 6 settembre 2020: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Matteo 18,20). Gesù dice di essere presente – anzi, di stare in mezzo, cioè al centro, non dietro, davanti o accanto – tra coloro che si trovano insieme nel suo nome. La sua presenza ha bisogno della nostra presenza: se noi non ci siamo, e non facciamo spazio gli uni agli altri, lui non trova accesso, resta fuori.
Ma cosa vuol dire trovarci insieme nel suo nome? Significa soltanto riunirsi per pregare, per fare una celebrazione liturgica? Certo, questo lo sappiamo: i cristiani credono di essere chiamati, convocati, adunati dall’invito del Signore. La Chiesa è un popolo che si forma grazie al suo appello, e la fede ne costituisce la risposta. Ma forse c’è di più. Il normale incontro tra noi, nella vita di tutti giorni – anche se di questi tempi dobbiamo fare attenzione alla distanza fisica – è sempre un’occasione da cogliere come grazia, un’opportunità non scontata nella quale veniamo fuori per quelli che siamo. Dagli incontri con gli altri si può crescere nel bene e diventare migliori, oppure restare gli stessi, e a volte anche peggiori.
Casa Ilaria è una proposta di incontro e di compagnia, dove la presenza vicino agli altri, soprattutto ai più fragili e vulnerabili, fa venir fuori la parte migliore che si nasconde in ognuno di noi, che magari non sappiamo neppure di avere. Però questa opportunità richiede impegno generoso e disinteressato, senza il quale rischia di prevalere il proprio io che cerca di affermarsi. Tutti abbiamo bisogno di essere guardati, riconosciuti, apprezzati: Gesù ci assicura che quando siamo insieme, e ci ricordiamo di lui, il nostro sguardo cambia, vediamo l’altro in modo diverso, con attenzione, delicatezza e rispetto. Pian piano diventa un fratello, una sorella.
La presenza trasforma, l’incontro rende somiglianti, si ricevono e si danno impronte, ma soprattutto è la condizione per la cura: se non sto vicino col cuore non avverto di che cosa hai bisogno, ciò che ti fa soffrire e cosa ti farà star meglio. Impariamo così la presenza buona che non invade e non soffoca, ma alleggerisce e sostiene, colma la solitudine, allontana la malinconia e lo scoraggiamento. Di questa presenza abbiamo tutti bisogno, e il Signore ce la garantisce: sta a noi ricordarci di lui, riconoscerlo in mezzo a noi, specialmente quando si fa vivo nella persona del più debole, che deve passare sempre più dalla periferia al centro delle comunità in cui viviamo.

Clemenza
Nel vangelo di domenica 13 settembre leggiamo: «Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» (Matteo 18,33). Una parola chiave per riflettere potrebbe essere “perdono”, ma forse è più utile prenderne un’altra – clemenza – perché allarga l’orizzonte: non è una questione puntuale tra chi è offeso e chi ferisce, quanto piuttosto un modo di sentire verso tutti.
È vero che ogni danno causato esige un risarcimento – ciò appartiene alla giustizia – e ognuno di noi avverte il bisogno di ristabilire un rapporto incrinato attraverso la cancellazione del debito, che può avvenire col saldo o col condono. Ma se le cose rimangono sospese c’è il rischio di reagire in modo sproporzionato, ad esempio con la vendetta. Molto dipende da cosa decide chi ha subito l’ingiustizia: pretendere le scuse, serbare rancore, diventare indifferente?
Quando ci sentiamo offesi – o siamo consapevoli di aver ferito – si diventa facilmente preda di stati emotivi non semplici da governare. Ecco perché ci interessa riflettere sulla clemenza: quella scelta di fondo che anticipa e orienta il momento critico del conflitto. Se non ho deciso prima come rispondere all’ingiustizia, sarà difficile che riesca a farlo nel momento in cui succede, perciò è necessario aver già fatto una opzione fondamentale.
Secondo Aristotele, la clemenza (epikeia) è un correttivo della legge mai perfetta; per i cristiani è perdono unito a umiltà, in quanto si è consci delle proprie e altrui debolezze morali. Tenere presenti questi due aspetti può aiutarci: da una parte, il sapere che non ci sarà mai un metro oggettivo in grado di regolare i rapporti tra persone, sempre fragili, variabili, incostanti; dall’altra, la consapevolezza che oggi io sono ferito e domani sarò io a ferire.
Per imparare una benevola moderazione nel riprendere, e coltivare una abituale disponibilità al perdono, occorre sottrarsi alla fredda logica del calcolo, che misura ciò che devo e quel che mi è dovuto. Mentre la giustizia cerca la proporzione, è solo l’amore gratuito e incondizionato che va oltre, e guarisce le ferite. Si tratta sicuramente di eccedenza, di un modo per oltrepassare il confine attraversando il fragile ponte delle relazioni, dove spesso è in agguato il pericolo del fallimento.
Alzi la mano chi non ha mai avuto bisogno di clemenza. Dunque, la si può raccontare solo quando la si è vista in faccia. Ha il sapore della polvere in cui si è caduti e si è stati risollevati. Soltanto allora diventerà ancora possibile, e avrà il colore di un nuovo mattino.

Invidia
La parabola che Gesù racconta nel vangelo di domenica 20 settembre si conclude con la domanda: «Tu sei invidioso perché io sono buono?» (Matteo 20,15). Partiamo dalla definizione del vocabolario Treccani, che descrive bene l’invidia: «Sentimento spiacevole che si prova per un bene o una qualità altrui che si vorrebbero per sé, accompagnato spesso da avversione e rancore per colui che invece possiede tale bene o qualità; anche, la disposizione generica a provare tale sentimento, dovuta per lo più a un senso di orgoglio per cui non si tollera che altri abbia doti pari o superiori, o riesca meglio nella sua attività o abbia maggior fortuna (nella dottrina cattolica, è uno dei sette vizî capitali, direttamente opposto alla virtù della carità)».
Qui c’è già tutto quanto sappiamo per esperienza: sia perché invidiati, sia perché invidiosi. Nel secondo caso, si fa certamente più fatica ad ammetterlo. Dà proprio fastidio trattare dell’invidia: è la sofferenza dovuta a un confronto perdente con qualcuno, in un campo che è importante per la persona. Può essere un’emozione, cioè la “stretta” provata quando si viene a sapere che un altro ci ha superato, o diventare un sentimento duraturo: uno stato di malessere e inadeguatezza, con malevolenza verso la persona invidiata.
Chi ci liberà dall’invidia propria o altrui? Solo il miracolo della grazia, probabilmente, perché non si vedono molte altre vie. Allora è una patologia incurabile? Se si tratta di un’emozione istantanea forse è solo gelosia; se invece la si prova spesso, allora la faccenda è seria, anche perché produce delle conseguenze negative nelle relazioni, al punto da renderle impraticabili. La ragione non sembra trovare appigli: chi prova invidia soffre e provoca dolore. L’invidioso cerca di difendersi, ma mentre svaluta l’altro in realtà non stima se stesso, quindi tende ad autodistruggersi.
Tuttavia, non esiste soltanto l’invidia cattiva. Ognuno di noi è in grado di provare anche una forma di invidia buona, che si chiama “ammirazione”. L’invidioso buono non auspica il fallimento degli altri, al contrario pensa: “se lui ci è riuscito, posso riuscirci anche io”. Invece di affibbiare la responsabilità della propria situazione sempre agli altri, agli eventi e alla sfortuna, privandosi di fatto della propria capacità di dare risposta, per superare l’invidia dovremmo imparare ad assumerci la responsabilità dei risultati che abbiamo ottenuto finora. Solo in questo modo smetteremo di preoccuparci di ciò che stanno ottenendo gli altri, focalizzandoci invece su ciò che vogliamo ottenere noi.

Volontà
«Non ne ho voglia» – risponde uno dei due figli al padre che gli chiede di andare a lavorare nella vigna – «Ma poi si pentì e vi andò» (Matteo 21,30). La parabola di Gesù ci offre l’occasione per riflettere sulla volontà. Probabilmente capita anche a ciascuno di noi di pensare o di dire “non ho voglia”, ma non è detto che sempre siamo pronti a ripensarci e a cambiare strada. La questione della volontà ci riguarda tutti, sia per difetto sia per eccesso. C’è chi ha imparato fin dalla più tenera età a fare quello che vuole, assecondato in ogni desiderio e pretesa, e continua a sottrarsi di fronte alle responsabilità. C’è invece chi è cresciuto soffocato dalle aspettative, e non riesce liberarsi da un esasperato senso del dovere. Nel primo caso, la volontà è fragile, nel secondo diventa ossessiva. Anche la tradizione cristiana conosce due poli estremi: quelli che confidano troppo nella propria volontà (pelagiani), fino a dimenticare il primato della grazia divina, da cui sorge il desiderio del bene in noi; e quelli che rinunciano ad ogni impegno (quietisti), illudendosi che tutto dipenda dalla volontà di Dio, alla quale abbandonarsi in totale passività.
La volontà è diretta espressione della libertà di scelta, ma dipende fondamentalmente dalla consapevolezza. Siamo liberi di decidere quando ci rendiamo conto di ciò che possiamo, dobbiamo e quindi vogliamo fare. Verbi servili (o modali) – così li chiama la grammatica – che si legano ad azioni quotidiane dove prende forma la nostra esistenza fatta di conoscenze, decisioni e azioni. La molla che spinge dall’interno la volontà è il desiderio di realizzare qualcosa, di avere e di essere, da cui siamo continuamente sollecitati. Ci sono però dei punti limite: chi ascolta solo i propri desideri facilmente dipende dalle proprie voglie, chi risponde solo ai desideri altrui rinuncia alla propria volontà. La cosa difficile è trovare l’equilibrio tra i propri desideri e quelli degli altri. Quando comprendiamo di valere qualcosa per qualcuno, diventiamo responsabili, cioè capaci di rispondere all’altro, cresce in noi l’autostima e diminuisce l’autoreferenzialità. Il figlio che dice “non ho voglia” guarda solo a sé, ma quando ripensa al padre – e non al suo comando – allora cambia direzione: passa dall’io al noi, esce dal voglio/non voglio ed entra nel facciamo insieme.
La via media ce la indicano le sapienti parole di Dante, che colgono appieno l’origine, il senso e la bellezza della libera volontà umana, perché più conforme alla bontà di Dio, il quale ce l’ha donata senza mai pentirsene:
«Lo maggior don che Dio per sua larghezza
fesse creando, e a la sua bontate
più conformato, e quel ch’è più apprezza,
fu de la volontà la libertate;
di che le creature intelligenti,
e tutte e sole, fuoro e son dotate»
(Paradiso V,19-24)

Avarizia
«Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!». Con questo pensiero i vignaioli omicidi decidono di far fuori anche il Figlio del Signore della vigna, dopo gli altri servi inviati a ritirare il raccolto loro affidato. La sete di possedere li divora, accende in loro il desiderio insaziabile di avere, scatena la rabbia furiosa e li spinge ad uccidere. Qui siamo certamente di fronte ad una situazione estrema, ma quante volte cresce lentamente la passione per le cose e per il denaro, e arriva a sacrificare persone e affetti.
E noi, quale uso dei beni facciamo? Ne siamo così gelosi da proteggere le nostre cose fino al punto di accumularne senza alcuna necessità? Ci crediamo autori della nostra fortuna, senza dover dire grazie a nessuno? La parola di oggi – avarizia – non ci piace. Non vorremmo mai che qualcuno ci considerasse col braccino corto. Tantomeno vorremmo essere ritenuti poco generosi. Eppure l’istinto conduce molto spesso ad ingrandire l’io a spese degli altri. Non si tratta soltanto di egocentrismo: è in ballo la relazione con le cose e con le persone che abbiamo attorno, anzi, anche con quelli che incontriamo casualmente, ai quali ci resta difficile donare senza calcolo.
Tutti abbiamo bisogno di sicurezze, oggi più che mai, data la situazione di fragilità della salute, di precarietà economica e lavorativa. Ma questo ci giustifica nel pensare solo a noi stessi? Fare un esame di coscienza sul senso del possesso è necessario, perché ci mette di fronte all’io, al tu, al noi.
Nell’avaro, l’io diventa cieco, perché percepisce solo sé, e tutto ciò che ha intorno deve declinarsi con “mio”. Probabilmente, alla radice di questa percezione delle cose vi è una sostanziale estraneità rispetto al mondo, una sorta di lontananza che si traduce in ostilità e, quindi, in desiderio di ridurre la distanza, mediante l’acquisizione, il possesso, l’accumulo delle cose.
Oggi, papa Francesco firma ad Assisi la nuova lettera enciclica intitolata “Fratelli tutti”, sulla fraternità e l’amicizia sociale. Questa è l’occasione per leggerla e meditare sulle nostre relazioni quotidiane con le cose e le persone. La recente pandemia del Covid-19 ha messo in più chiara evidenza la stretta connessione tra stili di vita, relazioni e organizzazione sociale, per cui è difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della propria vita e di tutto ciò che esiste. Non è solo questione di superare la crisi sanitaria, peraltro dovuta ad un progressivo smantellamento dei sistemi sanitari, quanto piuttosto di fare un salto verso un nuovo modo di vivere la solidarietà.

Banchetto
«Ecco, ho preparato il mio pranzo […] tutto è pronto» (Matteo 22,4). Così il re si rivolge agli invitati per le nozze di suo figlio. La parabola di Gesù ci suggerisce una riflessione sul banchetto. Qui si parla ovviamente di un grande pranzo in occasione di una festa solenne, ma è anche vero che sedere a mensa è per tutti un fatto quotidiano, almeno quando non si mangia in fretta e furia, in piedi e da soli, tra un impegno e l’altro. Stare insieme intorno a un tavolo è una pausa necessaria, non solo per nutrirsi, ma soprattutto per guardarsi in faccia, vedere come stiamo, raccontarci qualche briciola di vita, e poi ripartire. È una sosta attesa e doverosa: qualcuno ha preparato per noi, ha speso tempo e impegno, perciò merita riconoscenza.
A mensa poi si fanno affari, si ordiscono trame, si stingono alleanze, si decidono cose importanti. A cena con Stalin, Churchill disegnò su un pezzo di carta le percentuali d’influenza angloamericana e russa in Europa. Invece di pagare il conto di una cena, Picasso fece un autografo. «Una buona cena è ed è sempre stata una straordinaria opportunità artistica», diceva il grande architetto Frank Lloyd Wright. Secondo Oscar Wilde: «Quando i banchieri si riuniscono per cena, discutono di arte. Quando gli artisti si riuniscono per cena, discutono di denaro».
Per i cristiani la mensa è la cosa più cara: Gesù ha voluto essere ricordato – anzi, vuol essere presente – proprio con una cena, invece che sulla croce, anche perché almeno lì c’erano tutti. Ma a quanti dei nostri banchetti sono assenti i più poveri, le persone sole, gli ammalati, i bambini e gli anziani? Finché non impareremo a spezzare il pane e a bere insieme con gli ultimi sarà difficile fare davvero festa, perché mancherà la gratuità. Amiamo giustamente stare insieme a parenti ed amici, portare un dono, essere accolti e ringraziare. Ma c’è anche chi non ha parenti, amici, casa e tavola, e non ha nulla da pretendere né da ricambiare.
Immaginando la fine della storia, i profeti d’Israele pensavano ad un grande banchetto dove tutti avrebbero trovato posto. Gesù non fa altro che ricordarcelo, seppure sia capitato anche a lui un amico che intinge il boccone nello stesso piatto e poi esce di notte per tradirlo. A mensa ci si rilassa, si fanno confidenze, si entra in comunione. Basta ricordarsi che conta di più con chi si mangia di che cosa si mangia: potremmo uscirne con la pancia piena e il cuore vuoto, se dimentichiamo che potrebbe avere il cuore pieno anche chi ha la pancia vuota.

Denaro
«Mostratemi la moneta del tributo». È la richiesta di Gesù ai discepoli dei farisei e agli erodiani, che cercavano di coglierlo in fallo, per sapere cosa pensava del denaro e del potere imperiale. Gesù esce dall’angolo con la famosa risposta: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo 22,15-21). Elogio della distinzione, dunque, nelle parole di Gesù. Invito rivolto agli uomini di ogni generazione e a noi, che col denaro abbiamo a che fare ogni giorno, probabilmente ancor più che con Dio.
Chi li considera due padroni, deve scegliere quale servire. Alcuni li ritengono rivali inconciliabili; secondo altri potrebbero diventare buoni alleati. Direi che per il momento basta soffermarci sul denaro: come possiamo regolarci con il suo uso? Questo è il problema di sempre, per i cristiani e non. C’è chi giustifica l’accumulo dei soldi per garantire a sé e ai propri cari il presente e il futuro, e si accorge che non basta e non basterà mai. C’è chi spende quello che ha – e anche quello che non ha – perché si vive oggi, domani non si sa. Poi ci sono coloro – sicuramente la maggioranza – che si guadagnano onestamente il pane quotidiano, e cercano di barcamenarsi tra spesa, figli, casa, mutui, bollette, etc.
La questione si complica quando c’è da decidere come gestire quel poco o tanto che resta, una volta fatti i conti, mantenuti gli impegni e pagati i debiti. Rimane qualcosa per gli altri? Per i poveri? Per chi non ha nulla? Possiamo davvero limitare il concetto di famiglia al perimetro dei parenti? Proprio in questi giorni è uscita l’enciclica di papa Francesco intitolata “Fratelli tutti”. Conviene ascoltarne qualche passo per riflettere, dato che apparteniamo tutti alla famiglia umana e abitiamo la casa comune.
Una prima considerazione riguarda l’aiuto che non dovrebbe mai mancare a chi ha bisogno, con la consapevolezza che è solo un rimedio temporaneo: «insisto sul fatto che aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro» (FT 162).
Un’altra riguarda i potenti del mondo – qualcuno la giudicherà un’utopia – ma ci dovrebbe trovare tutti d’accordo: «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa» (FT 262).
Alla fine dei conti, il denaro è uno strumento: dipende quale musica si suona e quanti ne beneficiano. La cosa più triste sarebbe suonare e cantare solo per se stessi.

Amore
«Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» (Matteo 22,36). Questa domanda rivolta a Gesù da un dottore della Legge fa pensare al bisogno di avere regole da osservare, specialmente nella sfera religiosa, soprattutto quando si crede che Dio voglia dall’uomo qualcosa per sé. La sorprendente risposta del Maestro è l’amore, non una norma mosaica tra le più importanti, come rispettare il sabato e le feste. Così egli rovescia lo schema padrone-servi in quello padre-figli, amici, amanti. Però è comunque strano chiamare grande comandamento l’amore. Come si può ordinare di amare? Non si tratta forse di un sentimento libero e spontaneo, che si rivolge naturalmente a parenti ed amici, a chi lo merita e lo ricambia?
In realtà, chi ama obbedisce ad un impulso interiore non a un precetto, altrimenti non potrebbe essere espressione di libertà. Si decide a chi voler bene, si sceglie chi amare, anzi, a volte ci si ritrova dentro relazioni amorose persino senza sapere come e perché. Alla fine, l’amore è una cosa davvero misteriosa, per tutti. È prima di tutto il bisogno di ricevere amore che attiva il desiderio di amare: a voler bene s’impara da qualcuno che ce lo vuole, altrimenti questa aspirazione vitale rimane senza risposta. Proprio qui si produce la ferita narcisistica: avremo sempre una sete insaziabile di amore se non siamo stati amati fin dal principio da chi davvero ci doveva l’amore.
Per gli antichi – e anche per noi – esistono almeno tre modi d’intendere l’amore: di amicizia (filía), tra gli amanti (eros), la carità (agápe). Tre diverse qualità che segnano i rapporti tra persone, e possono anche coesistere nelle relazioni, perché non si escludono. Proviamo a vedere come s’intende il senso del comandamento in queste tre diverse declinazioni dell’amore. Gli amici hanno dei reciproci doveri? Nella forma dell’impegno interiore, sì: la fiducia, la confidenza, il rispetto, la lealtà. Quando vengono meno, l’amicizia finisce. E tra gli amanti? L’attrazione è la molla dell’incontro, al cuore non si comanda, il desiderio s’impone alla ragione. Eppure, anche qui, senza impegno stabile di reciproca dedizione, seppur variabile nel tempo – questo è il patto di alleanza – il rapporto può estenuarsi, l’amore svanire e persino morire.
Infine, la carità, che è gratuita per definizione, può resistere all’indifferenza, alla non reciprocità, al rifiuto? Si deve insistere con chi non vuol essere amato? Questo è ciò che fa Dio con noi, e ci chiede di accoglierlo come dono e compito. Non ce l’ha ordinato il dottore di amare, ma il Maestro, colui che prova a convincerci che ne vale sempre e comunque la pena. Perché è l’unico modo per accettare la propria vulnerabilità, nel momento stesso in cui si accoglie quella dell’altro.

Beati
«Beati quelli che…» (Matteo 5,1-12) – ripete otto volte Gesù nel discorso della montagna. Chiama beati quelli che subiscono offese: i poveri, gli afflitti, gli affamati e assetati di giustizia, i perseguitati; e anche quelli che si comportano bene: i miti, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace. È un modo piuttosto inconsueto quello di considerare positivamente questo genere di situazioni, per quanto diverse tra loro. Secondo l’opinione comune è felice e beato chi ha salute, denaro e buona stima da parte degli altri. Allora, perché e da chi può essere considerato beato chi invece passa guai e tribolazioni? È forse solo il rimando ad un futuro di riscatto, magari nell’aldilà?
Ci sono situazioni in cui la beatitudine è una promessa, rivolta a chi spera nella fine di un dolore; altre in cui si gusta un anticipo del bene senza fine. Siamo tutti in cammino, attraversiamo sentieri impervi più che strade agevoli, soprattutto di questi tempi. Perché la beatitudine non suoni come vana illusione, occorre armarsi di pazienza e buona volontà, sapendo che non tutto dipende da noi. Chi crede di essere autore della propria fortuna e pensa di farsi tutto da sé, per rendere scorrevole la propria via ad ogni costo, spesso finisce per asfaltare gli altri.
Alcuni scambiano la felicità con i cosiddetti piaceri epicurei: mangiare, bere, vestir bene, divertirsi e godere della vita. Merita tuttavia ricordare che Epicuro, per la verità, non la pensava esattamente così: era un greco che apprezzava soprattutto la misura. I suoi discepoli, infatti, lo ammirarono come un saggio temperante e giusto, lontano dall’insegnare che il piacere di per sé rende felici. «È meglio per te giacere senza paura su un umile giaciglio – scriveva – che in preda a turbamento possedere un aureo letto e una sontuosa mensa».
Tornando all’ottagono della beatitudine evangelica, sorprende la grande speranza che annuncia: in ogni situazione della vita si nasconde la beatitudine, e soprattutto non la si scopre se non con gli altri, mai da soli. Sappiamo che in qualche misura siamo responsabili di chi incontriamo lungo la strada; ciò vale specialmente in questi giorni nei quali il virus ci costringe a fare molta più attenzione di prima. In fondo, «il buon Dio è nei dettagli» – diceva Gustave Flaubert – e chi fa attenzione ai particolari trova la strada del bene, perché la felicità propria e altrui è sempre fatta di attimi, che anticipano l’eternità. Tocca a ciascuno di noi non sprecare le occasioni.

Attenzione
«Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora» (Matteo 25,13). Sono le parole di Gesù a conclusione della parabola delle dieci ragazze che attendono lo sposo, tra le quali cinque sono rimaste fuori, con le lampade spente perché senza olio. In questo caso, essere vigili vuol dire rimanere svegli, attenti, pronti all’evenienza di un appuntamento annunciato, seppur imprevisto con precisione. Quando si attende qualcuno, mettiamo in atto le migliori energie per non farci trovare impreparati. È questione anzitutto di rispetto dell’appuntamento. Eppure non di rado capita di ritardare a causa di inconvenienti, nostro malgrado. Però si dice anche che chi ritarda sistematicamente, è perché vuol farsi notare, anche se in modo inconsapevole.
Non è in gioco soltanto la distrazione, pur legittima, specialmente per chi si concentra di solito su cose importanti, e non riesce a fare caso a tutto indistintamente. In realtà, si tratta di un orientamento di fondo, della considerazione che abbiamo delle cose e delle persone. Coloro che incontro meritano davvero la mia attenzione? O sono piuttosto le cose che devo fare, gli impegni da assolvere che assorbono tutte le mie energie? A nessuno è chiesto di essere onnipresente a se stesso e a qualunque evento quotidiano. Eppure ciascuno di noi ha bisogno di ricevere attenzione dagli altri, anche se non sempre e da tutti allo stesso modo.
Per capire la differenza tra le persone e le cose basta ricordare come ci si sente quando, mentre ci presentiamo a qualcuno stringendo la mano, l’altra persona non ci guarda negli occhi, e un istante dopo non ricorda neppure il nostro nome. Oppure quando scriviamo un sms o una email, e chi li riceve non si degna neanche di rispondere. Distrazione? Forse. Ma più probabilmente superficialità, o piuttosto abitudine all’indifferenza, magari radicato egocentrismo. Dunque, la questione più seria non è la vigilanza come indice del controllo su tutto e su tutti, né la curiosità di chi non vuol lasciarsi sfuggire alcun dettaglio. L’attenzione è un’altra faccenda.
Le persone e le cose esistono, e sono in relazione: non si tratta tanto di scegliere tra le une e le altre, quanto piuttosto di non trattare le persone come oggetti. L’attenzione è distaccarsi da sé e rientrare in se stessi, così come si inspira e si espira; consiste nel sospendere il proprio pensiero, nel lasciarlo disponibile e permeabile all’altro. Scriveva Simone Weil a Joe Bousquet nel 1942, un anno prima di morire: «L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono. Fin dalla mia infanzia non desidero altro che averne ricevuto, prima di morire, la piena rivelazione». E in “L’ombra e la grazia” sosteneva: «Il poeta produce il bello con l’attenzione fissata su qualcosa di reale. Lo stesso avviene con l’atto d’amore. Sapere che quest’uomo, che ha fame e sete, esiste veramente come me, questo basta, il resto viene da sé».

Talento
«A chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha» (Matteo 25,30). È una conclusione sorprendente quella di Gesù alla fine della parabola dei tre servi cui il padrone ha affidato i propri beni, in misura diversa – cinque talenti, due, uno – con la speranza di vederli fruttare al suo ritorno. Sembra il trionfo dell’ingiustizia, eppure la logica di Gesù ha un senso, che dobbiamo scoprire. Per prima cosa ci domandiamo cos’è un talento? Come lo intendiamo oggi? Potremmo cercare tra alcuni sinonimi quali: dono, dote, capacità, attitudine, ingegno, genialità.
Per i babilonesi e i sumeri il talento era un’unità di misura corrispondente alla massa d’acqua – il bene più prezioso – necessaria a riempire un’anfora. Diventò presto un’unità di misura commerciale e monetaria in base a cui definire il valore di qualcosa e il prezzo per comprarla. Nella parabola evangelica talento corrisponde a un dono ricevuto. Secondo il diritto romano, invece, la dote è l’insieme dei beni che la famiglia della futura sposa deve portare al marito. Si mescolano così l’idea di dono con quella di patrimonio “naturale”, e nasce il concetto romantico del genio, di colui che è dotato per natura di speciali qualità, come se ci fosse chi ha talento e chi no.
Alla fine sembra che il talento sia qualcosa di fatale, nel senso che niente dipende da noi. Forse è questa la ragione del rimprovero del padrone del talento consegnato al servo infingardo. Ti ho affidato un dono: perché non ti sei impegnato a coltivarlo? Se fosse stato tuo, avresti fatto lo stesso? Questa domanda è rivolta anche a noi. Tutti abbiamo delle capacità naturali – per chi ha fede, sono doni di Dio – che meritano di essere messe a frutto. Il problema magari è che ci vengano riconosciute, che qualcuno abbia fiducia in noi e ci incoraggi a tirarle fuori. Ma una volta che ci siamo resi conto delle abilità che abbiamo non ci sono scuse: tocca a noi impegnarci, non è necessario essere geni per fare quello che si può con quello che c’è.
La paradossale conclusione evangelica, allora, non apparirà più come somma ingiustizia, piuttosto come la soddisfazione per il risultato dell’alleanza tra dono e impegno, oppure come la realistica conseguenza dello spreco di una bella opportunità. Per fortuna, almeno il Signore non si stanca di offrirci sempre nuove possibilità, nonostante ritardi e fallimenti. Però è anche vero che i doni sprecati ci rendono più poveri, mentre quelli messi a frutto rendono migliori noi e gli altri. Il cantautore Jacques Brel amava ripetere che l’essere umano necessita di un solo talento: avere dei sogni. «Il talento è solo la voglia di fare qualcosa. Tutto il resto è sudore, traspirazione, disciplina».

Carità
«Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». A questa domanda risponde Gesù, nella veste inusuale e severa di giudice dell’umanità: «tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me» (Matteo 25,44-45). Potrà anche sembrare una sorpresa imprevedibile per chi pensava che la discriminante sarebbe stata la fede, ma su questo i credenti non possono aver dubbi: tutti saremo giudicati sulla carità. Si tratta di qualcosa di diverso dalla commiserazione per gli sfortunati, dalla beneficienza ai bisognosi, dalla filantropia verso gli indigenti. Diceva il beato Federico Ozanam: «Gli è che la carità fu compromessa da coloro che la praticarono male, dalla filantropia, più prodiga di discorsi che di sacrifici, dalla beneficenza sdegnosa, dallo zelo indiscreto. Sta a noi sradicare questi vizi che rendono l’elemosina umiliante al povero e sterile davanti a Dio» (Rapporto all’Assemblea Generale, Parigi, 2 agosto 1848 – Bulletin de la Société de S.Vincent de Paul, vol. I, pag. 39).
Per essere criterio di discernimento universale, la carità dev’essere qualcos’altro dalla scelta facoltativa di fermarsi su chi è caduto in disgrazia, oppure di passare oltre. Mangiare per chi ha fame, bere per chi ha sete, essere accolto per chi è straniero, vestirsi per chi è nudo, ricevere assistenza per chi è malato, essere visitato per chi è in carcere: sono diritti che obbligano, non gentili concessioni. Questa è la ragione dell’universalità del giudizio: tutti saremo valutati su queste azioni omesse o compiute. Indipendentemente dal riconoscimento della persona di Gesù nei più piccoli e vulnerabili, il discorso ha un senso che va al di là della dimensione religiosa, perché la precede e la fonda. Quando si dà qualcosa a chi ne ha bisogno non si fa la carità, si paga un debito.
Nella testimonianza più limpida degli interpreti autentici della tradizione cristiana, la carità non ha mai vestito gli stracci della pietà, ma ha sempre indossato l’abito solenne della giustizia. «Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro. Più che compiere un atto di carità, adempiamo un dovere di giustizia» (san Gregorio Magno, Regula pastoralis 3,21). Il concilio Vaticano II lo ha ripetuto con chiarezza: «siano anzitutto adempiuti gli obblighi di giustizia, perché non avvenga che si offra come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia» (Apostolicam actuositatem 8). Imparando a piangere anche con chi è causa del proprio male, senza lasciarlo a se stesso, ci renderemo conto che in qualche misura siamo parte del problema, perciò abbiamo il dovere di provvedere alla soluzione. Ricordando però che la giustizia senza carità è come un vestito bagnato addosso a chi ha freddo.

Sorpresa
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento» (Marco 13,33). Il tempo di Avvento comincia con questo avviso di Gesù. L’accento cade contemporaneamente su ciò che sta per accadere e sull’atteggiamento necessario per non essere impreparati. Sorpresa e prontezza sono le parole chiave del discorso. Qualcosa sta per succedere: potrebbe venire il ladro nella notte, tornare lo sposo dalla festa, rientrare il padrone da un viaggio. I diversi scenari che Gesù prefigura con le parabole rivolte al futuro fanno sorgere spontanea la domanda: che cosa dovrà mai accadere? C’è davvero da temere per l’avvenire? Sembra infatti che l’incognito debba per forza essere minaccioso. Ecco allora che vigilanza, attenzione, preparazione si caricano di preoccupazione piuttosto che di lieta speranza. Probabilmente dipende anche dai temperamenti: il pessimista vede tutto nero, l’ottimista considera più scenari. Ma sicuramente c’è dell’altro.
Niente di ciò che non conosciamo può essere del tutto inquietante. Tutti abbiamo la possibilità di sperare invece di scoraggiarci, di reagire anziché venir travolti dalle prove. Entra dunque in gioco il tema della sorpresa, non tanto per la qualità negativa o positiva di quel che capiterà, ma per la buona disposizione alla meraviglia e allo stupore. Per affrontare la novità occorrono occhi incantati, sognanti, come quelli dei bambini, perché il non sapere incuriosisce e permette d’imparare. Presumere o disperare sono cose da adulti che confidano molto in se stessi o troppo poco. Conviene allora fidarci di più delle capacità che abbiamo nel far fronte alle difficoltà che verranno, così come siamo capaci di impegnarci e di lottare per ciò che ci sta a cuore. Ma questo non si fa da soli, come insegna papa Francesco: «Com’è importante sognare insieme! Da soli si rischia di avere dei miraggi, per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme» (Fratelli tutti 8).
Chi si dispone in questo modo alla sorpresa non cade nell’illusione: accoglie la realtà e la trasfigura con sguardo fiducioso e un po’ di coraggio. I virus non scompaiono solo con i vaccini, se il gregge non diventa immune dall’egoismo; il commercio non riprende senza onestà e giustizia; il mondo non diventa migliore solo se tutti invecchiamo di più. Merita perciò riflettere anche sulle sagge parole del Dalai Lama: «Quello che mi ha sorpreso di più negli uomini dell’Occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute. Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere né il presente né il futuro. Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto».

Essenziale
«Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico» (Marco 1,6). Nel tempo di Avvento, il vangelo considera il Battista una delle figure che meglio rappresentano l’attesa della novità di Gesù. Un personaggio singolare, figlio di un sacerdote del tempio e di Elisabetta, la cugina di Maria, lontano dalla vita pubblica, che grida nel deserto e attira molta gente. La descrizione evangelica ce lo fa immaginare come un uomo rude, forse invasato, certamente uno che punta all’essenziale, nello stile e con le parole.
Proprio su questa caratteristica – l’essenziale – vogliamo fare una breve riflessione, che ci sia utile nel tempo che viviamo, in cui siamo costretti a decidere cosa conta davvero. Se qualcuno ci invitasse a fare un viaggio, senza precisare né la mèta né limite di tempo, e fossimo disposti ad accettare una sfida così incerta, cosa porteremmo con noi? Lo scenario può apparire irreale. Allora prendiamo un altro esempio. Mettiamo che sia avvenuta già una prima scossa di terremoto, e siamo riusciti a scendere in strada per paura della successiva ancora più forte: cosa abbiamo preso con noi? Cosa abbiamo lasciato?
Certo, non vorremmo mai trovarci in situazioni simili, ma sappiamo che purtroppo a molte persone è successo. Forse bisognerebbe chiederlo a loro. Però è anche vero che, per tutti, ci sono momenti in cui si è costretti a scegliere cosa trattenere e a cosa rinunciare. Qui si pone il problema di ciò che è essenziale, quello di cui non possiamo fare a meno, siano persone o cose. Si potrà giustamente osservare che non si può prevedere il caso estremo: ognuno risponderà con l’istinto di sopravvivenza e di conservazione. Questo però vale nel caso della minaccia della vita. Forse pensare ai casi limite ci aiuta a considerare meglio quello che viviamo quotidianamente. Per esempio, a quante cose superflue accumuliamo, a ciò che ci affanna, e poi vediamo che è stata fatica sprecata. Magari, tornando indietro, avremmo fatto diversamente.
Il tempo di Avvento, per chi ha il dono della fede in Gesù, è un richiamo all’essenziale, al cuore del Vangelo: necessaria è la carità, soprattutto verso i più deboli, senza la quale non siamo nulla (cfr. 1Cor 13). E per coloro che non la pensano così, o perlomeno non ritengono fondamentale rivolgersi ad altri fuori dal cerchio di parenti e amici stretti? Cos’è di capitale importanza, proprio in questo tempo che ci incupisce tutti a causa della pandemia? Sicuramente c’è qualcosa che ci unisce, specialmente nei momenti di crisi: l’urgenza di scegliere tra indispensabile e secondario. Ma questo dipende dalla libertà di ciascuno, e nessuno può pretendere di fare classifiche valide per tutti. Forse però merita riflettere su quanto suggeriva Antoine de Saint-Exupéry, l’autore del “Piccolo principe”: «Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi».

Testimone
Il vangelo dice di Giovanni Battista: «Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce» (Giovanni 1,8), ripetendo più volte che egli era un testimone. In che senso però egli è un testimone? Il riferimento alla luce fa pensare un po’ al rapporto tra il sole e la luna. Il sole brilla di luce propria, la luna risplende di luce riflessa, e così testimonia che dietro c’è il sole. Forse il quarto evangelista pensa a questo, anche perché è Gesù stesso che si definisce “la luce del mondo”.
In genere, con testimone s’intende uno che ha visto e rende conto ad altri, per esempio ad un tribunale. Si può presentare spontaneamente o è chiamato dalle parti, si trova in mezzo ad affari altrui e ci mette la faccia. Giura di dire la verità, e da quello che depone ne va della libertà o meno di altri. Il significato giuridico, tuttavia, restringe l’orizzonte ben più ampio della testimonianza. Chiunque di noi, ogni giorno, fa esperienza di cose che vede, ascolta e conserva nella mente e nel cuore: di fatto, siamo custodi di memoria e di verità. Si diventa testimoni nel momento in cui qualcun altro ci domanda conto di ciò che solo noi possiamo raccontare, dal momento che ne sappiamo qualcosa in maniera diretta. Entra allora in gioco il nostro rapporto con la memoria e la verità. Siamo chiamati a rendere conto di eventi, persone e parole che ricordiamo e di cui siamo certi.
Anche se non sembra del tutto evidente, ognuno di noi, con il proprio modo di essere e di relazionarsi, dà testimonianza, perché rivela, anche quando pensa di nascondere. Siamo tutti in continua tensione tra manifestazione e nascondimento. Gli altri ci percepiscono non solo per quello che intendiamo mostrare: se ci guardano attentamente, ci colgono anche al di là del modo con cui vogliamo essere visti. Perciò diventiamo praticamente testimoni nonostante pensiamo di non esserlo. Questo è un fatto confortante e preoccupante al tempo stesso, perché la verità delle persone prima o poi viene fuori.
Ma c’è un altro livello del discorso, un po’ più impegnativo. Ci sono momenti della vita in cui è necessario il coraggio di esporsi, e sono quelli in cui ne va delle persone a cui vogliamo bene. Non solo: in certe occasioni, specialmente quando si tratta di difendere chi è più debole e ci sta rimettendo, siamo chiamati a metterci in gioco davvero. Il testimone, infatti, diventa tale per la sua affidabilità, perché non ha interessi personali; è credibile quando non guadagna nulla per sé e ottiene giustizia per l’altro. Non è necessario qui pensare alle cause nei tribunali, basta ricordare quelle circostanze quotidiane in cui potremmo vincere la tentazione dell’omissione, magari ascoltando l’invito del Mahatma Gandhi:
«Prendi un sorriso, regalalo a chi non l’ha mai avuto.
Prendi un raggio di sole, fallo volare là dove regna la notte.
Scopri una sorgente, fa’ bagnare chi vive nel fango.
Prendi una lacrima, passala sul volto di chi non ha mai pianto.
Prendi il coraggio mettilo nell’animo di chi non sa lottare.
Scopri la vita, raccontala a chi non sa capirla.
Prendi la speranza e vivi nella sua luce.
Prendi la bontà e donala a chi non sa donare.
Scopri l’amore e fallo conoscere al mondo».

Grazia
«Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te» (Luca 1,28). Con questo saluto l’arcangelo Gabriele si presenta a Maria, la ragazza di Nazaret che sarà mamma di Gesù, il Figlio di Dio umanato. Ma che cos’è la grazia? Usiamo questa parola per dire cose diverse, eppure collegate tra loro in qualche modo. Quando siamo favorevolmente colpiti dalle qualità naturali di una persona delicata, fine, piacevole. Quando siamo sorpresi di ricevere la concessione generosa e straordinaria di un favore inaspettato. In qualche caso eccezionale, si tratta anche del decreto del capo dello stato nei confronti di un singolo condannato, con cui la pena inflitta viene condonata in tutto o in parte, o viene commutata in altra specie di pena stabilita dalla legge.
Grazia è comunque dono ricevuto senza alcun merito: la bellezza naturale, il regalo immotivato, il condono della pena. Nel caso di Maria vi è qualcosa in più e di altra qualità: la pienezza, ovvero diventare madre per opera esclusiva di Dio. Questo credono i cristiani a Natale. In che senso, allora, ci riguarda questa grazia, che non è solo per lei e per Giuseppe suo sposo, ma anche per l’umanità intera?
Ci sono molte cose nella vita che dobbiamo conquistare col sudore della fronte, che dipendono dal nostro impegno, che richiedono fatica e dedizione. Ma non tutto è nelle nostre mani. Se facessimo un bilancio tra ciò che realizziamo con le nostre forze e quello che capita e siamo costretti ad accettare, chissà quale risultato verrebbe fuori? Siamo convinti di essere liberi, di poterci autodeterminare, e se avvertiamo l’impossibilità di decidere ci sentiamo limitati e insoddisfatti. Di fatto la condizione umana oscilla continuamente tra libertà e condizionamenti, soprattutto quelli che non scegliamo. Talvolta però sopravvengono eventi non previsti, incontri sorprendenti, e proprio in questi casi lo sguardo interiore è capace di riconoscere una grazia. Perché è degli esseri umani imparare, prima o poi, che il bene che speriamo ci viene incontro, supera le attese, oltrepassa le aspirazioni, e non può che passare attraverso le relazioni.
Come scriveva la filosofa tedesca Hannah Arendt: «Per la conferma della mia identità io dipendo interamente dagli altri; ed è la grande grazia della compagnia che rifà del solitario un “tutto intero”, salvandolo dal dialogo della riflessione in cui si rimane sempre equivoci, e ridandogli l’identità che gli consente di parlare con l’unica voce di una persona non scambiabile». Solo il dono della compagnia ci fa veramente nuovi, e questa è la grazia del Natale: un Dio piccolo nel seno di quella ragazza di Nazaret, bisognoso di essere abbracciato, per dirci che possiamo ancora sperare.

Figli
«Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Luca 2,33). I figli stupiscono, meravigliano, cominciando da quando mamma e babbo tengono in braccio i propri bambini per la prima volta. Tutta la vita sarà una scoperta della loro novità: irriducibile, incantevole, persino soprannaturale. Un figlio è un miracolo: dono dall’alto che sorge dal basso. Viene da un altrove che non ci appartiene. L’umanità è fatta di figli più che di genitori, perché tutti siamo generati, ma non tutti abbiamo figli. Scoprire perché siamo al mondo, perché siamo fatti così, a che cosa saremo destinati è l’avventura umana. Misteriosa la libertà che crediamo ci sia data, segnati come siamo dalla determinazione dei cromosomi, scolpiti dai tratti somiglianti dell’origine, eppure vocati ad irriducibile alterità.
La vita non solo si trasmette, prima ancora la si accoglie. La scelta responsabile di generare non è separabile dalla risposta generosa ad una offerta che ci trascende. Questa è la prospettiva fondamentale in cui comprendere l’importanza della fecondità di cui i coniugi sono custodi e non proprietari. Nessun automatismo vale a giustificare quello che è sempre e comunque un dono e mai un diritto. Venire al mondo, dunque, non è mai un errore, anche quando i figli sono rifiutati, abbandonati o sono frutto di violenza. Se non vengono protetti dai genitori, è responsabilità degli altri membri della famiglia custodirli. Non è vero che i figli abbandonati non sono di nessuno: appartengono a tutti, e chi è più vicino deve farsene carico.
Da come si è amati fin dai primi istanti di vita, dalla tenerezza con cui si è protetti e incoraggiati dipenderà molto della propria futura autostima, della fiducia in sé stessi, persino della propria percezione di Dio. Il prodotto finito – o meglio, semilavorato – di cui i genitori potranno andar fieri quando il figlio si renderà finalmente indipendente e pronto a seguire la propria strada, ha una sola etichetta: la libertà. Aver fatto il possibile per rendere un figlio libero significa averlo accolto, custodito e messo in condizioni di rispondere all’amore.
Una famiglia col cuore grande sarà capace di offrire il proprio calore domestico ai più deboli e ai feriti dalla vita, a quelli che hanno la famiglia a pezzi o sono pezzi di famiglia. Come scrive papa Francesco in Amoris laetitia: «Questa famiglia allargata dovrebbe accogliere con tanto amore le ragazze madri, i bambini senza genitori, le donne sole che devono portare avanti l’educazione dei loro figli, le persone con disabilità che richiedono molto affetto e vicinanza, i giovani che lottano contro una dipendenza, le persone non sposate, quelle separate o vedove che soffrono la solitudine, gli anziani e i malati che non ricevono l’appoggio dei loro figli, fino a includere nel loro seno “persino i più disastrati nelle condotte della loro vita”» (n. 197).

Leggerezza
«Vide aprirsi i cieli e lo Spirito discendere su di lui come una colomba» (Marco 1,10). Questa immagine, scolpita nella scena del battesimo di Gesù, esprime il delicato tocco divino, e ci invita a riflettere sul tema della leggerezza, oggi particolarmente utile a chi, come noi, a causa della pandemia, vive immerso nella pesantezza di tutti i giorni, nello stress, nella rabbia, nell’insoddisfazione, nelle delusioni per le aspettative mancate. È possibile prendere le cose in maniera più leggera – certo non con superficialità – in modo che la nostra vita e quella degli altri non ci soffochi?
Nelle sue Lezioni americane, Italo Calvino scriveva: «Prendete la vita con leggerezza, ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore». Talvolta capita di aggiungere pesi su pesi, soprattutto interiori, quando è ridotta la libertà di movimento, quando ci assillano le responsabilità verso chi amiamo, e la paura di non farcela ci assale. È allora il momento di non dare peso all’inessenziale, di cominciare a planare sulle cose. Essere leggeri significa fare un passo avanti rispetto a chi rincorre l’eccesso, senza mai trovare pace.
Facciamo una breve riflessione a partire dal film cult di Zemeckis, Forrest Gump (1994). Le stesse due scene che aprono e chiudono il film, che ci mostrano il volteggiare di una piuma, costituiscono la dichiarazione poetica del film: l’elogio della leggerezza. Forrest vive e narra la sua esistenza, in cui si accumulano esperienze pesanti ed estreme, ogni volta condotte al massimo di possibilità. È un bambino “ritardato” bullizzato, che corre come il vento; diventa eroe sportivo, di guerra, runner instancabile, imprenditore multimilionario. Percorre e ripercorre la vita con la disarmante leggerezza che il suo deficit cognitivo gli comporta. Eppure, in tanta innocente parziale incoscienza, Forrest mostra di cogliere il cuore essenziale della vita: la fedeltà ai legami di amore e di amicizia, che lo accompagnano e lo conducono fino alla possibilità di protendersi con gentilezza verso tutti. Con senso di amorevole e tenera cura verso la vita che muore, e che, in modo improbabile, come tutto nella sua storia, nasce e cresce accanto e da lui, nel piccolo Forrest, suo figlio.
Anche noi faremo esperienza di leggerezza dando meno peso alle cose materiali, che preoccupano molti, e prendendo più sul serio le persone che contano meno. Ciò equivale a donare e a togliere, al tempo stesso, qualcosa nelle relazioni. Concretamente vuol dire: accogliere senza trattenere, custodire senza possedere, abbracciare senza soffocare, condividere senza sprecare, curare senza pretendere di guarire, lavorare senza affannarsi, raccogliere senza accumulare, partecipare senza protagonismo.

Cercare
«Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: “Che cosa cercate?”» (Giovanni 1,38). Cercare è il verbo di oggi. In generale, vuol dire «adoperarsi per trovare o ritrovare cosa o persona» (Treccani). Ovvero, impegnarsi per trovare qualcosa di nascosto o ritrovare ciò che si è perduto. La vita è fatta di ricerche, da mattino a sera, e non solo: i sapienti antichi amavano la notte, e di certo anche i ladri di ogni tempo. Gli artisti e i poeti attendono l’ispirazione, gli studiosi sudano sulle carte, gli scienziati cercano le formule, i medici le cure, i filosofi le idee, gli affaristi i quattrini, i senza tetto un luogo riparato dal freddo e dalla pioggia. Ognuno s’ingegna come meglio può per raggiungere uno scopo, per ottenere ciò che gli sta a cuore, e non risparmia energie. Per alcuni è un tormento, per altri un’avventura, per tutti una sfida. Ma il risultato, aldilà di ogni sforzo, appare sempre come una grazia.
Cercare sembra una scelta, in realtà è una necessità: non saremmo viventi, né tantomeno umani. Vi è un insopprimibile bisogno di vita che spinge a cercare nutrimento, amore, riposo e casa. Quando si spegne, vuol dire che siamo ammalati. In una delle sue prime udienze generali, papa Francesco diceva: «L’uomo è come un viandante che, attraversando i deserti della vita, ha sete di un’acqua viva, zampillante e fresca, capace di dissetare in profondità il suo desiderio profondo di luce, di amore, di bellezza e di pace. Tutti sentiamo questo desiderio!» (8 maggio 2013). C’è chi assapora per un istante il frutto della propria fatica, e chi non trova mai pace. A questa insopprimibile aspirazione sembra di essere condannati. In realtà, è la leva interiore che dà senso all’esistenza e ne rivela l’incompiutezza: «Un cuore che cerca sente bene che qualcosa gli manca; ma un cuore che ha perduto sa di cosa è stato privato» (Johann Wolfgang von Goethe).
Abbiamo tutti bisogno di sollevare lo sguardo, di salire come nani sulle spalle dei giganti e vedere più lontano, per cercare la verità dovunque si trovi. Nel XVI secolo, Michel de Montaigne scriveva nei suoi Saggi: «Io accolgo a braccia aperte la verità e la accarezzo ogni volta che la trovo, non importa in quali mani sia, e a lei mi arrendo con letizia» (III, 8), riconoscendo tuttavia che solo la continua ricerca rende liberi, poiché «solo i folli sono sicuri e risoluti» (I, 26). A suo modo, con lo stesso spirito libero e in cerca di verità, Francesco Guccini cantava in Cirano:
«Venite gente vuota, facciamola finita,
Voi preti che vendete a tutti un’altra vita;
se c’è, come voi dite, un Dio nell’infinito
guardatevi nel cuore, l’avete già tradito
e voi materialisti, col vostro chiodo fisso,
che Dio è morto e l’uomo è solo in questo abisso,
le verità cercate per terra, da maiali,
tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali;
tornate a casa nani, levatevi davanti
per la mia rabbia enorme mi servono giganti».

Prossimità
«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Marco 1,15). La vicinanza della signoria di Dio è il cuore dell’annuncio di Gesù, il Figlio che s’immerge nell’umanità per risollevarne il destino. Per i credenti questa è una buona notizia, per tutti una faccenda su cui riflettere. Vicino vuol dire prossimo, a breve distanza interiore più che fisica. Proviamo perciò a ragionare sulla prossimità come scelta decisiva, proprio in un tempo in cui si raccomanda la distanza di sicurezza. Fa pensare la storia del buon samaritano, presa da papa Francesco, nell’ultima sua enciclica, come specchio in cui si riflettono molti tratti della nostra vita odierna, perché: «tutti abbiamo qualcosa dell’uomo ferito, qualcosa dei briganti, qualcosa di quelli che passano a distanza e qualcosa del buon samaritano» (Fratelli tutti 69).
A chi di noi non capita d’incontrare per strada persone con lo sguardo smarrito, il capo chino, l’andatura incerta, che tradiscono solitudine, paura, sconforto? Mai come in questi giorni non si riescono a camuffare i sentimenti più nascosti. Vedi uno con la mascherina abbassata e lo giudichi irresponsabile. Passa un altro troppo vicino e ti affretti a scansarlo. Due o tre siedono a un caffè e li guardi perplesso. Rischiamo così di diventare ossessivi, dibattendoci continuamente tra sentimenti opposti. Ma davvero questa situazione ci giustifica nel rimanere lontani, diffidenti, sospettosi di tutto e di tutti?
Accorgersi dell’altro, che ci passi accanto o sia distante, è un dono inatteso, una luce che si accende dentro, fa vedere oltre, al di là di sé, e spinge il cuore in avanti. Ci si può anche sentire più soli che mai, persino compagni di sventura, mai però totalmente estranei all’umano comune bisogno di compagnia e di prossimità. Nelle sue meditazioni Verso Gerusalemme, il cardinale Carlo Maria Martini scriveva: «Essere nel deserto vuol dire accorgersi di chi, ai lati della strada, è più disperato di noi, più solo di noi; vuol dire vivere la prossimità. Nel deserto, infatti, la prossimità è come più immediata, perché si comprende il bisogno di chi è più solo di noi».
All’incontro con chi è più debole, ferito o mezzo morto cadono le maschere, si viene fuori per ciò che si è veramente: «Nei momenti di crisi la scelta diventa incalzante: potremmo dire che, in questo momento, chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito o sta portando sulle sue spalle qualche ferito» (FT 70). La vita scorre, il tempo passa, rimane solo quanto donato senza calcolo e senza rumore, che altri occhi oltre quelli di Dio non hanno visto. Non sarà mai stato inutile aver speso qualche briciola di tempo a raccogliere frammenti di umanità – ci rammenta Emily Dickinson:
«Se io potrò impedire
a un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano
Se allevierò il dolore di una vita
o guarirò una pena
o aiuterò un pettirosso caduto
a rientrare nel nido
non avrò vissuto invano».

Insegnare
«Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava. Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi» (Marco 1,21-22). Da dove viene l’autorevolezza di un buon maestro, com’era Gesù? Potrà sembrare un po’ strano parlare d’insegnamento, specialmente oggi, con tutte le difficoltà che docenti e studenti di ogni ordine e grado debbono affrontare a causa della pandemia. Forse proprio per questo merita ragionarne, anche se in genere va più di moda parlare d’informazione piuttosto che d’insegnamento, per via del sapore antiquato del termine. Ovviamente, la questione non riguarda soltanto la scuola e la didattica, ma la ben più ampia esperienza – offerta e ricevuta mediante parole ed esempi – che permette di conoscere, decidere e agire liberamente. Se qualcuno non t’insegna, è difficile diventare persone in grado di autodeterminarsi, di crescere e di lavorare.
Per molto tempo si è creduto che l’insegnamento consistesse principalmente nell’accumulo di nozioni, dalle quali si è presa distanza considerando piuttosto il metodo. In contesti diversi da quello occidentale, invece, è prevalsa la forma sapienziale, diversa dal sapere che cosa e come. Un rischio odierno, globalizzato, viene dalla massa di informazioni che ci investono, vere o false che siano. Come se chi ne ha di più sapesse stare meglio al mondo. Allora, come imparare, e da quali maestri? Chi di noi non ha incontrato professori ossessionati, frustrati e frustranti? Come pure insegnanti attenti ai giovani, entusiasti ed entusiasmanti, veri maestri di vita oltre che di cultura? Don Lorenzo Milani scriveva: «Spesso gli amici mi chiedono come faccio a fare scuola e come faccio ad averla piena. Insistono perché io scriva per loro un metodo, che io precisi i programmi, le materie, la tecnica didattica. Sbagliano la domanda, non dovrebbero preoccuparsi di come bisogna fare per fare scuola, ma solo di come bisogna essere per poter fare scuola» (Esperienze pastorali – LEF, Firenze 1957, p. 239).
Quando s’incontrano adulti generosi e appassionati – specialmente in età giovanile – in grado di infondere fiducia, che partono da ciò che siamo e valorizzano il più piccolo passo in avanti, è allora che impariamo a ragionare con la nostra testa, diventiamo persone libere, capaci di affrontare nuove sfide, invece di evitarle. Ancora don Milani, nel suo “testamento pedagogico”, raccomandava: «Non ho bisogno di lasciare un testamento con le mie ultime volontà perché tutti sapete cosa vi ho raccontato sempre: fate scuola, fate scuola; ma non come me, fatela come vi richiederanno le circostanze». E poco prima di morire ripeteva: «Guai se vi diranno: il Priore avrebbe fatto in un altro modo. Non date retta, fateli star zitti, voi dovrete agire come vi suggerirà l’ambiente e l’epoca in cui vivrete. Essere fedeli a un morto è la peggiore infedeltà» (Dalla testimonianza di Adele Corradi).

Guarire
«Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demòni» (Marco 1,34). Con queste poche parole, il vangelo sintetizza l’agire di Gesù in mezzo a malati e indemoniati. Gente disastrata dalla vita, poveracci scartati da tutti, a cominciare dalle autorità religiose. Avvicinare chi sta male, per varie ragioni, non è facile per nessuno. Dalla sofferenza altrui si fugge: è una minaccia per la propria incolumità. Purtroppo lo sappiamo bene specialmente di questi tempi, assediati come siamo dalla paura del contagio. Questa è una situazione estrema, alla quale però si affiancano le relazioni quotidiane, anche senza la pandemia, quando s’incontra il dolore feriale.
Ci si può ammalare, si possono ammalare gli altri. Due diversi modi segnano il confine tra salute e malattia. Altro è ciò che riguarda se stessi, altro quel che riguarda gli altri, ma in comune vi è la medesima prospettiva: il radicale cambiamento di sguardo. Quando ci si scopre malati, la visione del mondo si trasforma. La malattia sembra definire tutto l’orizzonte e persino l’identità: la persona non si percepisce più come libera, ormai è “malata”. Il futuro incerto si colora di scuro, la novità è minacciosa, ciò che non dipende da sé adesso riguarda tutto di sé.
Poi si ammalano gli altri, le persone care. Insieme all’empatia dell’affetto, insorge un sentimento confuso, come se il desiderio di vicinanza, di farsi prossimi al dolore venisse frenato: sei in una condizione diversa, che mi fa paura, per te, per me. Mi avvicino, mi prendo cura, ma ti sento e mi sento lontano. Se è vero che in tutti e in ognuno la malattia genera il mutamento di sguardo, allora è possibile che sia questo a dover prendere un’altra direzione, nei sani come nei malati. Mentre al dolore non si può impedire di restare avvolto nel mistero, si può consentire all’amore di dischiudere un mistero ancor più grande, l’unico che può davvero guarire tutti nell’animo.
Così scriveva Suor Ilaria nel suo diario: «Questa sera mi sono commossa vedendo una malata che mangiava un pezzo di pane e beveva un po’ d’acqua: la sua cena per questa sera! E l’altro con la febbre che si stava sdraiando su una panchina di 30 cm di larghezza… e ogni sera un malato portato sulla barella e quasi in coma. Mi sento impotente di fronte alla maggior parte delle situazioni. Alcune migliorano… ma dovessi dire perché, sarei veramente in difficoltà! Se ora è così, non oso pensare come sarà quando non ci saremo più né io né Sabrina. Eppure non posso pensare di essere indispensabile per nessuno, nemmeno per questo pezzo d’Africa. […] Gesù dove sei? Cerco nuovamente il tuo volto, soprattutto nel volto di questi malati? So gioire delle loro guarigioni? Donami la gioia di servirti in questi poveri, malati, sofferenti!» (Accetto tutto, 25 settembre 2002, p.185).

Purificazione
«Venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi purificarmi!”. Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, sii purificato!”. E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato» (Marco 1,40-41). Purificare è una parola antica, rituale, religiosa, che oggi s’imparenta col corrente “sanificare”, dovuto alla pandemia, per via della quale sanifichiamo quasi tutto: mani, ambienti, oggetti. Non basta pulire, detergere, disinfettare, c’è bisogno di qualcosa di più: di passare dall’infetto al sano, dall’impuro al puro. Nei tempi passati, la lebbra non riguardava solo una questione igienica e di salute, ma anche di contaminazione morale, proprio perché collegata in qualche strano modo al peccato. Quindi, di male in peggio: il lebbroso non era solo ammalato e segregato, ma anche considerato lontano da Dio.
Forse capita anche a noi di provare un certo disagio, non solo fisico, nei confronti di chi è trasandato, degli straccioni, di coloro che vivono per strada. Magari siamo tentati di pensare che si trovano in quella situazione per colpa loro, se la sono scelta, meritata. Si replica così l’ingiustificata connessione tra male fisico e male morale: il poveraccio è causa del proprio male, dunque, pianga se stesso. Ma vi è di più: per purificarsi dal peccato, qualcuno crede che bisogna soffrire fisicamente. Niente di più lontano dal Vangelo di Gesù. Perché è lui a farsi carico di ciò che per noi è impossibile: accoglie il peccato, lo perdona, ci purifica col suo sangue, solo per amore, senza nostro merito. Per i credenti, la purificazione è un dono, non una conquista.
Ma la questione più seria è un’altra: credere di farcela da soli – che per qualcuno diventa lo scopo della vita. Quando non ci si sporca le mani credendo di mantenere puro l’animo; quando si guardano gli altri e ci si crede migliori; quando si giudica l’apparenza senza saper nulla di chi incontriamo; quando scarichiamo le responsabilità invece di assumercele; quando facciamo finta di non capire che tocca noi e non agli altri.
Rivolgendosi ai giovani, perché dessero “Uno scopo alla vita”, così scriveva Raoul Follereau, l’apostolo dei lebbrosi: «All’opera miei giovani amici! Mentre i Grandi preparano il suicidio dell’umanità o si divertono a giocare alle bocce nella stratosfera, la sconvolgente moltitudine dei Poveri si sforza di sopravvivere amandosi. È verso di loro che bisogna andare. È per loro che bisogna combattere. Sono loro che dobbiamo amare. Cercate uno scopo alla vostra vita? Mancano nel mondo tre milioni di medici: diventate medici. Più di un miliardo di esseri umani non sanno né leggere né scrivere: diventate insegnanti. Due uomini su tre non mangiano a sazietà: diventate seminatori e fate sorgere dalle terre incolte raccolti che li sazieranno».

Deserto
«Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana» (Marco 1,12). Il termine deserto è il sostantivo che indica un luogo arido, ma in origine è un aggettivo che significa “abbandonato” (participio passato di deserĕre, abbandonare). È un luogo senza vita, abitato solo dal vento, rovente di giorno e gelido di notte, lasciato a se stesso, pericoloso da attraversare. Chi ci va deve avere proprio un buon motivo, forse quello di scavarvi pozzi in cerca di petrolio, altrimenti il rischio è sicuro. Ma il nostro pensiero lo avverte anche come luogo incerto dell’anima: quando ti senti desolato, smarrito, senza riferimenti. Il deserto entra dentro quando sono assenti gli altri, se vengono a mancare o perché ti abbandonano. Senso di vuoto e aridità spaventano, per questo è difficile scegliere di avventurarvisi.
Anche Gesù vi è spinto dallo Spirito, a lui tocca solo il coraggio e la forza di restarci. Nel deserto si recano profeti ed eremiti, viandanti ed esuli lo percorrono, profughi e fuggiaschi tentano di attraversarlo. I leader delle grandi religioni vi hanno cercato i valori spirituali e terapeutici del ritiro, non per fuggire ma per trovare pace. Perché, come dice un proverbio Tuareg: «Dio ha creato le terre con i laghi e i fiumi perché l’uomo possa viverci. E il deserto affinché possa ritrovare la sua anima». Il deserto può diventare una strada per chi ha una meta, altrimenti è l’oblìo, dove ogni cosa scompare. Ma davvero si può risalire alle sorgenti della vita vagando tra dune sabbiose plasmate solo dal vento?
Nel suo primo messaggio alla città e al mondo, per la Pasqua del 2013, papa Francesco diceva: «Quanti deserti, anche oggi, l’essere umano deve attraversare! Soprattutto il deserto che c’è dentro di lui, quando manca l’amore». Oggi, anche noi siamo coinvolti in processi di desertificazione: quando non amiamo o non siamo amati, e perdiamo la fiducia di uscirne vivi. Ma nel deserto l’unica cosa da fare per sopravvivere è muoversi, camminare, non restare fermi. Solo così, anche nell’ora più buia, col cuore inaridito e la mente vuota, può germogliare la speranza, con la sorpresa di un dono inatteso.
Anna Frank scriveva nel suo Diario: «È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno l’ordine, la pace e la serenità».

Cambiamento
«Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (Marco 9,2-3). Trasfigurazione traduce il termine greco “metamorfosi” che qui indica il cambiamento nell’aspetto, la modifica della forma. Cambiare e al tempo stesso rimanere se stessi è la sfida dell’esistenza umana, dal fiore dell’infanzia alla maturità della vecchiaia. Tutto di noi è già nell’embrione, eppure diventeremo anche altro, e dipenderà da molti fattori. Difficile sapere quale percentuale ha la componente dell’esperienza rispetto a quella biologica. Potremmo anche essere contemporaneamente prigionieri liberi: da una parte condizionati, dall’altra capaci di autodeterminarci. Sicuramente sono le relazioni a plasmarci, a cominciare da quelle più antiche, genitoriali, principalmente materne.
Esistono però anche mutamenti involontari, totalmente indipendenti da noi. Può darsi che non siamo responsabili delle situazioni in cui ci troviamo, ma potremmo diventarlo se non faremo nulla per cambiarle. I cambiamenti di solito fanno paura: quella che per il bruco è una tragedia, per la farfalla è l’inizio del mondo. Qualcuno ritiene che rimanere sempre delle stesse convinzioni sia coerenza, qualcun altro invece pensa che sia meglio adattarsi. Si potrebbe anche concludere che sia solo questione di carattere: il pauroso è prudente, il coraggioso azzarda. Con questa alternativa però si esclude l’irrinunciabile necessità di essere flessibili, che bene o male vale per tutti.
Per trovare una via, così pregava san Tommaso Moro: «Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare, che io possa avere soprattutto la saggezza di saperle distinguere». Forse il problema non sta in ciò che accade mio malgrado, ma quel che ci faccio con ciò che accade. Qual è allora il criterio per scegliere tra immobilismo e cambiamento? Chi ha degli obiettivi fa di tutto, con la speranza di raggiungerli. Allo stesso tempo, però, intervengono elementi di disturbo, ostacoli che si frappongono, allora è il momento di discernere. Da ciò che siamo disposti a cambiare, senza rinunciare alla speranza, dipende il futuro. In altre parole, si tratta di decidere tra “Resistenza e resa” – come recita il titolo di uno libro di Dietrich Bonhoeffer, teologo protestante tedesco, protagonista della resistenza al Nazismo, morto nel Campo di concentramento di Flossenbürg – il quale scriveva: «L’essenza dell’ottimismo non è soltanto guardare al di là della situazione presente, ma è una forza vitale, la forza di sperare quando gli altri si rassegnano, la forza di tenere alta la testa quando sembra che tutto fallisca, la forza di sopportare gli insuccessi, una forza che non lascia mai il futuro agli avversari, il futuro lo rivendica a sé. […] Può darsi che domani spunti l’alba dell’ultimo giorno: allora, non prima, noi interromperemo volentieri il lavoro per un futuro migliore».

Indignazione
«Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio» (Giovanni 2,13-15). Si può rimanere sorpresi dalla forte reazione di Gesù nei confronti dei venditori nel tempio, come pure trovarvi la spinta per sostenere con determinazione ciò in cui si crede. Al di là dello zelo che Gesù ha per la casa del Padre suo, l’episodio evangelico ci suggerisce di riflettere sul sentimento di sdegno che sorge in ciascuno di noi di fronte alle ingiustizie. L’indignazione nasce dal vivo risentimento per quel che offende il senso di umanità, di giustizia e la coscienza morale. Ci sono situazioni in cui nasce prepotente nell’animo un impeto che non sappiamo se è forte risentimento o addirittura rabbia. Forse vorremmo dominarlo, ma c’è un fuoco ardente difficile da spegnere. Allora come discernere? Che cosa fare?
Ci sono molti modi per reagire a ciò che contrasta con la legittima aspirazione al bene comune: alcuni si arrendono e subiscono, altri scelgono la forza, altri ancora preferiscono tentare la mediazione. Nei vari scenari del mondo esistono diverse forme di oppressione dei più deboli, come lo sfruttamento economico dei Paesi in via di sviluppo da parte dei più potenti. Tra questi, specialmente oggi, ci sono popoli che non vedranno una sola dose di vaccino. Per non parlare delle organizzazioni criminali e mafiose che sfruttano le situazioni di fragilità in cui versano intere nazioni.
Considerando queste situazioni, così si esprimeva papa Francesco: «ci dovrebbero indignare soprattutto le enormi disuguaglianze che esistono tra di noi, perché continuiamo a tollerare che alcuni si considerino più degni di altri. Non ci accorgiamo più che alcuni si trascinano in una miseria degradante, senza reali possibilità di miglioramento, mentre altri non sanno nemmeno che farsene di ciò che possiedono» (Laudato si’, 90).
L’indignazione è quell’impulso interiore che aspira a ristabilire la giustizia, ma riesce a non cedere a rabbia e violenza quando guarda oltre, e perciò sa trovare vie possibili di conciliazione, superando la logica del conflitto. Solo così possiamo passare dall’indignazione alla valorizzazione della dignità. A poco varrebbe, infatti, indignarsi senza impegnarci a costruire alternative dove venga rispettata la dignità di tutti. Merita dunque riflettere ancora sulle parole del papa nella sua ultima enciclica: «Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità» (Fratelli tutti, 68).

Luce
«Chiunque infatti fa il male, odia la luce […]. Invece chi fa la verità viene verso la luce» (Giovanni 3,20-21). La luce, quanto ne abbiamo bisogno in questo tempo oscuro! Molti ricorrono all’immagine del tunnel per rappresentare il sentimento comune in epoca di pandemia. La speranza di uscirne sembra totalmente riposta nell’efficacia dei vaccini, nella scoperta di cure adeguate, in definitiva nella scienza. Probabilmente sarà così, anche se fino ad ora ne abbiamo conosciuto l’incertezza e la fragilità. C’è stata perfino una stagione culturale incentrata sulla venerazione della ragione – l’Illuminismo – con la fiducia sfrenata nelle capacità umane, non di rado opposte a quelle di una fede ritenuta fin troppo onnipotente, ma di fatto incapace di rispondere a tutto.
Sono sempre esistite persone cosiddette illuminate, rischiarate da una luce superiore, riconosciute al di sopra degli altri per la capacità di vedere oltre: scienziati, artisti, poeti, sapienti, santi. L’incanto dell’illuminazione implica la diffusa sensazione di un talento non comune, dato a pochi, ma al quale tutti aspirano. Eppure anche per i migliori viene il momento delle tenebre, quando la vena s’inaridisce, tarda l’ispirazione, il risultato non arriva. Forse solo allora si comprende veramente cos’è la luce: che non esiste in sé, ma solo in ciò che ne viene colpito. Quando non ci sono più i colori ne avvertiamo l’assenza, nonostante il fascino consolatorio del bianco e nero, che spesso però diventa grigio. Questa è l’ora d’invocare il dono della luce, seppur tiepida, fosse anche solo un tenue bagliore, senza paura della verità, di cui non possiamo fare a meno.
A questo ci fa pensare il canto ispirato di Franco Battiato:
Difendimi dalle forze contrarie,
la notte, nel sonno, quando non sono cosciente;
quando il mio percorso, si fa incerto.
E non abbandonarmi mai…
Non mi abbandonare mai!
Riportami nelle zone più alte
in uno dei tuoi regni di quiete:
è tempo di lasciare questo ciclo di vite.
E non abbandonarmi mai…
Non mi abbandonare mai!
Perché le gioie del più profondo affetto,
o dei più lievi aneliti del cuore,
sono solo l’ombra della luce.
Ricordami, come sono infelice
lontano dalle tue leggi;
come non sprecare il tempo che mi rimane.
E non abbandonarmi mai…
Non mi abbandonare mai!
Perché la pace che ho sentito in certi monasteri,
o la vibrante intesa di tutti i sensi in festa,
sono solo l’ombra della luce.

Servire
«Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore» (Giovanni 12,26). Il verbo servire deriva dal latino servus, schiavo; in greco, pais indica sia il servo sia il figlio. Ci si riferisce comunque ad una relazione asimmetrica, quella da cui oggi prendiamo distanza, in favore di uguaglianza, fraternità e libertà, i valori propugnati con forza dalla Rivoluzione francese, richiamati anche da papa Francesco, con il loro respiro evangelico, nell’ultima enciclica Fratelli tutti (nn. 103-105). Al senso negativo di servire, tuttavia, se ne affianca anche uno positivo: a che serve una cosa, una persona? Qual è la sua utilità, il suo apporto, il suo valore?
Spesso capita di contrapporre il servizio al potere: si sta dalla parte di chi comanda o da quella di chi è sottomesso. In realtà, c’è un modo per superare l’alternativa, per esempio quando si rinuncia ad ottenere ad ogni costo ciò che si vuole, evitando di strumentalizzare l’altro, di renderlo funzionale al proprio interesse. Ciò che trasforma il potere in servizio è scegliere di donare invece di prendere, di partire dall’altro anziché da se stessi, di cercare cosa fa bene a tutti piuttosto che a solo a me.
Diceva l’imprenditore Adriano Olivetti: «La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica, giusto? Occorre superare le divisioni fra capitale e lavoro, industria e agricoltura, produzione e cultura. A volte, quando lavoro fino a tardi vedo le luci degli operai che fanno il doppio turno, degli impiegati, degli ingegneri, e mi viene voglia di andare a porgere un saluto pieno di riconoscenza».
Forse il modo migliore per non temere di perdere qualcosa è quello di donarla, come suggeriva Alessandro Manzoni:
«Occupati dei guai, dei problemi
del tuo prossimo.
renditi a cuore gli affanni,
le esigenze di chi ti sta vicino.
Regala agli altri la luce che non hai,
la forza che non possiedi,
la speranza che senti vacillare in te,
la fiducia di cui sei privo.
Illuminali dal tuo buio.
Arricchiscili con la tua povertà.
Regala un sorriso
quando tu hai voglia di piangere.
Produci serenità
dalla tempesta che hai dentro.
“Ecco, quello che non ho te lo dono”.
Questo è il tuo paradosso.
Ti accorgerai che la gioia
a poco a poco entrerà in te,
invaderà il tuo essere,
diventerà veramente tua nella misura
in cui l’avrai regalata agli altri».

Passioni
La settimana santa inizia con la lettura della «Passione di nostro Signore Gesù Cristo» (Marco 14,1-15,47). Origene, antico autore cristiano, meditando sulla via di Gesù verso il Calvario – come arcano disegno d’amore – scriveva: «Egli è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di partire la croce […]. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore». Passione e amore, dunque, appartengono intimamente al divino.
Ma anche nelle cose umane, l’amore viene sempre da più lontano di quanto immaginiamo – forse proprio per questo ci appare misterioso, persino trascendente – e spesso conduce oltre le previsioni. Quando sgorga potente, ha il colore acceso della passione, in molti sensi: è sofferenza fisica o spirituale, uno stato di forte e persistente emozione, al punto da sembrare in contrasto con le esigenze della razionalità. Ciò vale per ogni tipo di passione: artistica, sportiva, politica.
Molti però ritengono che le passioni accechino. In realtà, grazie ad esse si accendono visioni, speranze, sogni. Invece di tentare di liberarcene, sarebbe meglio provare a governarle, perché non sono solo causa degli affanni umani, ma anche delle nostre gioie. Si potrebbe cominciare col distinguere tra desiderio e amore: non tutto ciò che si ama si desidera, né tutto ciò che si desidera si ama. Talvolta, per amore si fanno follie, ma se tutto si riduce al desiderio rischiamo di naufragare, travolti dall’illusione. Invece, il tempo scopre la verità: si comincia con la passione, ma si resiste con la dedizione; all’inizio c’è il desiderio di ricevere, poi si scopre il piacere di donarsi.
Facendo un passo in avanti rispetto a una lunga tradizione sospettosa nei confronti delle passioni, papa Francesco ha scritto: «In realtà si può compiere un bel cammino con le passioni, il che significa orientarle sempre più in un progetto di autodonazione e di piena realizzazione di sé che arricchisce le relazioni interpersonali […]. Non implica rinunciare ad istanti di intensa gioia, ma assumerli in un intreccio con altri momenti di generosa dedizione, di speranza paziente, di inevitabile stanchezza, di sforzo per un ideale» (Amoris laetitia, 148).
A ben vedere, le passioni sono il sale della vita, senza il quale perde il sapore o, peggio ancora, rischia di marcire. Perciò conviene dare ascolto ad un saggio consiglio di Antoine de Saint-Exupéry: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare la legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito».

Indizi
«Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte» (Giovanni 20,6-7). Sono dettagli osservati da Pietro e dall’altro discepolo che si precipitano alla tomba vuota di Gesù. L’evangelista scrive che bastò la sola vista di questi particolari per credere. Troppo ordine per essere di fronte al trafugamento di un cadavere, questa è la conclusione che s’intuisce. Quindi sono sufficienti degli indizi, in mancanza di prove? Questo è il punto sul quale vogliamo brevemente riflettere, anche perché molte esperienze umane ci fanno concludere che le certezze su cui basiamo i nostri giudizi, in realtà, sono più fragili di quanto pensiamo: dipendono più da indizi che da prove.
L’indizio è un segno che con la sua presenza può indicare l’esistenza di un’altra cosa, non è inequivocabile, ci si può sbagliare, ma trascurarlo è peggio. La differenza tra un indizio e una prova sembra sottile: se vedo del fumo forse ci sarà del fuoco, anche se non so bene dove; se vedo della cenere, di sicuro c’è stato il fuoco. Ciò che distingue l’indizio è il dubbio, la sospensione del giudizio, in attesa di qualcosa in più che convinca; dunque è un appello, chiede di non fermarsi, di proseguire la ricerca. Invece, non di rado capita di cercare indizi che confermino l’impressione iniziale, per poi scartare tutti quelli che la contraddicono, con l’infelice esito di avanzare sospetti senza prove, e magari di emettere ingiuste condanne.
Eppure ci sono verità in cui crediamo senza bisogno che siano dimostrate: ci affidiamo, rischiamo, siamo anche disposti a sbagliarci, perché vale ciò che si vede più di quel che esiste realmente, e guai a chi dice che si tratta d’illusioni. L’amore e l’arte, ad esempio, funzionano così, e non sono meno reali della matematica o della scienza. Muovono il mondo delle relazioni più gli indizi delle prove: se mancano le evidenze siamo costretti ad esporci, oppure restiamo immobili. Esistono l’intuizione, la percezione, il fiuto: da queste viene la creatività, è il segno che in qualche misura siamo liberi, non costretti da previsioni, deduzioni, calcoli. Se si rimanda, la paura non viene meno; il coraggio cresce quando si agisce.
A volte, per chi è attento gli indizi, anche un povero grembiule abbandonato risorge a nuova vita – come scriveva Alda Merini:
«Mia madre invece aveva un vecchio grembiule
per la festa e il lavoro,
a lui si consolava vivendo.
In quel grembiule noi trovammo ristoro
fu dato agli straccivendoli
dopo la morte, ma un barbone
riconoscendone la maternità
ne fece un molle cuscino
per le sue esequie vive».

Dubitare
«Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (Giovanni 20,25). Il fatto che il quarto vangelo abbia conservato la brutta figura di Tommaso potrebbe sorprendere il lettore. Perché il Risorto cede alla sfida dell’apostolo incredulo? Solo per ammonire i futuri credenti, ché a loro non toccherà la stessa prova tangibile? O non piuttosto per accogliere e comprendere quello stato soggettivo d’incertezza che noi tutti conosciamo, per il quale esitiamo nel deciderci in un senso o nell’altro? Dubitare è umano, forse è proprio la molla che spinge a cercare la verità, anzi, talvolta sarebbe bene diffidare proprio di chi è troppo sicuro di possederla, specialmente quando incontriamo chi, per ogni cosa, ha più risposte che domande.
Chi dubita appare debole, insicuro o scettico. In realtà, non tutti hanno la prontezza di capire cosa scegliere, c’è chi invece potrebbe aver solo bisogno di tempo e di calma. Anzi, capita che si possano avere dubbi non solo per mancanza di conoscenza, ma anche per eccesso: tenere conto di troppi elementi prima di decidere può aumentare l’incertezza. Di sicuro bisogna evitare due estremi: dubitare di tutto e non dubitare di nulla. Dunque, come uscire dal ragionevole dubbio, specialmente quando si tratta di faccende importanti?
C’è sempre una buona dose di rischio quando si deve prendere una decisione. Se pretendiamo di avere la sicurezza di non sbagliare mai sarà ancora più complicato. Prendiamo ad esempio la questione della fede: dubitare non è l’opposto di credere, ma la condizione di chi può affidarsi, perché attratto dall’inevidenza che non costringe. Qualcosa di simile avviene con l’amore: chi ama attraversa di continuo il fragile ponte della fiducia e della speranza, con la persuasione che ne vale comunque la pena. È vero, abbiamo bisogno di certezze, di sciogliere i dubbi, mai però al prezzo di spegnere la meraviglia che suscita ciò che non si possiede. Come suggerisce Rainer Maria Rilke:
«Io temo tanto la parola degli uomini.
Dicono tutto sempre così chiaro:
questo si chiama cane e quello casa,
e qui è l’inizio e là è la fine.
E mi spaura il modo, lo schernire per gioco,
che sappian tutto ciò che fu e sarà;
non c’è montagna che li meravigli;
le loro terre e giardini confinano con Dio.
Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani.
A me piace sentire le cose cantare.
Voi le toccate: diventano rigide e mute.
Voi mi uccidete le cose».

Fantasmi
«Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho» (Luca 24,39). Il Crocifisso-Risorto cerca di rassicurare i discepoli desolati e sconvolti, che lo scambiano per uno spettro. In effetti, l’apparizione confonde il reale con l’illusorio: non è facile distinguere se ciò che si vede è frutto dell’immaginazione o esiste davvero. In ogni caso colpisce: la percezione soggettiva è qualcosa di reale. Ma come riconoscere se ciò che vedo è prodotto della mia fantasia o meno?
Secondo Aldo Carotenuto, abbiamo a che fare continuamente con fantasmi: «Incontrare il fantasma è fare i conti con l’ambiguità di ciò che è possibile definire “concepibile”: ciò che non è ma potrebbe anche esistere. O meglio ciò che costituisce quella zona d’ombra in cui sconfina – o da cui emerge – la qualità diurna, solare, cosciente del nostro comportamento» (Il fascino discreto dell’orrore, 1997).
Ci sono fantasmi che popolano la mente, turbano i sogni, alimentano le paure, ma anche quelli che invadono la vita reale, sconvolgono il quotidiano, appaiono per strada. Sono i poveri: che vorremmo invisibili, preferiremmo non esistessero, da cacciare come apparizioni inquietanti, perché minacciano la nostra tranquillità, tormentano il nostro quieto disinteresse, non ci lasciano in pace. Sono ossa rivestite di carne ferita che in silenzio attendono sguardo benevolo, delicato rispetto, cura amorosa.
Non vedere gli spettri umani sarebbe meglio, perché smascherano la nostra paura di rimanere soli, come loro. Forse i fantasmi che cerchiamo di fuggire abitano dentro di noi, non tanto come prodotto della mente, ma piuttosto come riflesso di chi incontriamo, e ci supplica di non evitare il sussulto del cuore, il dono di un sorriso, la mano tesa. Distogliersi dal proprio io potrebbe essere una buona via d’uscita per destarsi dall’incubo del compiacimento o della commiserazione – gli ingombranti abiti degli spettri. I versi di Emily Dickinson fanno pensare:
«Non c’è bisogno di essere una stanza,
non c’è bisogno di essere una casa,
per sentirsi infestati dai fantasmi.
La mente ha corridoi più vasti di uno spazio materiale.
È assai più sicuro un incontro a mezzanotte
con un fantasma esterno,
piuttosto che affrontare dentro di sé
quella presenza ben più raggelante.
È assai più sicuro galoppare
tra le minacciose pietre tombali di una abbazia,
piuttosto che incontrare inermi,
in solitudine, il proprio io».

Voce
«E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore» (Giovanni 10,16). Con questa similitudine, Gesù propone lo strano effetto del riconoscimento della sua voce di pastore anche da parte delle pecore di un altro ovile. Di solito si percepisce come nota la voce di chi si conosce, non quella degli estranei. Eppure esistono voci capaci di toccare così profondamente l’animo da risultare immediatamente familiari. Sembra questa la fiduciosa pretesa di Gesù nei confronti dell’umanità, compresi coloro che non lo conoscono: in modo misterioso, la sua voce parla ad ogni cuore.
Questa idea ci suggerisce una riflessione. La voce non è solo un mezzo che trasmette parole, idee, concetti. Dicono molto di più il tono e l’inflessione di quanto si vuol comunicare. È diverso dallo scrivere. Infatti, oggi specialmente i giovani preferiscono inviare messaggi vocali, perché è un modo più rapido e semplice, che richiede meno riflessione rispetto alla scrittura. La voce espone, rivela, tradisce il proprio stato d’animo e tocca le corde dell’emozione di chi ascolta. Non di rado capita di fraintendersi o di entrare in conflitto a causa del tono della voce più che per i contenuti delle affermazioni.
La voce esprime disponibilità e accoglienza o esitazione e resistenza. Sulle voci si riflette solo a distanza; quando siamo in presenza i sensi si attivano contemporaneamente – la vista, l’udito, l’olfatto – e la percezione è sintetica. La voce, invece, evoca memoria, suscita ricordi, risuona e sfugge al tempo stesso, oltrepassa i contenuti e va dritta al cuore. Quando viene a mancare una persona cara, si fa struggente la nostalgia della sua voce, sembra di sentirla ovunque, penetra nelle fibre più intime e solleva in alto – come ci ricorda Pablo Neruda:
«Canti e a sole e cielo col tuo canto
la tua voce sgrana il cereale del giorno,
parlano i pini con la lor lingua verde:
gorgheggiano tutti gli uccelli dell’inverno.
Il mare empie le sue cantine di passi,
di campane, di catene e di gemiti,
tintinnano metalli e utensili,
suonano le ruote della carovana.
Ma solo la tua voce ascolto e sale
la tua voce con volo e precisione di freccia,
scende la tua voce con gravità di pioggia,
la tua voce sparge altissime spade,
torna la tua voce carica di viole
e quindi m’accompagna per il cielo».
Se qualcuno ti parla sottovoce, aspetta che ti avvicini. Questa è la delicatezza di Dio con noi, e di chi ci vuole bene.

Legami
«Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Giovanni 15,5). Gesù offre ai suoi amici un legame buono, certo, fecondo. Egli assicura che chi resta con lui, nella fede, porta frutti duraturi di vita e di amore. Per capire l’importanza di un rapporto di questo genere occorre riflettere sui legami che meritano di essere custoditi. Ciascuno di noi fa esperienza di situazioni e relazioni in cui, ad un certo punto, tocca decidere se stare o andare. Ci sono legami che garantiscono stabilità, protezione e sicurezza: abbiamo paura di perderli. Altri, invece, nei quali s’insinuano esitazione, timore, pericolo: non sappiamo se è il caso di sottrarsi. Non è facile scegliere, in questi casi, se resistere o mollare. Che cosa fa decidere di rimanere in una situazione oppure di abbandonarla in cerca di altro?
Pensiamo, ad esempio, al luogo della nascita: da una parte trattiene, ci sono le radici, il passato, la memoria; dall’altra si affaccia il futuro necessario, che spinge in avanti, con le sue incognite e nuove opportunità. Su questo rifletteva Cesare Pavese: «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (La luna e i falò, 1950).
Se consideriamo l’amore, per questo, a volte si resta o si fugge; c’è chi non riesce ad andarsene e chi non sa rimanere. Non sempre siamo disposti a trovare un senso alla prova, per resistere con la fiducia di potercela fare insieme. Su questo forse dovremmo interrogarci meglio, prima di dire non ce l’ho fatta, non ne posso più, me ne vado, vattene. In realtà, nei legami importanti la vera sfida sta nel rimanere ciò che si è, pronti a lasciarsi trasformare. Tra i discepoli di Gesù c’erano dei pescatori, ai quali toccò l’imprevista sorte di cambiare mestiere, con l’esito paradossale di restare ciò che erano: gente disposta a rischiare. Nelle sue lettere al fratello Theo, Vincent Van Gogh scriveva: «I pescatori sanno che il mare è pericoloso e le tempeste terribili, ma non hanno mai considerato quei pericoli ragioni sufficienti per rimanere a terra».
Opporre stabilità e cambiamento non è utile: solo l’amore conosce l’instabile equilibrio tra forza e fragilità, perché non crea legami così stretti da soffocare né così deboli da lasciar andare. Ce lo ricordano le parole struggenti di Eugenio Montale:
«Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue».

Comandamento
«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Giovanni 15,12). Gesù si rivolge così ai suoi discepoli, che preferisce chiamare amici anziché servi, perché li ha messi a parte di ciò che ha di più caro: l’intimo rapporto con suo Padre. Di solito ai servi si danno ordini, non agli amici, eppure Gesù comanda ai suoi di amare. Ma si può davvero imporre l’amore? Un detto popolare afferma che “al cuor non si comanda”, per esprimere quel moto spontaneo e improvviso che si addice più all’innamoramento che all’amore. Come se si trattasse di fatalità, sembra che sia l’istinto a comandare, in realtà è l’amore vero che orienta e governa le relazioni, perché spinge da dentro: è un’esigenza profonda del bene, da donare e da ricevere.
Il problema è imparare a riconoscere questo impulso vitale, al quale obbedire non perché qualcuno ci obbliga, ma per fedeltà anzitutto a sé stessi e alla carne ferita dei fratelli. Scriveva Simone Weil: «È vero che bisogna amare il prossimo, ma nell’esempio che Cristo dà per illustrare questo comandamento il prossimo è un essere nudo e sanguinante, svenuto sulla strada e di cui non si sa niente. Si tratta di un amore del tutto anonimo, e per ciò stesso universale» (Simone Weil, Attesa di Dio). Ci sono situazioni in cui è necessario soccorrere e difendere chiunque è offeso e maltrattato, senza scusanti diplomatiche: non farlo è vigliaccheria di cui vergognarsi.
Quante volte ci capita di sprecare parole sull’amore, magari senza accorgerci di chi abbiamo accanto. Ecco che ci viene in aiuto quel «come io ho amato voi»: occorre guardare come ama un altro, vedere e prendere esempio, anche nel caso in cui quell’amore non fosse rivolto a sé. Non si tratta di obbedire a qualcuno, ma di apprendere, di imitare, di fare lo stesso. Se il genitore non mostra con i fatti cosa vuol dire amare, è inutile che lo pretenda dal figlio: può comandare tutto quello che vuole, non otterrà nulla. Non si può esigere ciò che non si dona.
Quando s’impara a non vedere solo sé stessi, qualunque cosa facciamo riceve un’altra luce, al punto da non dover neppure scegliere chi amare né perché. Sant’Agostino, che aveva uno sguardo ampio sull’amore, scriveva: «Ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene» (Commento alla Prima lettera di Giovanni 7,7-8).

Miracoli
«Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno» (Marco 16,17-18). Gesù promette ai suoi discepoli di compiere e di assistere a prodigi che oltrepassano le capacità umane. Al di là di ogni legittimo scetticismo, chi non si è meravigliato di qualche evento sorprendente al punto da chiamarlo miracolo, senza per questo scomodare il soprannaturale? Non si tratta qui di discutere sulla fede negli interventi divini, ma di considerare la possibilità dell’improbabile che accade. Il sostantivo “miracolo”, infatti, deriva dal latino miracŭlum “cosa meravigliosa”, dal verbo mirari “ammirare, meravigliarsi”.
Trovarsi di fronte a qualcosa di inatteso, davanti a una sorpresa può suscitare reazioni diverse quali la paura, lo sbigottimento, la meraviglia, una gioia incontenibile e molte altre non definibili con una parola. La notizia della morte improvvisa di un amico genera certamente sconcerto e profondo dolore. Il risultato inaspettatamente positivo di un test di gravidanza è motivo di grande gioia, per coloro che desiderano un figlio. Lo stesso vale per l’esperienza del ritrovamento di una cosa smarrita o di una persona che si credeva ormai perduta per sempre. Si tratta di eventi istantanei, che sprigionano moti istintivi, non ragionati; emerge in un momento qualcosa che affonda nell’intimo delle proprie aspettative, delle speranze e dei timori più reconditi. A un tratto, ecco l’accadimento: qualcosa di nuovo che stupisce, meraviglia, incanta.
Le cose che uno attribuisce al caso, il credente le prende come un segno. È possibile che un miracolo non sia solo qualcosa che ti è accaduto, ma anche qualcosa che non ti è successo, come un pericolo scampato o il risultato negativo di un’analisi medica. Ci sono diverse cose che non dipendono da noi, nonostante pretendiamo spesso di averne il controllo. Per riconoscere un miracolo non è necessario essere credenti: basta essere umani, aperti all’inedito, liberi dall’autoreferenzialità, disponibili all’incontro. Trova solo chi lascia aperte tutte le porte: il cuore è la regione dell’inatteso. Come scriveva Cesare Pavese: «Lo stupore è la molla di ogni scoperta. Infatti, esso è commozione davanti all’irrazionale».
Ci sono alcune cose sorprendenti, alla portata di tutti, ma che non tutti sono disposti a fare, e quando avvengono si può davvero gridare al miracolo. Quando qualcuno è disposto a cacciare il demone della divisione, a parlare la lingua dell’amore e del perdono, a prendere in mano il serpente dell’invidia e a bere il veleno dell’ostilità senza soccombere, a stendere le mani per sostenere il più debole, allora diventa vero ciò che Forrest Gump teneva a mente: «Mamma diceva sempre che i miracoli accadono tutti i giorni!».

Verità
«Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità» (Giovanni 16,13). Ragionare della verità è una faccenda difficile, sia per i filosofi sia per chi deve giudicare, a cominciare da Ponzio Pilato. Gesù sposta la questione in avanti, affida il compito al potente soffio dello Spirito, per dire che da soli non si trova la verità, il nostro pensiero non basta, c’è bisogno d’altro, di altri, forse di tutti coloro che incontreremo, lungo tempi e attraverso spazi diversi. Per i cristiani, il discorso è ridotto all’essenziale, prende distanza netta dai concetti astratti: la verità è una persona, Gesù stesso.
Ora qui non si tratta di dimostrare che i credenti hanno ragione e tutti gli altri no. Perché – a dir la verità – è più sfuggente una persona di tutte le idee che possono girare per la testa, in attesa di fermarsi. Anche Franz Kafka, a suo modo, la pensava così: «È difficile dire la verità, perché ne esiste sì una sola, ma è viva e possiede pertanto un volto vivo e mutevole» (Lettere a Milena, 1954). Per quanto ci sforziamo di convincerci che dobbiamo adeguare il nostro pensiero alle cose, o le cose al nostro pensiero, rimarremo sempre nell’incertezza: quella sarà sempre e comunque la nostra verità, limitata, particolare, circoscritta.
Ma allora che vuol dire cercare la verità nelle persone anziché nei concetti? Anzitutto significa non pretendere di possederla: le idee sono nostre, e ci crediamo padroni – magari qualcuno pensa anche di poterlo essere delle persone – le relazioni, invece, vivono di libertà, variano, spostano, sfuggono. Ciò equivale a dire che tutto è relativo? Direi piuttosto che tutto è relazionale. Senza relazioni non sappiamo la verità di noi stessi, e poi neanche degli altri, neppure del mondo. Questo discorso vale soprattutto quando si tratta di dire la verità: si dice più con i fatti che con le parole, proprio nel rapporto con gli altri, dove prima o poi si viene fuori per quel che siamo. Per tale ragione sono necessari attenzione e discernimento continuo.
Fa riflettere quanto scriveva il gesuita Baltasar Gracián nel Seicento: «Ciò che vediamo è il meno: viviamo del credito dato ad altri. L’udito è la porta secondaria della verità e quella principale della menzogna. La verità, generalmente, si vede; in rari casi si ode. Poche volte arriva allo stato puro, e ancor meno quando viene da lontano; porta sempre con sé qualcosa dei sentimenti attraverso cui passa; la passione, sia contraria o favorevole, tinge dei suoi occhi ciò che tocca. Tende sempre a impressionare: tiene in gran conto chi loda e ancor più chi biasima. Occorre allora stare molto attenti a scoprire l’intenzione di chi fa da tramite, sapendo prima cosa l’ha mosso. Contrasti, la riflessione, quanto è fatuo e falso» (Oracolo manuale ovvero l’arte della prudenza, n. 80).

Potere
«A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra» (Matteo 28,18). Nei vangeli, il rapporto tra Gesù e il potere è ambivalente. Egli si mostra forte e debole al tempo stesso: così potente da essere la risurrezione e la vita, così fragile da cadere in terra come un chicco di grano che muore; è il pastore grande delle pecore e l’agnello immolato. Riflettere sul potere è imbarazzante, perché pensiamo sempre che riguardi gli altri: governanti, politici, amministratori, banchieri, possidenti. Certamente si articola in modo piramidale: chi sta sopra, più in alto nella scala gerarchica sociale, politica ed economica esercita la propria influenza su chi sta in basso, determina le scelte di altri attraverso le proprie, e questo è ovviamente il potere forte. Poi ci sono quelli che oggi si chiamano influencer, persone e gruppi che utilizzano i social media per orientare la pubblica opinione; è una evoluzione di ciò che tradizionalmente fanno i mezzi di comunicazione, dai quali tutti siamo condizionati.
Se questo avviene a livello globale, parimenti esiste un potere feriale di periferia: i genitori nei confronti dei figli, gli insegnanti con gli studenti, i ministri del culto verso i fedeli. «La maggior parte delle persone, dall’infanzia in poi, è stata controllata attraverso il potere esercitato da genitori, docenti, presidi, allenatori, insegnanti di catechismo, zii, zie, nonni, guide scout, rettori universitari, ufficiali militari e capiufficio. I genitori, pertanto, persistono nell’uso del potere per mancanza di esperienza e conoscenza di altri metodi di risoluzione dei conflitti nelle relazioni umane» (Thomas Gordon, Genitori efficaci, 1970).
In realtà, si potrebbero trovare forme migliori di relazione, dove la libertà di autodeterminarsi non debba lottare per sottrarsi al controllo, all’imposizione e ancor meno alla manipolazione – rischi sempre in agguato quando si tratta di poteri costituiti. In generale, possiamo dire che il potere consiste nella capacità, volontà e disponibilità di una persona in relazione a sé stessa e agli altri. Nel corso della storia, sovente il potere si è ammantato di prerogative divine, cui si sono contrapposte rivendicazioni puramente umane, con l’inesausta ricerca della sua origine. In effetti, esso appartiene alla persona in quanto capace di relazioni responsabili, che gli permettono di esprimere la propria libertà e di prendersi cura di quella degli altri.
Dunque, ciascuno di noi esercita un potere anche se pensa di non averlo, e la tentazione cui siamo sottoposti è quella dell’abuso. Come osservava giustamente Karl Popper, tutti abbiamo bisogno della libertà per evitare gli abusi del potere delle istituzioni, e abbiamo bisogno delle istituzioni per evitare l’abuso della libertà. Facciamo attenzione che non ci capiti quanto diceva Bertolt Brecht: «Il genere umano tende a ricordare gli abusi a cui è stato sottoposto, piuttosto che le tenerezze. Che cosa resta dei baci? Solo le ferite lasciano cicatrici».

Corpo
«Prendete, questo è il mio corpo» (Marco 14,22). Con questa espressione, familiare per i cristiani, Gesù consegna sé stesso sotto gli umili segni del pane e del vino, sacramento della sua vita donata sulla croce. Non c’è nulla di più coraggioso, nell’amore, che spendere tutto di sé, anzi, di lasciarsi prendere, trasformando la cattura in offerta.
Il corpo: niente di più concreto e immediato, tanto da attrarre o respingere, da curare o disprezzare, da cercare o fuggire, da amare o odiare. Complesso equilibrio, difficile armonia, nella prassi e nella teoria, quello tra esaltazione e sottovalutazione della corporeità. Non esiste un corpo uguale all’altro. Questa è la prima meraviglia, che muove alla scoperta dell’altro e di sé stessi. Immaginabile nel suo misterioso formarsi, continua e sorprendente nuova creazione, frammento e universo compiuto. Il corpo è un mondo, la figura integrale della persona, percepita dallo sguardo e da tutti gli altri sensi, che ne veicolano il contatto, la conoscenza, l’intimità. Tuttavia, ciò che l’esperienza dice del corpo non è tutto. C’è bisogno di senso oltre i sensi, o meglio, di cercare il senso dei sensi.
Che cosa significa il corpo? Da dove viene? Cosa farne? Quale sarà il suo ultimo destino? Sono domande che riguardano tutti i corpi, il proprio e quello altrui. Le risposte sono molteplici: il rispetto, la cura, la bellezza, la salute, la forza, il piacere, la fatica, il dolore, lo sport, il riposo ecc. Il cristianesimo, lungo la sua storia, spesso ne ha relativizzato l’importanza, in favore della dimensione interiore, spirituale, ovvero dell’anima invisibile. In verità, la fede cristiana trae origine da un evento di estrema corporeità: l’incarnazione di Dio. Il corpo di Gesù, vissuto, donato, crocifisso ed entrato nell’eternità di Dio è il mistero su cui poggia tutta l’esistenza credente. «È in lui che abita corporalmente la pienezza della divinità», scrive san Paolo (Colossesi 1,9).
Dunque, il corpo, non solo nella sua bellezza e salute, ma anche nella sua sfigurazione dovuta all’imperfezione, alla malattia, al danno, merita di essere amato. Così la stupefacente diversità di donna e uomo, l’evoluzione naturale di bambino, giovane, adulto, anziano, dal nascere al morire, annunciano che qui, nel corpo, la vita si compie. Questo è il luogo misterioso e stupendo dell’identità personale, schermo su cui si riflettono anima e cuore, specchio dell’essere, in cui ciò che siamo si esprime fino al vertice estremo di sé: l’amore e il dolore. Pertanto, ogni corpo esige irrinunciabile rispetto, meravigliata ammirazione, custodia premurosa, perché un giorno, quando avrà nuova vita oltre la morte, possa essere riconosciuto nella sua verità e bellezza infinita.
Ha scritto il grande scultore Igor Mitoraj: «Il nostro corpo è un contenitore dell’eternità. Siamo dei contenitori che legano il passato con il futuro. Se dovessi scegliere con quale materia rappresentare il corpo prenderei la terracotta: è molto vicino alla terra, alla natura e ha in sé l’aspetto materno, vicino a me e alla mia sensibilità. Mi piace però anche il marmo che ha in sé una luce straordinaria che dà il senso d’immortalità, del passato e del futuro nello stesso tempo. E nel marmo c’è un grande spirito».

Semina
«Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Marco 4,26-27). All’attività agricola, particolarmente familiare agli abitanti della Palestina del I secolo, Gesù fa spesso riferimento nelle parabole, per dischiudere uno spiraglio sull’agire misterioso di Dio insieme alla collaborazione umana. Il contadino fa esperienza quotidiana di fatica e di meraviglia, al tempo stesso: prepara il terreno, attende sole e pioggia, semina, pazienta e raccoglie. Sembra che tutto dipenda dalla sua competenza, eppure non è solo così, gli imprevisti sono all’ordine del giorno.
A ben vedere, la metafora evangelica del seme evoca molti aspetti del vivere comune. C’è chi s’impegna nello studio, in vista di una professione adeguata; chi lavora giorno e notte per conseguire risultati auspicati e soddisfacenti; chi ha il dono dell’arte, e aspetta l’ispirazione per creare la sua opera; coloro che educano i figli, nella speranza di vederli crescere bene; insegnanti che trasmettono ai giovani cultura, confidando di farne uomini e donne migliori. Seminare è una necessità propria del vivere sociale, un compito ineludibile per costruire il legame tra le generazioni e aprire strade al futuro. Diceva il cardinale Carlo Maria Martini: «Educare è come seminare: il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto».
Tra l’investimento di risorse e gli obiettivi raggiunti c’è sempre uno scarto, in difetto o in eccesso: non tutto dipende dal proprio impegno, e non mancheranno certamente rischi e incertezze, al punto che ogni risultato non sarà sempre quello immaginato, calcolato, previsto. Profondere energie, speranze e attese non garantisce: vi è un di più e di altro che interviene, favorevole o contrario che sia. Che cosa impariamo, dunque, dalla similitudine della semina?
Probabilmente molti penseranno che non si deve sprecare, che è doveroso essere saggi e avveduti nel valutare il rapporto tra ciò che si spende e quanto si deve raccogliere. Questo è giusto in linea di principio, ma è anche vero che esiste una sovrabbondanza dell’impegno di cui mai pentirsi, nonostante i risultati scarsi e deludenti. Seminare vuol dire credere nella potenza intrinseca del seme, nella sua capacità di farsi strada nel terreno, di fruttificare comunque e aldilà di chi semina. Infatti, può accadere che il seminatore scambi la propria abilità con ciò che lo supera. Troppe varianti sono in gioco nei risultati, che oltrepassano anche il più esperto professionista.
Forse è meglio riflettere su quanto scriveva Frédéric Ozanam, amico dei poveri, alla moglie: «Io sono convinto che in fatto di opere di carità non bisogna mai preoccuparsi delle risorse finanziarie, arrivano sempre. Alcuni nostri colleghi sono stati incaricati dal tribunale civile di far visita ai fanciulli detenuti. Questi piccoli sfortunati […] è impossibile correggerli. Non importa, si semina sempre, lasciando a Dio la cura di far germogliare il seme a suo tempo» (Parigi, 23 luglio 1836).

Paura
«“Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?”» (Marco 4,40-41). Il brano evangelico della tempesta sedata si potrebbe paradossalmente intitolare: “Dalla paura al timore”. Da una parte, i discepoli vengono liberati dalla paura di naufragare, ma dall’altra sono presi da timore di fronte al mistero di Gesù che inaspettatamente placa la burrasca. La vicinanza con lui li libera dalla paura, ma proprio questo permette loro di misurare tutta la distanza che li separa da lui, e in questa sensazione consiste il timore nei suoi confronti. Qui si affaccia anche un’esperienza universale: la paura del destino dell’uomo, di poter perire mentre si è nell’acqua (espressione della vita) e su una barca che protegge (simbolo materno).
Della paura non si può parlare se non per esperienza, che si ha bisogno di comprendere e di superare. Questa comune esigenza richiede di essere approfondita: paura di chi, di che cosa? Come uscirne in modo costruttivo? L’analisi della paura comporta, anzitutto, di apprezzarne il carattere positivo. Grazie ad essa, ti accorgi della realtà, sei reso attento e pronto alla imprevedibilità di ciò che accade, prendi consapevolezza di te, del tuo limite e delle tue potenzialità. Avverti che non puoi farcela da solo, perciò ti apri all’invocazione, e chiedi aiuto.
A una tale considerazione si può giungere quando si conserva la memoria di aver oltrepassato – almeno qualche volta e, di solito, non da soli – la soglia della paralisi, su cui la paura immobilizza, benché ciò non valga come immunità per il futuro. Il ricordo di paure vinte fortifica, ma non preserva da altre che verranno.
La paura è essenzialmente un evento in cui la relazione equilibrata con sé stessi e con gli altri è messa alla prova. Pare incrinarsi, sembra venire meno la certezza di sé e di chi ti è vicino. Questo è l’effetto istantaneo della paura: sentirsi perduti, trovarsi da soli, senza riparo, in mezzo a una tempesta. Perciò, la paura sembra assumere la figura di un ponte fragile, pericoloso e necessario che permette di passare continuamente dall’insicurezza, o presunzione, alla relazione di fiducia in sé grazie all’altro, che ti è comunque vicino. La terapia della paura sono i sentimenti: i legami che ciascuno stabilisce con un’altra persona. Senza la paura non si diventa nuovi, e non lo si è mai del tutto, proprio come senza gli altri.
Non ci resta dunque che volgere lo sguardo in avanti, oltre ogni tempesta, con le parole de L’approdo di Primo Levi:
«Felice l’uomo che ha raggiunto il porto,
che lascia dietro di sé mari e tempeste,
i cui sogni sono morti o mai nati,
e siede a bere all’osteria di Brema,
presso al camino, ed ha buona pace.
Felice l’uomo come una fiamma spenta,
felice l’uomo come sabbia d’estuario,
che ha deposto il carico e si è tersa la fronte,
e riposa al margine del cammino.
Non teme né spera né aspetta,
ma guarda fisso il sole che tramonta».

Supplicare
«E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: “La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”» (Marco 5,22-23). Supplicare è più che pregare con convinzione, vuol dire implorare, scongiurare, raccomandarsi disperatamente. Forse succede solo in rari casi, ma quando capita vuol dire che siamo davvero a terra, ormai senza speranza, prossimi all’ultima spiaggia. E non è detto neppure che se ne abbia la forza, perché l’esperienza di un grande dolore spesso toglie persino la capacità di chiedere aiuto, al cielo come alla terra. Invocare il soccorso di qualcuno sembra la cifra di una fragilità insostenibile, ma è anche l’istinto più antico che conosciamo: il neonato piange, se non viene accudito si dispera.
Oggi si sente spesso parlare di resilienza, ovvero della capacità di fronteggiare in maniera efficace le difficoltà e gli eventi avversi che s’incontrano nella vita. Un po’ come un metallo resistente alle forze che gli si applicano contro. Vuol dire andare avanti senza arrendersi, senza soccombere nei momenti di crisi. Beato chi ha questa forza. E chi non ce l’ha cosa può fare? Si apre qui una riflessione sulle situazioni critiche che noi tutti viviamo, seppur in tempi e gradi diversi.
Sarebbe quantomeno ingenuo opporre richiesta d’aiuto e resilienza, come se la prima fosse la reazione dei deboli e la seconda quella dei forti. C’è chi trova in sé stesso la forza e chi ha bisogno di sostegno esterno; anzi, chi cerca soccorso mostra già di avere l’energia per farlo. Poi ci sono situazioni in cui è necessario resistere e altre in cui conviene arrendersi. A chi ha fatto tutto ciò che era alla propria portata non resta che implorare aiuto, ma a volte non è necessario aspettare di trovarsi in questa situazione: farsi aiutare prima potrebbe evitare fatiche inutili e tardive. Difficile stabilire una regola generale: sarebbe meglio parlare di discernimento, che in questi casi significa distinguere tra energie impiegate con frutto e loro eventuale spreco. Quante volte ci opponiamo con eccessiva determinazione a ciò che non vale la pena e non porta a nulla?
Ci vuole un po’ di umiltà per supplicare, specialmente oggi, tempo in cui prevale un atteggiamento diffuso di autosufficienza, come se tutti dovessero cavarsela ad ogni costo. Quando si ragiona così, sono i più fragili a rimanere scartati, quelli che da soli non ce la faranno mai. Prima di arrivare ai punti limite dove ormai nemmeno la più disperata invocazione trova risposta sarebbe utile far propria la preghiera della serenità, scritta nel secolo scorso dal teologo protestante tedesco-statunitense Reinhold Niebuhr: «Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza».

Disprezzo
«Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (Marco 6,4). Tocca anche a Gesù fare i conti con la spocchia dei suoi compaesani: non può compiere segni tra loro perché manca la disponibilità ad accoglierli. Essi hanno sentito parlar bene di lui, perciò lo sfidano: fa’ vedere anche qui di cosa sei capace. Non è difficile riconoscere la tentazione di svalutare chi abbiamo di fronte, soprattutto quando altri ne esaltano i pregi, mentre a noi non sembra così straordinario. «Nessuno è un grande uomo per il proprio cameriere», scriveva Hegel. Probabilmente è il limite di una malintesa familiarità.
Da sminuire a disprezzare talvolta il passo è breve. «Guardando bene, si scopre che nel disprezzo v’è un po’ di invidia segreta. Considerate bene ciò che disprezzate e vi accorgerete che è sempre una felicità che non avete, una libertà che non vi concedete, un coraggio, un’abilità, una forza, dei vantaggi che vi mancano, e della cui mancanza vi consolate col disprezzo» (Paul Valéry, Cattivi pensieri, 1942). Dunque, se svaluti il lavoro altrui, forse è l’invidia che parla per te. I pregi dell’altro vorresti che fossero i tuoi, magari ce l’hai ma non riesci a vederli, e la persona che hai di fronte potrebbe stimolarti a migliorare. Il problema è che spesso invece dispiace, irrita, tira fuori il peggio.
Chi è abituato a guardarsi allo specchio, con un po’ di sano realismo, con spietatezza e clemenza, difficilmente cede al disprezzo. Altrimenti, merita dare ascolto all’arguto monito popolare ricordato da Nikolaj Gogol’: «Non prendertela con lo specchio se hai il muso storto». Sì, perché il disprezzo è intimamente legato all’insoddisfazione, proietta all’esterno la poca stima di sé, e ogni bene altrui diviene insopportabile.
A meno che non succeda d’incontrare chi ha troppa considerazione di sé, nel qual caso è più che giustificata una spontanea antipatia. Ma quando sentiamo apprezzare una persona che non ci ha fatto nulla di male, e questi ci indispettisce, allora il problema è nostro: il disprezzo nasconde rabbia e disgusto, sotto le mentite spoglie della presunta superiorità, si traduce in derisione e distanza.
In realtà, chi disprezza non conosce. Nasce infatti il proverbio: “chi disprezza compra”, nel senso che ti piacerebbe ciò che biasimi, ma non lo ammetti. Infatti, siamo abituati al fatto che gli uomini disprezzino ciò che non comprendono.
Per liberarsi da questo sentimento negativo occorre decentrarsi, prendere distanza dall’egocentrismo ed aprirsi all’empatia: gli altri non devono comportarsi secondo le nostre aspettative e norme, e non abbiamo il diritto di giudicarli e criticarli. Teniamo conto, infine, di quanto saggiamente suggeriva Esopo: «Le persone intelligenti non disprezzano nessuno, perché sanno che nessuno è tanto debole da non potersi vendicare, se subisce un’offesa» (Favole, VI sec. a.C.).

Sobrietà
«Gesù ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche» (Marco 6,8-9). Decidere di portare con sé poche cose, per un viaggio, significa scegliere l’indispensabile, senza illudersi che tutto dipenda dall’attrezzatura, senza per questo essere sprovveduti. Tra la previdenza e la provvidenza bisogna trovare l’equilibrio, soprattutto quando ci si volge al futuro. In fondo, questa avvertenza vale per diverse situazioni della vita. Quando si va a scuola o al lavoro, nella cartella mettiamo quanto occorre, spesso col timore di aver dimenticato qualcosa; lo stesso vale per una vacanza. Giustamente bisogna prevedere, ma non tutto può essere calcolato: ci saranno sempre imprevisti, e il bello dell’avventura sta anche in questo.
La parola sobrietà ci aiuta a riflettere sull’eccesso del superfluo, al quale siamo indotti e abituati dalla cosiddetta società dei consumi, dove sembra indispensabile anche ciò che non lo è. Chi si mette alla guida è necessario che sia sobrio, per evitare di essere un pericolo per sé e per gli altri. Lo stesso vale per le relazioni. Non è solo questione di beni materiali, sebbene questi siano il segno di un modo di essere e di rappresentarsi. Pensiamo ad esempio agli abiti firmati o all’usa e getta di molte cose che potrebbero essere riutilizzate. Il senso della misura poi si riflette anche nel parlare, nell’agire, nel rapportarsi con gli altri, nel vivere la propria relazione con l’ambiente e la natura, sia vegetale sia animale.
La sobrietà è fatta di attenzione e di responsabilità: non grida, non enfatizza le cose, non si vanta, non si esalta, non si mette in mostra, pazienta, considera più il tempo dello spazio. Chi è sobrio conosce il valore delle cose e delle persone, e ne ha rispetto: non confonde il valore con il prezzo. Nemici della sobrietà sono due estremi: l’accumulo, che nasconde il bisogno di sicurezza, e lo spreco, quando manca la cura per ciò che abbiamo. Chi sceglie uno stile di vita sobrio, invece, preferisce l’intensità all’estensione, in qualche misura si affida, condivide, non fa tutto da solo, è aperto all’altro, specialmente a chi possiede poco o nulla.
Osservava al riguardo Baltasar Gracián: «La perfezione non consiste nella quantità, ma nella qualità. Ciò che è molto buono è sempre stato poco e raro; il troppo scredita. Anche fra gli uomini sono i giganti, di solito, i veri nani. Alcuni valutano i libri in base al peso, come se si scrivessero per esercitare non gli ingegni, ma le braccia. La sola estensione non ha mai superato la mediocrità, ed è difetto degli uomini eclettici il voler tutto per poi nulla stringere. L’intensità conferisce eminenza, eroica se in materie sublimi» (Oracolo manuale ovvero l’arte della prudenza, n. 27).

Riposo
«Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’» (Marco 6,31). Squisita delicatezza quella del Maestro nei riguardi dei discepoli, segno di premura verso coloro che ha trascinato in un’avventura tutt’altro che comoda, sia per l’impegno quotidiano richiesto dall’attenzione alla sua parola e ai suoi gesti, sia per la missione che pian piano affida loro. Il bisogno di riposare è di tutti, a cominciare da chi vive intensamente con senso di responsabilità. Il dispendio di energie, infatti, non è soltanto fisico, soprattutto per coloro che si fanno carico degli altri prima che di sé stessi.
Esistono fatiche del cuore e della mente non meno pesanti di quelle delle braccia e del corpo, alle quali talvolta si dà meno considerazione, anzi, chi le sopporta spesso tende a sottovalutarle, mentre chi giunge alla sera dopo una giornata di lavoro manuale si dispone più serenamente al meritato riposo. Chi è animato da forti interessi difficilmente si concede una sosta, la considera una perdita di tempo, come se non ne avesse diritto, al punto da sentirsi in colpa. Lo scrittore francese Nicolas de Chamfort, della seconda metà del Settecento, osservava acutamente: «Gli amanti, i bricconi, i gelosi, gli avari, gli ambiziosi, i giocatori non conoscono riposo».
Una pausa tra le occupazioni è una sospensione non del tempo, ma del cuore e dei pensieri; la mente ha bisogno di silenzio per trovare nutrimento e ristoro, come il corpo richiede il sonno. Si tratta di un diritto e di un dovere, al tempo stesso.
Ognuno ha il proprio modo di fare intervallo: per chi fa lavori manuali leggere un libro o ascoltare musica è riposante, mentre l’intellettuale si rilassa quando impiega braccia e mani. Spostarsi da ciò che affanna è salutare per tutti, anche se l’idea stessa di prendere distanza dal dovere è già una fatica. Solo dopo aver accettato l’interruzione ne potremo apprezzare il valore.
Fermarsi e sostare può anche fare paura, se temiamo di trovarci di fronte a noi stessi. Ma forse è proprio di questo tempo inattivo che abbiamo più bisogno: per fare memoria, per custodire, per non fuggire. Potrà anche capitare di rivoltarsi nelle piaghe della propria infelicità, ma di qui passa la grazia che sgretola il muro interiore dell’insoddisfazione, inaugurando il riposo autentico.
Scriveva Platone nel Fedro: «L’anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l’ha riguardato, invasa dall’onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere».

Spreco
«Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto» (Giovanni 6,12). Fa pensare questa raccomandazione di Gesù sull’eccedenza di dodici canestri di pani d’orzo, dopo che sono stati sfamati cinquemila uomini. Anzi tutto al fatto che il dono sorprendente è stato smisurato: perché il Maestro non ha calcolato il bisogno effettivo dei presenti, ad esempio come faceva il Dio d’Israele con la manna nel deserto? A prima vista, lo sprecone sembra essere lui, il moltiplicatore eccessivo di cinque pani e due pesci. Subito dopo però ecco il monito: nulla deve andar perduto. Dunque, quando Dio sovrabbonda – il pane per tutti – noi non possiamo sprecare, perché nessuno abbia fame. Scriveva san Basilio Magno: «All’affamato spetta il pane che si spreca nella tua casa. Allo scalzo spettano le scarpe che ammuffiscono sotto il tuo letto. Al nudo spettano le vesti che sono nel tuo armadio. Al misero spetta il denaro che si svaluta nelle tue casseforti. Commetti tante ingiustizie quante sono le persone a cui potresti dare tutto ciò».
Al di là dell’insegnamento evangelico, merita riflettere sullo spreco, che ha da fare con l’abbondanza, e non riguarda solo il cibo, ma ogni risorsa a nostra disposizione, di cui siamo responsabili. Esistono beni esclusivi – quelli materiali, come la ricchezza, il potere, il successo – il cui possesso esclude o riduce quello altrui: più ne ho io, meno ne hai tu. Poi ci sono beni non esclusivi, a disposizione illimitata, come la buona salute e le abilità fisiche, la cultura, le relazioni umane positive. Nella misura in cui saremo in grado di ridurre il desiderio e il possesso dei beni esclusivi, potrà innescarsi una positiva decrescita, senza venir meno la legittima e universale aspirazione ai beni essenziali. Si tratta dunque di riorientare i desideri in base agli effettivi bisogni, piuttosto che puntare ad una corsa in cui ciascuno pensa solo a sé stesso.
In realtà, lo spreco ha la sua radice nell’egoismo, che rende infelici sé stessi e gli altri, come osservava Oscar Wilde: «Lo spreco della vita si trova nell’amore che non si è saputo dare… nel potere che non si è saputo utilizzare, nell’egoistica prudenza che ci ha impedito di rischiare e che, evitandoci un dispiacere, ci ha fatto mancare la felicità». Oltre a non apprezzare ciò che ha, chi spreca le cose è spesso insoddisfatto e non smette di lamentarsi, con il triste effetto, alla fine, di Sprecare la vita, come scriveva Charles Bukowski:
«Lamentele infime e triviali,
costantemente ripetute,
possono far ammattire un santo,
per tacere di un bravo ragazzo
qualunque (me)
e il peggio è che chi
si lamenta
nemmeno si accorge di farlo
a meno che non glielo dici
e perfino se glielo dici
non ci crede.
E così non si conclude
niente
ed è solo un altro giorno
sprecato,
preso a calci,
mutilato
mentre il Buddha
siede nell’angolo
e sorride».

Fame
«Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (Giovanni 6,35). Suona come paradossale la promessa di Gesù: com’è possibile non aver più fame né sete per chi crede in lui, pane della vita? Esiste dunque un pane che sfama per sempre, un cibo che assunto una volta per tutte toglie il bisogno naturale di nutrirsi quotidianamente? Forse potrebbe essere il sogno irrealizzabile dell’umanità, soprattutto di quella gran parte più povera e denutrita. Le parole del Maestro non intendono certo creare una simile illusione, dunque occorre cercarne il senso in un altro orizzonte: nelle relazioni che nutrono, che non affamano né abbandonano.
Non conviene ridurre la questione alla fame nel mondo, con la consumata retorica che conosciamo. Sappiamo bene che due terzi dell’umanità soffre la fame di cibo e un terzo fa la dieta; che gran parte del terreno coltivabile è destinato al foraggio per gli animali da carne, e i prodotti agricoli a livello mondiale potrebbero essere sufficienti a sfamare tutti, se non fossero prevalentemente utilizzati per alimentare gli animali da allevamento. E la carne non è a disposizione di tutti.
Si tratta prima di tutto della condizione umana stessa: non si cresce se non si è accuditi, se qualcuno non si prende cura di noi, se ognuno è affidato solo a sé stesso. La fame è il segnale – come la sete, il freddo e la paura – il nutrimento è la risposta. Sono bisogni che rivelano il nostro stesso essere, il diritto ad esistere, a sopravvivere in seno alla famiglia umana. Perciò non sono facoltativi, perché invocano molto di più della soddisfazione materiale: chiedono attenzione, cura, amore. L’idea che questo valga solo per i bambini è riduttiva, come se una volta cresciuto ognuno dovesse provvedere a sé stesso e a nessun altro.
Cambiano le forme, non la sostanza, al punto che se qualcuno ha fame vuol dire che è solo, abbandonato, lasciato da parte, e non importa se è colpa sua, se non lavora e non ha soldi. Chi ha fame m’interpella: se non muore silenziosamente per malnutrizione cronica, va incontro a cecità, affaticamento, riduzione della crescita e suscettibilità a ogni sorta di malattia. Per avvertire questo appello e riconoscerne il valore, probabilmente bisogna aver fatto esperienza della mancanza di qualcosa, come giustamente osserva la scrittrice belga Amélie Nothomb: «Gli esseri che sono nati sazi – ce ne sono molti – non conosceranno mai questa angoscia incessante, questa attesa dinamica, questo stato febbrile, questa miseria che tiene svegli giorno e notte. L’uomo si costruisce a partire da quello che ha conosciuto nel corso dei primi mesi di vita: se non ha sperimentato la fame, sarà uno di quegli strani eletti, o di quegli strani dannati, che non edificheranno la loro esistenza sulla mancanza» (Biografia della fame, 2004).
Alla fine, ha ragione Alda Merini, quando coglie nella tenerezza la radice profonda che ci rende capaci di donare ciò di cui riconosciamo il bisogno:
«Abbiamo fame di tenerezza,
in un mondo dove tutto abbonda
siamo poveri di questo sentimento
che è come una carezza
per il nostro cuore
abbiamo bisogno di questi piccoli gesti
che ci fanno stare bene,
la tenerezza
è un amore disinteressato e generoso,
che non chiede nient’altro
che essere compreso e apprezzato».

Mormorare
«I Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: “Io sono il pane disceso dal cielo”. E dicevano: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: Sono disceso dal cielo”? Gesù rispose loro: “Non mormorate tra voi”». (Giovanni 6,41-43). Anche a Gesù è capitato di sentirsi parlare dietro sommessamente, in tono malizioso e di malcontento, per le sue pretese giudicate sproporzionate. Chi si crede di essere? Dice di venire dal cielo, ma noi sappiamo dove e da chi è nato.
Oggi si chiama gossip quello che da sempre è noto come pettegolezzo: non si manifesta direttamente alla persona ciò che se ne pensa di male, ma lo si sussurra a mezza voce ad altri. Il protagonista di una conversazione poco benevola è assente, mentre i suoi commentatori si compiacciono della golosa confidenza. Come se volesse indirizzargli, per via traversa, una saggia correzione, chi mormora non fa altro che seminare disprezzo intorno alla sua vittima, seppur con l’ambiguità di sembrarne dispiaciuto, magari più per vanità che per malizia.
In realtà, le chiacchiere rivelano più chi le fa di chi ne è oggetto: mentre altri lo ascoltano incuriositi, diventa immediatamente chiaro il senso di rivalità e di scorrettezza che c’è dietro, fosse anche per la più acclarata verità, con la conseguenza di quanto scriveva Alessandro Manzoni: «La maldicenza rende peggiore chi parla e chi ascolta, e per lo più anche chi n’è l’oggetto» (Osservazioni sulla morale cattolica, 1819). Insomma, nessun vantaggio deriva dalla mormorazione, eppure viene così naturale da suscitare almeno qualche domanda: perché attira maggior interesse il limite altrui che non il pregio? Non è forse il triste modo col quale ognuno giustifica sé stesso, quando guarda la pagliuzza e non si accorge della trave che lo acceca? Consolarsi con i difetti degli altri può sembrare innocuo, ma il prezzo del loro discredito è sempre troppo alto.
Merita dunque meditare su quanto annotava il gesuita Baltasar Gracián: «Prevenire le male lingue. Molte teste ha il volgo, e di conseguenza molti occhi per la malizia e molte lingue per il discredito. A volte vi serpeggia qualche voce maligna che infanga il più alto credito, e se arriva a essere un nomignolo diffuso è la fine della reputazione. Generalmente gli si offre il fianco con qualche vistosa imperfezione, con ridicoli difetti, che diventano ghiotti spunti per le chiacchiere del volgo, anche se vi sono insinuazioni gettate in pasto da una singola emulazione alla malizia comune, ché vi son bocche dedite alla malevolenza, le quali distruggono più rapidamente la fama di qualcuno con una battuta che con uno smascheramento. È molto facile guadagnarsi una cattiva fama, perché le cattiverie vengono credute subito e ci vuol tanto tempo per cancellarle. Eviti dunque, l’uomo accorto, queste sgarberie, contrastando con la sua attenzione la volgare insolenza, ché è più facile prevenire che rimediare». (Oracolo manuale ovvero l’arte della prudenza, n. 86).

Umiltà
«Allora Maria disse: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva”» (Luca 1,46-48). L’incipit del canto di Maria, la ragazza di Nazaret scelta per una missione straordinaria, potrebbe sorprendere. Ella sembra comprendere la misteriosa ragione della sua elezione, l’umiltà, e con ciò, di fatto, sminuirne il valore: chi è consapevole della propria umiltà è veramente umile? Facendo attenzione all’originale greco – tèn tapeínosin – sarebbe meglio tradurre: “la bassezza della sua serva”, nel senso di piccolezza, di povertà; da cui deriva anche “tapino”, ossia miserabile, derelitto. In realtà, Maria si rende conto dei propri limiti, senza per questo sminuirsi: lo sguardo amoroso di Dio ha colto la verità di questa giovane, e lei lo ha capito.
L’umiltà, dunque, non è solo la virtù di una persona, che altri le riconoscono, ma la stessa condizione d’indigenza: riguarda chi non basta a sé stesso e ha bisogno di sostegno, infatti deriva dalla parola latina humilis, “che sta sotto”. Tuttavia, quella di mettersi a servizio è una scelta libera che compie chi avverte la fragilità dell’altro e se ne prende cura, senza umiliarlo.
Di umiltà ha particolare bisogno chi ha un potere, una responsabilità, in certi casi persino decisiva, come acutamente osservava il giurista Piero Calamandrei riferendosi ai giudici: «Niente di male col crocifisso in aula. Ma non dovrebbe stare dietro le spalle dei giudici. Lì lo vede solo il giudicabile ed è portato a credere che lo ammonisca a lasciar perdere ogni speranza (simbolo non di fede ma di disperazione). Va messo in faccia ai giudici, ben visibile nella parete di fronte, perché lo considerino con umiltà mentre giudicano e non dimentichino mai che incombe su di loro il terribile pericolo di condannare un innocente» [Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Ponte alle grazie, Firenze, (1954) 1990, p. 319].
Tra i più significativi segni di umiltà vi è la capacità di chiedere scusa quando ci si rende conto di aver sbagliato, riconoscendo che non si è perfetti, non si ha sempre ragione, come gli altri anche noi commettiamo errori. Come pure saper dire grazie, senza ritenere che tutto ci sia dovuto, rivela l’animo nobile di chi apprezza la generosità altrui. Ricordiamo quanto papa Francesco più volte ha suggerito di scrivere sulla porta di ogni casa: «Su questa porta d’ingresso sono scritte tre parole, che ho già utilizzato diverse volte. E queste parole sono: “permesso?”, “grazie”, “scusa”. Infatti queste parole aprono la strada per vivere bene nella famiglia, per vivere in pace. Sono parole semplici, ma non così semplici da mettere in pratica! Racchiudono una grande forza: la forza di custodire la casa, anche attraverso mille difficoltà e prove; invece la loro mancanza, a poco a poco apre delle crepe che possono farla persino crollare» (Udienza generale, Mercoledì, 13 maggio 2015).

Parole
«Molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” […] Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: “Volete andarvene anche voi?”» (Giovanni 6,60.66-67). La parola di Gesù è così potente da attrarre fino a far cambiare la vita e, al tempo stesso, da mettere in crisi al punto di allontanare. Il quarto vangelo non nasconde il momento di difficoltà che sorge all’interno della cerchia dei discepoli del Maestro. Pur essendo suoi intimi amici, essi non riescono sempre ad accogliere le sue parole, e quando queste diventano particolarmente esigenti nasce in loro la paura, la resistenza, l’abbandono.
Qualcosa di simile appartiene anche alla nostra esperienza quotidiana: esistono parole che ristorano, sanano, confortano e parole che provocano, scoraggiano, feriscono. Su questa potenza delle parole occorre riflettere. Con esse comunichiamo il pensiero, ma è il tono che esprime le emozioni; spesso conta più il modo col quale usiamo le parole che il loro contenuto verbale. Poi ci sono le parole scritte, più meditate, che danno tempo a chi legge: anche queste pesano, perché rimangono, e possono essere ritrovate.
Saremmo ingenui a pensare che le parole non hanno conseguenze, come pure i silenzi. Non ci accorgiamo subito del loro effetto, perché spesso, invece di ascoltare, sovrapponiamo reazioni, crediamo di aver capito tutto. Eppure sappiamo che anche le nostre parole non dicono mai esattamente ciò pensiamo, come osservava Gustave Flaubert: «nessuno, mai, riesce a dare l’esatta misura delle proprie necessità, né dei propri concetti, né del proprio dolore, e la parola umana è come una paiolo incrinato su cui veniamo battendo melodie atte a far ballare gli orsi, quando vorremmo intenerire le stelle» (Madame Bovary, 1856).
Ci sono cose importanti che facciamo fatica a formulare verbalmente: abbiamo paura di immiserire ciò che nella mente appare sconfinato, eppure cerchiamo il modo per farci intendere: è una fatica salutare, chiede impegno a chi parla e a chi ascolta. Ci sono parole che escono dalle viscere, altre tirate fuori di tasca. Solo chi partorisce pensieri sofferti genera vita, creatività, meraviglia; altri, invece, scuotono l’aria, inventano ciò che non esiste, costruiscono illusioni e propagano incanti: è la tentazione di chi ha il potere, degli affabulatori, di chi sa dare buoni consigli insieme a cattivi esempi. Abbiamo invece bisogno di parole buone, magari tremanti, capaci di scuotere, che spostano il pensiero e il cuore verso sogni di pace, di amore, di fraternità, specialmente nei momenti più oscuri. Come quelle della poesia “Fratelli”, che Giuseppe Ungaretti scrisse il 15 luglio 1916 nei pressi del Carso (nella raccolta Allegria di naufragi):
«Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla
sua fragilità
Fratelli».

Impuro
«Chiamata di nuovo la folla, Gesù diceva loro: “Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”» (Marco 7,14-15). Con queste parole, Gesù non minimizza il senso del peccato: dice solo che esso non è la trasgressione di una norma, di una dottrina, di una legge religiosa, ma vivere per sé e non amare. Questo è ciò che contamina il cuore e lo oscura. Come diceva il giovane curato di campagna alla contessa: «L’inferno, signora, è non amare più» (Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna, 1936).
Nel nostro linguaggio corrente, impurità significa alterazione, sozzura, nel senso di mescolanza di cose che di per sé andrebbero separate. Per la fisica, le sostanze impure sono quelle contaminate da elementi che ne alterano la composizione. Poi c’è chi ritiene che la stessa idea possa applicarsi alle persone: il meticciato sarebbe una minaccia della purezza della razza. Dal punto di vista morale, infine, vengono considerate impure la disonestà e la cattiva condotta, che sporcano il buon vivere. Minaccia di disordine, fonte di ansietà e di conflitti, l’impuro si sedimenta sulle zone di confine, sulle frontiere corporee come su quelle sociali. Nella sfera religiosa, poi, la distinzione puro/impuro assume una differente conformazione: l’impuro coincide con il profano e costituisce insieme a esso il polo negativo del mondo spirituale. Insomma, persiste una tendenza transculturale che preferisce separare più che unire.
Queste premesse fanno riflettere su come anche oggi siamo tentati di aspirare illusoriamente a certi ideali di purezza che, in via di principio, escludono interazione, commistione, mescolanza. Pensiamo all’istinto di difendere territori da intromissioni straniere, alle diete prive di alcuni alimenti, alla conservazione di tradizioni sigillate ed impermeabili ad ogni evoluzione. Sembra puro ciò che è sterilizzato, mantenuto ad un ipotetico stato di natura. Le norme della purezza/impurità vengono spesso giustificate a partire da motivazioni igienico-sanitarie, ma in realtà il sogno dell’incontaminato è ancestrale, come se gli strati di vita e di esperienza, con i relativi fallimenti e arretramenti, invece di rafforzare la fragilità originaria ne costituissero l’indebolimento. Eppure tutti sanno che anche gli animali imbastarditi hanno più salute dei purosangue, molto più fragili e delicati.
«Diceva un foglio bianco come neve: “Sono stato creato puro, e così voglio rimanere per sempre. Preferirei essere bruciato e andare in cenere che cadere preda delle tenebre o venire toccato da ciò che è impuro”. Una boccetta di inchiostro sentì ciò che il foglio diceva; rise nel suo scuro cuore, ma non osò mai avvicinarsi. Sentirono le matite colorate, ma anch’esse non gli si accostarono mai. E il foglio bianco come la neve rimase per sempre puro e casto, puro e casto – e vuoto» (Kahlil Gibran, Il precursore, 1920).

Disabilità
«Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. […] pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!”» (Marco 7,32.37). Il fatto che nei vangeli ricorrano frequenti contatti tra Gesù e le persone segnate da varie disabilità è interessante anzi tutto per la spinta interiore che le muove verso di lui, o di chi è loro vicino. La condizione di limite fisico, psichico o sensoriale mette in movimento, fa chiedere aiuto, domanda sostegno. Certo, nella speranza di essere risanati, ma ciò che qui merita notare è il tipo di rapporto che si stabilisce a partire dalla fragilità. Avere un limite, non essere autonomi e dipendenti da altri significa appartenere ad una sorta di mondo parallelo, effettivamente altro da quello della maggioranza della gente. In realtà, una persona disabile non è mai completamente inabile: proprio la sua condizione la rende adattabile a situazioni diverse, con ingegno, fantasia e creatività. C’è da trovare il modo, ed è sempre possibile nella misura in cui si stabiliscono relazioni adeguate.
Nessuno è tanto disabile da non poter essere felice. Esiste per tutti uno spazio in cui tentare l’avventura della felicità, contrariamente a quello che molti credono oggi, nati e cresciuti sotto il segno del narcisismo, e sempre più sfiniti dallo sforzo di passare per “la cruna dell’ego” – come ha scritto Pierangelo Sequeri. Qui abita la tentazione dell’egolatria e della autoreferenzialità. Paradossalmente, oggi, viviamo nella società più connessa di tutti i tempi – “tecnoliquida”, la chiama Tonino Cantelmi– in cui si stabiliscono innumerevoli relazioni virtuali, fatte di contatti, amicizie, like, cinguettii, ma dove «soprattutto ci si può dimenticare che alla base della relazione c’è la finitudine, l’essere limitato dell’uomo che ha bisogno di comunicare perché non è autosufficiente e non può raggiungere la propria felicità da solo» (Tecnoliquidità, 2013). Dunque, la felicità è possibile quando lo sguardo cambia direzione, passando dal sé al tu, dall’io al noi.
Proprio con i più fragili, le strade della felicità possibile vanno percorse insieme partendo da loro. Per superare l’imbarazzo nei confronti di un persona con disabilità occorre l’umiltà di farsi guidare, di chiedergli come fare per aiutarla. Non si può partire da sé stessi, non sapremmo che fare: questo è già il primo segnale che indica la via. È necessario riconoscere la propria incapacità di trovare soluzioni, accontentandosi di stare vicino, di accogliere e di accompagnare, senza la pretesa di risolvere. Questa specie di impotenza è proprio ciò che ci avvicina, è il comune confine della vulnerabilità: o si attraversa insieme o diventa un muro invalicabile. Lo sapeva bene la pittrice messicana Frida Kahlo (1907-1954), resa invalida da un grave incidente, che scriveva a Diego Rivera, pittore e marito col quale ebbe un travagliato rapporto: «Non fare caso a me. Io vengo da un altro pianeta. Io ancora vedo orizzonti dove tu disegni confini».