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Umiltà

«Allora Maria disse: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva”» (Luca 1,46-48). L’incipit del canto di Maria, la ragazza di Nazaret scelta per una missione straordinaria, potrebbe sorprendere. Ella sembra comprendere la misteriosa ragione della sua elezione, l’umiltà, e con ciò, di fatto, sminuirne il valore: chi è consapevole della propria umiltà è veramente umile? Facendo attenzione all’originale greco – tèn tapeínosin – sarebbe meglio tradurre: “la bassezza della sua serva”, nel senso di piccolezza, di povertà; da cui deriva anche “tapino”, ossia miserabile, derelitto. In realtà, Maria si rende conto dei propri limiti, senza per questo sminuirsi: lo sguardo amoroso di Dio ha colto la verità di questa giovane, e lei lo ha capito.

L’umiltà, dunque, non è solo la virtù di una persona, che altri le riconoscono, ma la stessa condizione d’indigenza: riguarda chi non basta a sé stesso e ha bisogno di sostegno, infatti deriva dalla parola latina humilis, “che sta sotto”. Tuttavia, quella di mettersi a servizio è una scelta libera che compie chi avverte la fragilità dell’altro e se ne prende cura, senza umiliarlo.

Di umiltà ha particolare bisogno chi ha un potere, una responsabilità, in certi casi persino decisiva, come acutamente osservava il giurista Piero Calamandrei riferendosi ai giudici: «Niente di male col crocifisso in aula. Ma non dovrebbe stare dietro le spalle dei giudici. Lì lo vede solo il giudicabile ed è portato a credere che lo ammonisca a lasciar perdere ogni speranza (simbolo non di fede ma di disperazione). Va messo in faccia ai giudici, ben visibile nella parete di fronte, perché lo considerino con umiltà mentre giudicano e non dimentichino mai che incombe su di loro il terribile pericolo di condannare un innocente» [Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Ponte alle grazie, Firenze, (1954) 1990, p. 319].

Tra i più significativi segni di umiltà vi è la capacità di chiedere scusa quando ci si rende conto di aver sbagliato, riconoscendo che non si è perfetti, non si ha sempre ragione, come gli altri anche noi commettiamo errori. Come pure saper dire grazie, senza ritenere che tutto ci sia dovuto, rivela l’animo nobile di chi apprezza la generosità altrui. Ricordiamo quanto papa Francesco più volte ha suggerito di scrivere sulla porta di ogni casa: «Su questa porta d’ingresso sono scritte tre parole, che ho già utilizzato diverse volte. E  queste parole sono: “permesso?”, “grazie”, “scusa”. Infatti queste parole aprono la strada per vivere bene nella famiglia, per vivere in pace. Sono parole semplici, ma non così semplici da mettere in pratica! Racchiudono una grande forza: la forza di custodire la casa, anche attraverso mille difficoltà e prove; invece la loro mancanza, a poco a poco apre delle crepe che possono farla persino crollare» (Udienza generale, Mercoledì, 13 maggio 2015).

don Maurizio

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