Il dialogo tra il dottore della legge e Gesù si apre con una provocazione: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Per raggiungere una così alta mèta bisogna fare qualcosa? Forse si deve scegliere tra i precetti quello più importante e praticarlo. Il dottore aspetta da Gesù una risposta, ma viene rimandato alla sua competenza in materia: egli sa che amare Dio e il prossimo è il cuore della legge di Mosè. A questo punto il discorso sembra chiuso, Gesù concorda e saluta: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
La didattica del Maestro è esemplare: lascia che la risposta alla domanda la trovi chi lo interpella; non solo per sfuggire alla prova del suo interlocutore, ma soprattutto per far emergere in lui la consapevolezza. Non deve dirlo Gesù cosa bisogna fare, non si mette sul piano di chi insegna e detta regole: parte dall’altro e lo conferma nelle sue migliori intenzioni.
Una volta abbassate le difese e ottenuta la fiducia, Gesù non si sottrae al passo successivo nel dialogo col dottore, che gli chiede di scendere sul piano concreto: «E chi è mio prossimo?». Amare Dio con tutto se stesso sembra la cosa più chiara; ora vuol sapere verso chi esprimere l’amore: c’è forse una gerarchia, o il prossimo sono tutti gli altri indistintamente?
Gesù racconta una storia, in cui quattro persone giocano ruoli diversi: l’uomo mezzo morto, vittima di un’aggressione, un sacerdote, un levita e un Samaritano, che s’imbattono nello sventurato. Non c’è un giudizio nei confronti di coloro che passano oltre senza fermarsi: la legge proibisce di accostare un morto quando si va o si torna dalla celebrazione del culto. Dio e gli altri vanno distinti, in questo caso diventano distanti, persino alternativi.
Sembra dunque che il prossimo sia il disgraziato in fin di vita; risalterebbe così il senso di colpa dei due noncuranti. Invece, sorprende la conclusione che Gesù trae dalle parole del dottore: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». L’attenzione si sposta da chi è nel bisogno a «chi ha avuto compassione di lui».
Che cosa muove il cuore, fa volgere in basso lo sguardo e inginocchiarsi accanto al più debole? Questa è la domanda che attende una risposta da noi. Se non ti senti prossimo a chi è fragile, perché anche tu lo sei, sarà difficile non trovare buone ragioni per tirare innanzi. Il Samaritano, invece, è un separato, un eretico che non ha obblighi verso la legge, quindi non rischia nulla: è un impuro che si accosta ad un impuro. Siamo di fronte ad una cambio di prospettiva: per essere liberi di farsi prossimo occorre partire dalla consapevolezza di sé come l’altro.
A ben vedere, Gesù ha raccontato la propria storia, non la nostra. Ce lo ricorda il Prefazio comune VIII della liturgia eucaristica su Gesù buon samaritano dell’umanità: «Nella sua vita mortale egli passò beneficando e sanando tutti coloro che erano prigionieri del male. Ancor oggi come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza».
In conclusione, ciò che lega l’amore di Dio a quello del prossimo non si trova in noi, ma in Lui, che si fa prossimo a questa umanità fragile, ferita e prostrata, di cui tutti siamo parte. A noi tocca solo prendere sul serio il suo invito: «Va’ e anche tu fa’ così».
don Maurizio