Oggi, con le tre parabole dell’evangelista Luca, Gesù ci introduce nel cuore di Dio, felice di ritrovare tutto ciò che sembrava perduto. Una pecora, una moneta, due figli sono le cose e le persone più care, tutto ciò che abbiamo, anzi, ciò che il Signore ci ha donato, e di cui ci crediamo proprietari. Mentre noi fatichiamo a custodirle, e tuttavia ci sfuggono, Lui invece accetta di lasciarle andare. S’intrecciano, in modo potente e drammatico, la nostra pretesa di possedere e il modo del Signore di donare e accogliere.
La questione più complicata, per il nostro modo di considerare la giustizia nelle relazioni, sta nell’eccesso di felicità e di bontà del padre che accoglie il figlio sbandato, smanioso di libertà e poi ridotto a barbone, che si presenta a casa umiliato e perdente, oltre che perduto. Con questo racconto, Gesù risponde direttamente a «i farisei e gli scribi che mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”».
La parabola dei due figli smaschera l’indignazione di coloro che si credono dalla parte giusta, e disprezzano i pubblicani e i peccatori che si avvicinano a Gesù per ascoltarlo. Sono loro il secondo figlio che resiste alla gioia del fratello «morto e tornato in vita, perduto e ritrovato». Per il padre esiste una giustizia degli affetti che fatichiamo ad accettare, specialmente quando pensiamo che non ci sia posto per due. Torna fuori l’antica tensione tra Abele e Caino: la morte dell’uno sembra dar vita all’altro. È il conflitto originario dal quale non siamo mai liberi, e lo vediamo anche oggi, nel dramma di uno stesso popolo che si distrugge.
Gesù racconta in maniera diversa la ricerca affannata della pecora e della moneta smarrite – questi siamo noi – e l’attesa fiduciosa del padre dei due figli, seppur in modo differente entrambi perduti – questo è Dio. L’unità di tale esposizione è evidente: ritrovare ciò che era perduto suscita una gioia legittima. Anzi, a ben vedere, Gesù racconta la propria molteplice capacità di stare con noi: da una parte, Egli ci raggiunge là dove siamo e, dall’altra, noi possiamo raggiungerlo dove Lui si trova. Non siamo mai così lontani o perduti da non poter essere ritrovati.
Il problema sta nella concentrazione che abbiamo su noi stessi, quando misuriamo il dare e il ricevere, e l’altro, il peggiore, non merita mai quanto meritiamo noi. Lo sguardo di Dio, invece, va sempre oltre, tiene insieme, accoglie e perdona non solo lo smarrimento, ma anche la rigidità. Per questa ragione, la parabola dei due figli rimane aperta: non sappiamo se alla fine il figlio maggiore avrà ceduto alla supplica del padre. Ciò significa che c’è sempre speranza, anche per i più resistenti, vittime di se stessi, ma sempre accolti come figli, forse ancor più bisognosi di tenerezza e di perdono. Ad essi, infatti, manca ancora la scoperta della gioia.
don Maurizio