Beati voi, guai a voi

Nel brano evangelico di Luca i beati sono quattro e i guai pure, invece degli otto beati del vangelo di Matteo. Qui siamo in pianura, là sul monte. Le due versioni complementari mostrano che Gesù deve aver parlato in diverse occasioni in modo simile, pensando non solo al futuro rovesciato da Dio, ma anche al presente da cambiare, che tocca a noi. In questo testo evangelico, infatti, sono messe a confronto due realtà opposte: chi sta male e chi sta bene, insieme alle conseguenze della giustizia di Dio e alle opportunità di cambiamento che valgono per tutti.
Non può che sorprendere il chiamare beati, ovvero lieti e felici coloro che versano in condizioni di povertà, le più differenti, gli affamati di pane e di amore, quelli che piangono e sono tristi per le avversità che debbono sopportare, gli offesi e i disprezzati perché discepoli del Signore. La vera ragione di questa strana beatitudine è che il Signore è l’unico a prendersi cura dei più deboli senza chiedere nulla in cambio: lui è il futuro ultimo di tutti gli scartati della terra. Gesù è qui, accanto a loro, per mostrare che quel futuro annunciato comincia con lui, che li avvicina con tenerezza.
Subito dopo, egli annuncia i guai per quelli che passano accanto ai poveri e restano indifferenti, pieni di sé e delle proprie sicurezze; per coloro che pensano al proprio benessere, incuranti di chi non ha nulla; a chi vive preso soltanto dalle cose materiali, senza alcuna interiorità.
Dunque, non sono soltanto promesse di riscatto per primi e minacce di sconfitta per gli altri: Gesù vede l’universo umano così com’è, immaginando cambiamenti impegnativi e radicali del modo di essere, che cominciano dal modo di pensare e di vivere. Il problema fondamentale è la chiusura dentro confini che sembrano invalicabili, destini segnati e irrimediabili, condizioni fatali che non prevedono svolte. Ed è su tale ineluttabilità che oggi siamo provocati: davvero non c’è modo di prendere parte attiva al cambio di rotta verso la fraternità?
La speranza di Gesù non si volge tanto alla giustizia divina, che rovescerà i potenti dai troni e innalzerà gli umili alla fine della storia, ma è soprattutto invito ad aprire occhi e cuore nel tempo presente, per mettere in atto “la giustizia degli affetti” (P. Sequeri). Il Dio che Gesù rivela con parole e gesti non è uno che ti abbandona al destino che ti procuri e ti meriti, ma il Padre amoroso che, mentre consola i disperati, non si stanca di bussare alla porta dei cuori chiusi.
Chi non ha niente e vive con la tristezza nell’animo non è così inutile come pensa: c’è lo sguardo di chi non lo rifiuta, e questo è di Dio e di coloro che lo prendono sul serio. Chi ha tutto e pensa solo per sé non è poi così certo di conservare la propria egoistica tranquillità: c’è una voce che scomoda quel po’ di coscienza che resta, non con la minaccia di perdere tutto, ma con la supplica di accorgersi del fratello e della sorella indigente.
Il Signore Gesù non è un sociologo che analizza il mondo umano e ne prevede uno divino migliore. È il Signore che desidera risparmiare a tutti i suoi figli pene di qui e pene di là, offrendo pienezza di vita possibile nell’aldiquà e certa nell’aldilà.

don Maurizio

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