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Fame
«Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!» (Giovanni 6,35). Suona come paradossale la promessa di Gesù: com’è possibile non aver più fame né sete per chi crede in lui, pane della vita? Esiste dunque un pane che sfama per sempre, un cibo che assunto una volta per tutte toglie il bisogno naturale di nutrirsi quotidianamente? Forse potrebbe essere il sogno irrealizzabile dell’umanità, soprattutto di quella gran parte più povera e denutrita. Le parole del Maestro non intendono certo creare una simile illusione, dunque occorre cercarne il senso in un altro orizzonte: nelle relazioni che nutrono, che non affamano né abbandonano.
Non conviene ridurre la questione alla fame nel mondo, con la consumata retorica che conosciamo. Sappiamo bene che due terzi dell’umanità soffre la fame di cibo e un terzo fa la dieta; che gran parte del terreno coltivabile è destinato al foraggio per gli animali da carne, e i prodotti agricoli a livello mondiale potrebbero essere sufficienti a sfamare tutti, se non fossero prevalentemente utilizzati per alimentare gli animali da allevamento. E la carne non è a disposizione di tutti.
Si tratta prima di tutto della condizione umana stessa: non si cresce se non si è accuditi, se qualcuno non si prende cura di noi, se ognuno è affidato solo a sé stesso. La fame è il segnale – come la sete, il freddo e la paura – il nutrimento è la risposta. Sono bisogni che rivelano il nostro stesso essere, il diritto ad esistere, a sopravvivere in seno alla famiglia umana. Perciò non sono facoltativi, perché invocano molto di più della soddisfazione materiale: chiedono attenzione, cura, amore. L’idea che questo valga solo per i bambini è riduttiva, come se una volta cresciuto ognuno dovesse provvedere a sé stesso e a nessun altro.
Cambiano le forme, non la sostanza, al punto che se qualcuno ha fame vuol dire che è solo, abbandonato, lasciato da parte, e non importa se è colpa sua, se non lavora e non ha soldi. Chi ha fame m’interpella: se non muore silenziosamente per malnutrizione cronica, va incontro a cecità, affaticamento, riduzione della crescita e suscettibilità a ogni sorta di malattia. Per avvertire questo appello e riconoscerne il valore, probabilmente bisogna aver fatto esperienza della mancanza di qualcosa, come giustamente osserva la scrittrice belga Amélie Nothomb: «Gli esseri che sono nati sazi – ce ne sono molti – non conosceranno mai questa angoscia incessante, questa attesa dinamica, questo stato febbrile, questa miseria che tiene svegli giorno e notte. L’uomo si costruisce a partire da quello che ha conosciuto nel corso dei primi mesi di vita: se non ha sperimentato la fame, sarà uno di quegli strani eletti, o di quegli strani dannati, che non edificheranno la loro esistenza sulla mancanza» (Biografia della fame, 2004).
Alla fine, ha ragione Alda Merini, quando coglie nella tenerezza la radice profonda che ci rende capaci di donare ciò di cui riconosciamo il bisogno:
«Abbiamo fame di tenerezza,
in un mondo dove tutto abbonda
siamo poveri di questo sentimento
che è come una carezza
per il nostro cuore
abbiamo bisogno di questi piccoli gesti
che ci fanno stare bene,
la tenerezza
è un amore disinteressato e generoso,
che non chiede nient’altro
che essere compreso e apprezzato».
don Maurizio