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Disabilità
«Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. […] pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!”» (Marco 7,32.37). Il fatto che nei vangeli ricorrano frequenti contatti tra Gesù e le persone segnate da varie disabilità è interessante anzi tutto per la spinta interiore che le muove verso di lui, o di chi è loro vicino. La condizione di limite fisico, psichico o sensoriale mette in movimento, fa chiedere aiuto, domanda sostegno. Certo, nella speranza di essere risanati, ma ciò che qui merita notare è il tipo di rapporto che si stabilisce a partire dalla fragilità. Avere un limite, non essere autonomi e dipendenti da altri significa appartenere ad una sorta di mondo parallelo, effettivamente altro da quello della maggioranza della gente. In realtà, una persona disabile non è mai completamente inabile: proprio la sua condizione la rende adattabile a situazioni diverse, con ingegno, fantasia e creatività. C’è da trovare il modo, ed è sempre possibile nella misura in cui si stabiliscono relazioni adeguate.
Nessuno è tanto disabile da non poter essere felice. Esiste per tutti uno spazio in cui tentare l’avventura della felicità, contrariamente a quello che molti credono oggi, nati e cresciuti sotto il segno del narcisismo, e sempre più sfiniti dallo sforzo di passare per “la cruna dell’ego” – come ha scritto Pierangelo Sequeri. Qui abita la tentazione dell’egolatria e della autoreferenzialità. Paradossalmente, oggi, viviamo nella società più connessa di tutti i tempi – “tecnoliquida”, la chiama Tonino Cantelmi– in cui si stabiliscono innumerevoli relazioni virtuali, fatte di contatti, amicizie, like, cinguettii, ma dove «soprattutto ci si può dimenticare che alla base della relazione c’è la finitudine, l’essere limitato dell’uomo che ha bisogno di comunicare perché non è autosufficiente e non può raggiungere la propria felicità da solo» (Tecnoliquidità, 2013). Dunque, la felicità è possibile quando lo sguardo cambia direzione, passando dal sé al tu, dall’io al noi.
Proprio con i più fragili, le strade della felicità possibile vanno percorse insieme partendo da loro. Per superare l’imbarazzo nei confronti di un persona con disabilità occorre l’umiltà di farsi guidare, di chiedergli come fare per aiutarla. Non si può partire da sé stessi, non sapremmo che fare: questo è già il primo segnale che indica la via. È necessario riconoscere la propria incapacità di trovare soluzioni, accontentandosi di stare vicino, di accogliere e di accompagnare, senza la pretesa di risolvere. Questa specie di impotenza è proprio ciò che ci avvicina, è il comune confine della vulnerabilità: o si attraversa insieme o diventa un muro invalicabile. Lo sapeva bene la pittrice messicana Frida Kahlo (1907-1954), resa invalida da un grave incidente, che scriveva a Diego Rivera, pittore e marito col quale ebbe un travagliato rapporto: «Non fare caso a me. Io vengo da un altro pianeta. Io ancora vedo orizzonti dove tu disegni confini».
don Maurizio