Con la storia del padre misericordioso e dei due figli perduti, Gesù pone la nostra umanità di fronte ad uno specchio, ove si riflettono i tratti di ciascuno di noi, delle nostre relazioni verticali e orizzontali. Ma soprattutto emerge il profilo del volto di Dio, dinanzi a qualunque resistenza al suo amore appassionato e senza riserve. Gesù racconta questa storia perché i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Dunque è una spiegazione del motivo per il quale il Signore sta volentieri con i peggiori, non li scarta, anzi siede a mensa con loro.
Il primo figlio, il più giovane, come ogni ragazzo, ha voglia d’indipendenza, vuole andare in cerca della propria strada, perciò chiede denaro e se ne va. Al padre probabilmente non dispiace questa legittima aspirazione, gli lascia corda lunga, accondiscende e lo lascia partire. Magari egli sa che è fragile, come ogni giovane si troverà di fronte a molte difficoltà, perciò lo aspetta: quella è e rimane la sua casa. Così di fatto avviene. Si trova nel bisogno, cerca lavoro e pane, ma invano, ed ecco una svolta: «Allora ritornò in sé». Comincia un dialogo interiore, pensa alla sopravvivenza, decide di tornare a casa da servo, spinto dal bisogno.
Noi, forse in maniera ipocrita, saremmo tentati di giudicarlo. Invece: «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Al padre non interessano i motivi, non gli lascia neppure terminare il discorso, per lui bisogna subito festeggiare: «perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Un’esagerazione? Forse. Almeno per il fratello maggiore, che si sente offeso, teme che gli venga tolto qualcosa, come se non ci fosse più posto per due nel cuore del padre.
Questa storia parla di noi, ma soprattutto di Dio. Del diritto di essere liberi, che solo il vero amore concede; del coraggio di riconoscere la propria miseria, e di chiedere umilmente aiuto; dell’osservanza di regole senza cuore; della gioia di ritrovarsi, e della tristezza che viene dall’orgoglio. Tuttavia, il racconto rimane aperto: non sappiamo se, dinanzi alla supplica del padre, il figlio maggiore rientrerà a casa per la festa. Il brano evangelico ce lo lascia sperare. Fatto sta che, per il padre, «questo mio figlio» è «tuo fratello», perduto e ritrovato, morto e tornato in vita.
Si dischiude così l’orizzonte pasquale, al quale ci stiamo avvicinando: il passaggio dalla morte alla vita. Per Dio contano più gli effetti che le cause. Non c’è mai un dolore senza speranza di vita, mai una pena da cui non essere risollevati, che tocca uno e riguarda tutti. Il figlio, che vorrebbe essere trattato da servo, trova un padre che gli corre incontro. Il fratello, che ha vissuto da servo, fatica a diventare figlio. Nessuno è perfetto. Ma non è questo che dispiace al Signore. Se disprezzasse l’umano peggiore, sarebbe solo come noi, una brutta controfigura. Invece, il suo amore appassionato «è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia» (Benedetto XVI, Deus caritas est, 10).
don Maurizio